Quanto conosciamo della realtà storica delle nostre città italiane? Molto, basterebbe aprire qualche libro di storia, fare più attenzione quando il museo propone qualche mostra di stampe antiche o quando la biblioteca acquisisce qualche nuovo volume, e saremmo tutti quanti più informati a riguardo. Viene dato molto spazio alle affascinanti storie che le nostre città hanno annoverato in età precomunale e comunale, ma poca memoria riserviamo loro per farne tesoro e imparare da un’epoca storica che erroneamente troppi considerano oscurantista e barbara.
Basti pensare all’emblematica frase medievale “Stadtluft macht frei”, l’aria della città rendere liberi, riferita alla legge secondo la quale un contadino fuggito dal suo feudatario poteva considerarsi libero (e quindi cittadino) dopo un anno e un giorno lontani dal proprio padrone. Ed è proprio partendo da questo presupposto di libertà che si fonda la storia comunale, che nel XII secolo in Italia si afferma con il suo massimo splendore, grazie soprattutto alle rivendicazioni indipendentiste e alle liberalizzazioni (nonché all’abbassamento e talvolta anche all’abolizione delle tasse) portate avanti dal potente ceto mercantile comunale. Anche una piccola realtà come Cremona, a quell’epoca, ha potuto annoverarsi (per un breve ma intenso periodo) come città indipendente, fondata sul commercio del sale, dei tessuti e delle carte da gioco (i trionfi, meglio conosciuti come tarocchi), nonché grazie ad una storia ormai quasi sommersa, come quella dell’accesso alla cultura.
Un utile archivio in cui trovare materiale a riguardo è il sito di Reti Medievali, nella sezione della didattica, dove abbiamo trovato questo interessantissimo pezzo dedicato all’organizzazione scolastica: nonostante la grande importanza rivestita dalle istituzioni ecclesiastiche cittadine, secolari e religiose, nell’organizzazione della scuola, occorre rilevare che caratteristica della città italiana fu la spontanea iniziativa degli studenti laici di raccogliersi attorno a un maestro e di riconoscerlo come capo della loro associazione. Le due lettere che riportiamo, della prima metà dei XII secolo, riguardano proprio la corrispondenza fra un gruppo di scolari di Cremona e il magister Alberto, inviato a Cremona dagli scolari che gli garantiscono un congruo numero di allievi e gli offrono adeguato compenso. In questo caso tuttavia il maestro si scusa e declina l’offerta, perché già impegnato in precedenza con altri studenti bolognesi ed invitando gli studenti di Cremona a raggiungerlo con la promessa di essere accolti come “figli”.
“Ad Alberto, dottore esimio e ripieno di divina sapienza, distinto per l’onestà dei costumi, presta soggezione da discepolo G., infimo fra gli scolari. La fama della tua sapienza e probità, illustre dottore, in lungo e in largo diffusa, mi è stata riferita da molte persone veritiere e mi ha spinto con intensità e mi ha convinto a scriverti per richiederti sorsate melliflue dalla fonte della tua dottrina. Ho saputo infatti per sentito dire che sei di nobile stirpe, illuminato dalla sapienza e adorno di buone abitudini e prego dunque la tua benevolenza di maestro di venire nella nostra città [di Cremona] nel prossimo inverno per insegnare a cinquanta o più scolari, i quali ti daranno un pegno per renderti sicuro che resteranno per un anno insieme con te e ti ricompenseranno della tua dottrina e della tua fatica. Alberto al carissimo compagno, lo scolaro cremonese G. e agli altri compagni suoi augura ogni bene. Abbiamo accolto con gioia la lettera del vostro sollecito interesse, carissimi compagni, e l’abbiamo letta con mente benigna. Con grande desiderio accoglieremmo la vostra richiesta se fosse possibile, ma siccome abbiamo già accolto i pegni e impegnata la nostra parola [con gli studenti bolognesi], abbiamo deciso di soggiornare per un anno a Bologna e lì inderogabilmente insegnare. Per questo motivo pensate piuttosto a venire voi qui da noi che vi accoglieremo, se lo vorrete, come figli carissimi e come a figli amati potremo insegnare”.[1]
Ma torniamo a parlare di mercanti, anzi, per poterne analizzare meglio le caratteristiche, facciamo un salto ancora indietro nella storia: nel 774, con l’ultimo re Desiderio finisce la dominazione longobarda in Italia. I guerrieri pannonici vengono sconfitti dai franchi di Pipino e di Carlo Magno e Cremona diventa un ducato franco. Ma i nuovi dominatori non hanno una classe dirigente numericamente forte da soppiantare i longobardi: per governare devono appoggiarsi a loro e soprattutto consegnare il potere in mano ai vescovi che lo esercitano appoggiandosi alla dinastia franca. Anche a Cremona avviene questo passaggio, ma le cose stanno per cambiare: vicino a un’aristocrazia antica abbarbicata attorno al palazzo vescovile sta crescendo una borghesia dinamica, mercantile che scalpita per conquistare il potere, o quanto meno di partecipare al controllo della città e dei suoi traffici. Per ben due secoli questo processo si evince dalla documentazione medievale che riportano continue dispute tra mercanti e vescovo per i diritti sul Po, su alcune terre, su alcuni villaggi e le produzioni.
