“L’austerità non paga… La marcia in più dell’economia Usa rispetto a quella europea dipende dal fatto che gli Stati Uniti non hanno abbracciato l’austerità di bilancio nella stessa misura dei Paesi deboli dell’Eurozona… i deficit gemelli del 2012, all’11,8% del Pil, non sono molto distanti da quelli medi del 2007-2011 (13,7%) e molto superiori alle medie storiche. E il dollaro sta bene, mentre gli Usa finanziano il disavanzo a tassi storicamente bassi”. (F. Galimberti)
“L’austerità non paga” è il mantra che i keynesiani vanno ripetendo ossessivamente da parecchio tempo a questa parte, soprattutto guardando la performance negativa delle economie europee dove maggiore è stata la restrizione nella politica fiscale. Da ieri sicuramente avranno motivo di soddisfazione, dopo che la Francia ha dichiarato che non abbasserà il suo deficit sotto al 3 per cento del Pil nel 2013, prontamente seguita da una comunicazione del commissario europeo Olli Rehn che prefigura una linea più morbida da parte della Commissione europea con chi sfora i parametri di Maastricht. Come sempre, Orwell aveva ragione quando scrisse, nella “Fattoria degli animali”, che “tutti gli animali sono uguali, ma alcuni lo sono più di altri”.
Ciò detto, ho già sostenuto anche di recente che una politica fiscale potrebbe definirsi autenticamente austera se fosse basata su consistenti tagli di spesa, mentre in giro per l’Europa, e in Italia in particolare, a farla da padrone è l’aumento della tassazione. Tra l’altro è inevitabile che una politica fiscale restrittiva porti nel breve periodo una diminuzione del Pil. Il problema, semmai, è che se la politica restrittiva è basata su un aumento della pressione fiscale è ben difficile che alla iniziale diminuzione del Pil segua un periodo di crescita sostenuta.
Ciò che i keynesiani tendono a tralasciare nei loro commenti contro l’austerità, però, è un aspetto non privo di importanza: una crescita del Pil ottenuta senza badare all’andamento dei conti pubblici non solo non è sostenibile, ma pone le basi per una crisi da eccesso di debito che, prima o poi, graverà sulle spalle dei contribuenti. L’espediente keynesiano consiste nel non prendere in considerazione ciò che accadrà domani, disinteressandosi completamente delle sorti delle generazioni giovani/future. Non può essere spiegata altrimenti la compiacenza con la quale fanno paragoni tra Stati Uniti ed Europa, evidenziando la crescita del Pil dall’altra parte dell’Atlantico e non considerando preoccupante il grave deterioramento dei conti pubblici (oltre cinque dollari di nuovo debito federale per ogni nuovo dollaro di Pil negli ultimi quattro anni), ritenendo che a dar loro ragione siano i “tassi storicamente bassi”.
Il fatto è che questi tassi storicamente bassi non sono il frutto di un eccesso di risparmio reale, ma di un eccesso di creazione di base monetaria che, negli Stati Uniti, sta assumendo da oltre quattro anni la forma di una sostanziale monetizzazione del debito federale da parte della Fed. Ci si può forse illudere che questa tendenza possa essere perpetuata senza che ciò crei problemi, ma in tal caso si dovrebbe spiegare in virtù di quale meccanismo sia possibile ottenere in via strutturale qualcosa di reale in cambio di nulla e, di conseguenza, per quale motivo si debba continuare a lavorare quando sarebbe possibile consentire a tutti di condurre una vita più che dignitosa semplicemente creando denaro dal nulla e distribuendolo.
In effetti non mancano sostenitori di “soluzioni” di questo tipo, ma i keynesiani non si spingono fino a proposte di tale assurdità. Tuttavia, chi vorrebbe un uso sistematico della stampante monetaria non fa altro che chiedere la democratizzazione della distribuzione dei benefici della creazione di denaro dal nulla. Va da sé, però, che se i keynesiani sono contrari a tale forma di “democratizzazione” della stampa di denaro, significa che sono consapevoli che ciò condurrebbe all’iperinflazione e allo sfascio del sistema monetario e dell’intera economia. Ma nella loro idea che l’inflazione vada somministrata alle “giuste” dosi (giuste in base al loro punto di vista) è implicita l’ammissione che l’uso della politica monetaria non è altro che una variante dell’uso della tassazione, perché sempre di redistribuzione si tratta. Per di più operata in maniera decisamente meno trasparente.
In definitiva, si dicono contrari all’austerità oggi, senza spiegare che sarà inevitabile imporre sacrifici domani a coloro che oggi non hanno potere decisionale, magari cercando di confondere le acque mediante l’inflazione. A mio parere aveva ragione da vendere Hanry Hazlitt, quando ammoniva che “oggi è già il domani che il cattivo economista ieri ci invitava a ignorare”.
L’austerità paga se a farla è il sistema pubblico.
Uccide se è imposta al sistema privato.
Così mi pare che sia.
L’austerità che intendono a Berlino sono solo tasse. Tutti i memorandum imposti a Grecia, Portogallo, Spagna e – non ufficialmente, ma tramite commissario – Italia sono in gran parte tasse.
Al massimo arrivano tagli al sistema pensionistico che, in via del tutto teorica, dovrebbero essere soldi dei cittadini accantonati (in realtà è uno dei tanti schema Ponzi). Diciamo che quanto meno con tutti i tagli che ci sarebbero da fare le pensioni potevano attendere.
L’Irlanda si è rifiutata di alzare le tasse, infatti si smazza i suoi problemi col FMI e non con tutta la Troika.
Finché sotto lo stesso nome includeremo l’aumento delle tasse e la riduzione delle spese faremo solo del gran casino.