Stefano Fassina ha parlato: “Rimaniamo convinti che il lavoro sia un diritto garantito dalla Costituzione e chiederlo non è troppo… occorre ridefinire il quadro delle condizioni attorno al quale l’azienda Carbosulcis può funzionare e mettere subito in pratica il Piano Sulcis, affinché il governo nazionale possa definire dei correttivi e si possa attuare una filiera produttiva in un’ottica di complementarietà e integrazione.”
Poteva il responsabile economico del Pd, dire qualcosa di diverso? Realisticamente no. Parlava agli operai della Carbonsulcis, e una retorica del genere era scontata. Si tratta, tuttavia, di parole illusorie e fuorvianti, a mio avviso.
L’accezione di diritto al lavoro che Fassina (come tanti) trae dalla lettura della Costituzione condurrebbe a una situazione che nessuna persona ragionevole può seriamente ritenere praticabile, né auspicabile. Il presupposto per la creazione e il mantenimento di un posto di lavoro è che l’attività di chi lo occupa contribuisca alla produzione di un bene o di un servizio la cui domanda di mercato consenta di venderlo a un prezzo tale da generare la copertura dei costi e la remunerazione di chi assume il rischio di impresa. La sola copertura dei costi di produzione o, peggio ancora, l’operatività in perdita possono essere temporanee, ma non sono sostenibili a lungo andare, pena il fallimento o la liquidazione volontaria da parte dell’imprenditore (perché continuare a rischiare se regolarmente non si trae un profitto?).
Tuttavia, se ognuno veramente avesse il diritto di ottenere e/o mantenere un lavoro a prescindere dalla sostenibilità economica, vorrebbe dire che qualcun altro avrebbe l’obbligo di sopportarne l’onere, sempre a prescindere dalla sostenibilità economica. Una circostanza discutibile dal punto di vista dell’inevitabile parassitismo che genera, oltretutto insostenibile qualora i posti di lavoro improduttivi divenissero più numerosi di quelli produttivi.
Queste considerazioni non sono frutto della volontà di vedere persone (a volte migliaia, come nel caso in questione) rimanere disoccupate; sono una semplice constatazione del fatto che il lavoro o è produttivo (nell’accezione sopra descritta) o non lo è, e se non lo è finisce per drenare risorse che avrebbero potuto essere impiegate dai legittimi proprietari in modo alternativo, magari generando posti di lavoro produttivi. Ma i posti di lavoro che i Fassina di questo mondo vogliono altruisticamente salvare (dove il vero altruismo consiste nell’uso del denaro altrui) si vedono e sono messi in evidenza dai mezzi di comunicazione, generando anche una comprensibile solidarietà da parte di molte persone. Al contrario, i posti di lavoro che non possono essere creati perché le risorse sono prelevate coercitivamente ai legittimi proprietari (attuali, in caso di aumento della tassazione; futuri, in caso di aumento del debito pubblico) non si vedono e non aumentano il consenso politico di nessuno.
Sta di fatto che se i piani governativi funzionassero, non ci troveremmo nella situazione attuale, che si trascina da decenni, ovviamente senza soluzione. Quanto al resto, dai “correttivi” all’attuazione di una “filiera produttiva in un’ottica di complementarietà e integrazione”, si tratta né più né meno che di aria fritta.
Se il lavoro non e’ un diritto, le tasse non sono un dovere