Infatti, la presenza di una popolazione concentrata richiede l’afflusso in città di derrate alimentari e di prodotti di prima necessità: l’attività terziaria, cioè quella relativa ai servizi di distribuzione, diventa così espletamento di una precisa funzione urbana economica. Gli addetti a tale attività sono i mercanti e fin dall’alto Medioevo la città italiana ospita questa categoria: ne è prova eloquente la lamentela che i Cremonesi rivolgono verso l’851-52 all’imperatore Ludovico II per protestare contro le imposizioni pretese dal vescovo di Cremona dai mercanti cittadini che attraccavano al porto locale. Nella prima metà del IX secolo i Cremonesi, che in precedenza apparivano associati agli abitanti di Comacchio per il commercio del sale, navigavano ormai con navi proprie e si presentavano come una precisa categoria cittadina.
I mercanti furono anche un importante riferimento culturale, impegnati nel delicato compito del consolidamento dell’economia interna, della tutela del commercio internazionale, facendo sì che nella città italiana potesse svilupparsi la figura caratteristica dell’«uomo d’affari», originariamente cambiatore e presta-denari, ma al tempo stesso mercante e imprenditore. Lo spostamento di capitali tramite lettere di credito, lo sviluppo delle banche e della scienza finanziaria presuppongono una vita cittadina che aveva ormai raggiunto livelli di specializzazione ben distinti e lontani dal mondo rurale. Erano infatti i «cittadini» che viaggiavano e commerciavano, dando vita a imperi finanziari: «lombardi» come i Piacentini e gli Astigiani che in società con i Genovesi frequentavano le fiere della Champagne, «toscani», come i Fiorentini e i Senesi che dirigevano grandi compagnie con sede italiana ma con filiali in tutta Europa, come i Peruzzi.
I Comuni della Bassa Lombardia e dell’Emilia furono precursori delle liberalizzazioni e delle leggi antimonopolio, ma non solo: a questa ‘prima fase’ fecero seguire la cosiddetta fase B’, quella dello sviluppo. A Cremona, ad esempio nel XIII secolo c’erano norme severissime contro i mercanti che facevano cartello o monopolio, ma nello stesso tempo erano previste esenzioni dalle tasse e agevolazioni tributarie. A Bologna addirittura uno statuto comunale colpiva la corporazione dei farmacisti intimando ai ‘capi’di non fissare prezzi prestabiliti «nè di proibire ad alcuno di detta società di accostarsi ai malati ed anche ai sani ai fini di cura». La ‘fase B’ bolognese fu quasi spettacolare, per attirare i mercanti di tessuti in città la municipalità assicurava: due telai gratis, un muto di 50 lire senza interessi, esenzione dalle tasse per 15 anni, e, circostanza da sottolineare, concedeva immediatamente la cittadinanza bolognese. Ma anche Cremona si difese bene.
