Ho voluto riportare il link all’intero articolo del Corriere della Sera perché altrimenti avrei dovuto riportarlo quasi per intero. Dunque Dario Di Vico, che scrive di faccende economiche sul quotidiano milanese, conclude che, in merito all’ingaggio che il Psg pagherà a Zlatan Ibrahimovic, “il mercato (purtroppo) non c’entra”.
Come giunge a tale conclusione? Facendo alcuni calcoli ipotetici su quante magliette dovrebbero vendere o su cosa dovrebbero vincere, Di Vico sostiene che nel caso di Ibra non funzioni la teoria della creazione del valore. E questo per nulla dire del parere in base al quale cotanto ingaggio farebbe “a pugni con l’etica e persino con il buonsenso”. Da vero e proprio “indignado”, Di Vico pare perfino auspicare un accanimento del fisco francese nei confronti dell’attaccante svedese, il quale, peraltro, ha giustamente preteso che il suo ingaggio netto sia esente dagli effetti di assai probabili inasprimenti fiscali promessi dal socialista Hollande.
Ora, a parte la pessima dimostrazione di invidia fornita da chi si rallegra nel caso in cui una persona che guadagni consistenti cifre di denaro in base a un contratto volontariamente stipulato da chi quelle somme gli riconosce venga tassato al 75%, Di Vico avrebbe a mio parere dovuto precisare che la cosa fa a pugni con la sua personale etica e il suo personale buonsenso. Che potranno pure essere condivisi da una moltitudine di persone, ma non sono dei dogmi.
Ciò detto, contrariamente a Di Vico io credo che il mercato abbia proprio fatto quello che da esso ci si deve aspettare: ha fissato un prezzo quando domanda e offerta si sono incontrate. Quando Di Vico afferma (con apparente
sdegno) che “Zlatan in questo contesto è un mero oggetto del desiderio e quindi il prezzo della sua prestazione può essere calcolato solo in termini di affezione”, non fa altro che supporre che esista un valore oggettivo, ma ogni volta che un individuo decide di acquistare o vendere qualcosa a un determinato prezzo lo fa sulla base di una valutazione soggettiva.
Vorrei quindi concludere con le parole usate da Carl Menger nel suo “Principi di economia” (1871), che a mio parere ben descrivono il concetto fondamentale di valore: “Il valore è l’importanza che i singoli beni o le quantità di quei beni hanno per noi perché siamo consapevoli che la soddisfazione dei nostri bisogni dipende dalla nostra disponibilità di quei beni”.
Mmm… mi sa che troppi sedicenti economisti si sentano in grado di pontificare solo per il fatto di aver frequentato chissà quali studi ed avere in studio chissà quali libri (impolverati).
Che non succeda poi, che qualcuno gli dia spazio per lanciar peti (pardon, scrivere articoli) in prestigiose testate, che si sentono onnipotenti “so tutto mi”. … io! sono il verbo!
La verità sta proprio nell’inviadia.
Banale, misera, vile debolezza.
direi che ci sono persone con problemi economici molto più importanti di qualunque tassa debba pagare qualunque giocatore di serie a(di qualunque paese soprattutto europeo)….ma mi raccomando continuiamo a farci prendere in giro..ci vuole continuità nella vita………………..
Evidentemente questi incolti “esperti” di economia che pontificano dalle pagine del prestigiosio quotidiano che fu di Einaudi, Lenti, Corbino sono rimasti alla teoria del valore di Smith, Ricardo e Marx. Di lì saltano subito ai dogmi di Keynes(la Bibbia su cui giurano i sacerdoti dell’economia accademica),ignorando bellamente la Scuola Austriaca. Moraleggiano a sproposito, invocano il mercato senza sapere cos’è e si preoccupano spesso di renderlo accetto alla grezza ideologia del lettore medio ingentilendolo con l’aggettivo “sociale”, che piace tanto anche al nostro esimio presidente del consiglio. Senza rendersi conto, i poveretti, che si tratta o di una tautologia o di una contraddizione: se il mercato è lo strumento migliore per l’allocazione delle risorse, è già sociale di per sé;se invece va corretto a causa delle sue storture, una volta introdotti i correttivi non è più mercato ma qualcosa d’altro. E’ la solita confusione fra economia e morale, fra scambio e dono, fra utilità e carità. Il dono e la carità sono cose nobilissime, sia ben chiaro; però anche il miele è dolcissimo, ma nessuno lo mischierebbe alla pasta asciutta(forse i tedeschi come Roepke…)