Tra il XII e il XIII secolo la città fu ricca e potente, dal 1155 operò addirittura una zecca che batteva moneta propria, i mercanti cremonesi partirono alla conquista dei mercati di mezzo mondo, accrescendo il benessere della città. Alle corporazioni venne chiesto di fissare per iscritto i loro statuti, vennero abbassate le tasse, in alcuni casi addirittura abolite. Ma non fu solo ‘protezionismo’: i dirigenti cremonesi sapevano bene che l’economia di mercato è libertà di iniziativa, di movimento, di concorrenza (sempre nelle regole), per cui i benefici vennero estesi anche ai mercanti che arrivavano da fuori. Venne stipulato un trattato con i ‘mercantati’ francesi, a quelli di Genova venne assicurato un rimborso per i crediti non incassati e vennero stipulati trattati con Pavia e Piacenza. Con Venezia si aprì un tavolo che portò ad un accordo per rendere più sicure le strade verso est. Ma non solo, con la signoria dei Visconti i mercanti fiorentini vennero esentati dal pagare i pedaggi se per raggiungerela Franciapassavano da Cremona, Pizzighettone o Lodi. Il Po ritornò ad essere un asse viario fondamentale: la stazione di transito non era più Piacenza, ma Cremona, al suo porto arrivavano mercanzie da tutta Italia. E per favorire le merci di lusso vennero previste esenzioni doganali: a Cremona e Milano divennero di moda le merci fiorentine. Una politica economica che mantenne Cremona a buoni livelli anche nel XIV secolo, un periodo di crisi, durante il quale la città non era più la potenza imperiale del secolo precedente, ma con queste misure continuò ad esserela Capitaledel Po, mantenendo un tenore economico di buon livello.
Particolare attenzione merita il tema della fiera cittadina, che faceva convergere sulla città articoli meno usuali, introvabili sul normale mercato settimanale: l’afflusso di merci e di operatori commerciali provenienti da luoghi lontani favoriva scambi non solo economici ma anche umani fra genti diverse e rendeva in quel momento la città vero centro di attrazione per gli abitanti abituali e per quelli che risiedevano nell’area circostante. I mercanti non erano vili affaristi votati esclusivamente alla propria ricchezza, erano forse il modello di cittadino capace di includere una prospettiva veramente filantropica nella propria vita, preoccupandosi allo stesso tempo della gestione del proprio patrimonio. Anche in questo caso Cremona ci viene in aiuto con una delle sue storie: quella del patrono cittadino Omobono Tucenghi. Omobono Tucenghi nacque nella prima meta del XII secolo in una Cremona al tempo fiorente per la sua posizione privilegiata al centro della Pianura Padana, importante porto fluviale sul Po e rilevante crocevia stradale per la vicinanza di uno dei principali guadi del fiume. La sua famiglia apparteneva al “popolo”, termine che nelle città dell’Italia settentrionale dell’epoca non indicava tanto gli strati sociali inferiori quanto la borghesia: infatti, il padre possedeva una casa in città e terre e vigneti nelle campagne circostanti. Il giovane Omobono ereditò i beni paterni e proseguì nella sua professione: artigiano nel settore della confezione di abiti e, allo stesso tempo, mercante di stoffe e lana, secondo alcune fonti praticò anche il commercio su lunghe distanze e l’attività di cambio.
Fu grazie alla sua grande abilità negli affari che Omobono divenne una figura di spicco della città, famoso anche per la sua dedizione religiosa e, soprattutto, per la sua generosità: secondo la sua concezione, infatti, la carità verso i poveri era un preciso dovere morale al quale non poteva astenersi, utilizzando sempre il denaro guadagnato dalla sua profittevole attività per opere caritatevoli e l’aiuto agli indigenti.
La sua generosità era tale che si riteneva che la sua borsa, di fronte ai poveri, fosse sempre piena per intercessione divina e, ancora oggi (ad oltre ottocento anni di distanza) a Cremona rimane il detto “non ho mica la borsa di sant’Omobono!” per respingere richieste eccessive di denaro. Il 13 novembre del 1197, morì improvvisamente, accasciandosi durantela Messa. Subito dopo la sua morte si diffuse la fama di santità e cominciarono i pellegrinaggi alla sua tomba, in proposito, il vescovo Siccardo e una rappresentanza cittadina, si rivolsero a papa Innocenzo III.
La canonizzazione arrivò il 13 gennaio 1199, un anno e due mesi dopo la morte, una velocità sorprendente e ciò rappresentò un grande stravolgimento per l’epoca, soprattutto per la velocità con cui avvenne: Omobono, infatti, era un laico, un borghese, e non da ultimo un mercante (attività fino ad allora considerata peccaminosa) il primo santo medioevale a non far parte né del clero né della nobiltà. Il mercante infatti comprava la merce ad un prezzo per rivenderla (senza lavorarla) ad uno più alto, attività che per i dotti del tempo non poteva che realizzarsi truffando il fornitore, il cliente o entrambi. Attraverso la canonizzazione, la figura del mercante e imprenditore venne così sdoganata.La Chiesariconobbe incontrovertibilmente e con tanto di sigillo papale, non solo la legittimità di tale attività ma addirittura la sua bontà.
Dal 1643 sant’Omobono è il patrono di Cremona dove riposa, in una teca di vetro, nella cripta della cattedrale con la sua borsa legata al fianco. Durante le nostre ricerche sull’argomento abbiano inoltre curiosamente scoperto che la figura di Omobono è nota anche oltre oceano: negli Stati Uniti, infatti, statuette di sant’Omobono sono vendute come gadget da scrivania, dove come santo patrono dei businessmen, è divenuto una figura rilevante nella cultura d’impresa.
Ma abbiamo parlato anche di sentimenti indipendentisti e, contemporaneo di Tucenghi troviamo anche un altro personaggio del medioevo cremonese, la cui vicenda, ammantata da mistero, dimostra che anche Cremona non era da meno sul fronte autonomista: stiamo parlando di Giovanni Baldesio. Della sua vita si sa poco o nulla, tant’è che molti storici lo ritengono niente più di una leggenda. La sua storia si svolge nella seconda metà del XI secolo, a quei tempi l’imperatore tedesco Enrico IV e il Papa Gregorio VII erano in aperto conflitto riguardo a chi appartenesse il diritto di nominare i vescovi-conti e la disputa portò l’imperatore a dichiarare illegittimo il Papa, il quale rispose scomunicandolo. Approfittando del clima di incertezza Cremona smise di pagare il tributo annuale all’imperatore, che consisteva nella consegna di una palla d’oro del peso compreso tra i due e i tre chilogrammi.
Nel frattempo la tensione tra papato ed impero crebbe al punto da sfociare in un intervento militare: nel 1081, infatti Enrico IV discese in Italia con il suo esercito determinato a risolvere la questione delle nomine, a rifarsi dell’umiliazione subita a Canossa e a rimettere in riga i riottosi Comuni del nord. Giunto a Cremona, ormai in arretrato con il pagamento di tre palle d’oro, la cinse d’assedio e per evitare un sanguinoso attacco si giunse ad un accordo con l’imperatore: Giovanni Baldesio, gonfaloniere maggiore della città si sarebbe scontrato in duello con il figlio dell’imperatore, il futuro Enrico V.
Secondo la leggenda Baldesio, in uno scontro avvenuto davanti alle mura della città, riuscì a disarcionare l’erede imperiale liberando Cremona dal tributo, un evento così importante che pochi anni dopo lo stemma cittadino venne cambiato: nella metà sinistra mantenne le bande orizzontali con i colori della città (bianco e rosso), ma nella metà destra venne aggiunto, in campo blu, un braccio che regge una palla d’oro con la scritta in lingua tardo-latina “fortitudo mea in brachio”, la mia forza sta nel braccio. La storia di Giovanni Baldesio, per la sua impresa soprannominato Zanén dela Bàla(Giovanni della Palla), si conclude con il matrimonio con la ricca e bella Berta, a cui fu donata l’ultima palla d’oro prodotta dalla città. Proseguì invece la storia di Enrico IV, che sconfitto il Papa Gregorio VII nominò l’antipapa Clemente III e rimase a Roma fino al 1084, quando fu sconfitto dai normanni.
Nel 1093 l’imperatore tornò in Italia deciso ad affrontare il nuovo Papa Urbano II, con cui i rapporti non furono migliori di quelli avuti con Gregorio VII, ma ad attenderlo trovò la lega dei comuni di Cremona, Lodi, Milano e Piacenza. Il conflitto si risolse con il giuramento di obbedienza da parte di Enrico IV al Papa, il quale riconoscente donò l’isola Fulcheria (cioè l’area del cremasco, che al tempo costituiva realmente un’isola al centro del lago Gerundo) a Cremona. Tale donazione le permise di costituirsi libero Comune, con un proprio carroccio, autonoma dal potere imperiale (per questo sopra lo stemma cittadino venne aggiunta una corona). Grazie all’indipendenza e alla libertà ottenuta dalla città grazie a Giovanni Baldesio, Cremona diventò una delle più ricche, potenti e popolose città dell’Italia Settentrionale.
Durante tutta la sua storia di Comune indipendente, fu sempre una città ghibellina, salda alleata dell’imperatore tedesco: ciò permise alla città di togliersi non poche soddisfazioni contro rivali storici come l’assedio di Crema del 1159 che venne conquistata e rasa al suolo[2]. Stessa sorte toccò alla potentissima Milano nel 1162, una volta distrutta la città, i milanesi vennero dispersi in quattro diverse località e, nel medesimo anno la conquista con successiva distruzione delle mura di Piacenza e Brescia. Successivamente vi fu una breve interruzione dell’alleanza con l’impero, quando la città si rivoltò contro Federico Barbarossa per il suo straripante potere in nord Italia, creando nel 1167 con Crema, Brescia, Bergamo, Mantova e i dispersi milanesila “Legacremonese”, che in seguito alla fusione conla “Legaveronese” diede vita alla “Lega lombarda”.
Tuttavia Cremona, forte dei legami con l’impero, svolse principalmente un ruolo di intermediazione tra la Lega e l’imperatore e non partecipò ai combattimenti della battaglia di Legnano. Il sodalizio con l’imperatore proseguì anche con Federico II, con la vittoria ottenuta presso Cortenuova contro gli eserciti di Brescia, Bergamo e Milano e fino al definitivo declino imperiale in nord Italia partecipando alla sconfitta di Vittoria (presso Parma) nel 1248. Nel 1250 Federico II morì, lasciando un importante vuoto di potere imperiale, che non avrà più la forza di intromettersi nelle faccende italiane. Nel frattempo Cremona era retta da un’aristocrazia nobiliare di stampo ghibellino, fino ad allora egemone della politica cittadina, che aveva contenuto e respinto tutte le istanze dell’opposizione guelfa e con la sparizione del potere imperiale le cose cominciarono a cambiare.
Lo scontro tra le due fazioni, nobili ghibellini contro borghesi guelfi, si accese sempre più, con scontri spesso molto cruenti, arrivando nel 1256 alla secessione da parte dei guelfi. Venne così fondata una Città Nova, con tanto di piazza centrale con ai due lati opposti il palazzo comunale e la principale chiesa cittadina (ricalcando esattamente lo schema della piazza centrale della città “vecchia”) . Ciò che suscita senz’altro interesse è il luogo della fondazione: appena al di fuori delle mura, tant’è che i due palazzi comunali distano tra loro meno di ottocento metri. Di fatto quindi si veniva creando all’interno della stessa città, la compresenza di due governi separati e rivali che durò fino al ‘300. Il centro di questa città nova, tutt’ora esistente,è composto dal palazzo Cittanova (la sede del comune) e dalla chiesa di s’Agata (di cui rimane solo l’originale campanile).
[1] G. ARNALDI (a cura di), Le origini dell’università, Bologna, Il Mutino, 1974, p. 130.
[2] Durante l’assedio i cremonesi catturarono nelle campagne diversi cittadini cremaschi, che, ancora vivi, furono appesi alle torri d’assedio, costringendo i difensori della città ad uccidere i loro stessi concittadini per poter colpire le torri nemiche. Ciò provocò un’accesa rivalità tutt’ora mai sopita.