A ridosso del terremoto che ha scosso l’Emilia, il ministro della giustizia Severino ha detto: “Vorrei lanciare un’idea, quella di rendere utile la popolazione carceraria, quella non pericolosa, per i lavori di ripresa del territorio… Ho sempre pensato che il lavoro carcerario sia una risorsa per il detenuto, un vero modo per portarlo alla risocializzazione e al reinserimento nella società”. Queste sembrano a prima vista parole di buon senso.
Da un lato, questa “piccola idea”, come la definisce il ministro, consentirebbe di avere a disposizione manodopera presumibilmente gratuita o quasi (e comunque attraverso vie esterne a quelle di mercato) per ricostruire il territorio. Essa consentirebbe cioè di utilizzare le persone-detenuti come mezzo per il fine della ricostruzione del territorio, e di farlo, presumibilmente, a prescindere dalla loro volontà (nell’articolo citato non c’era nessun riferimento alla volontarietà).
Dall’altro lato, questa idea richiama addirittura una delle formulazioni del primo principio categorico kantiano (“agisci in modo tale da trattare l’umanità, nella tua persona o in qualunque altra, mai semplicemente come mezzo ma sempre allo stesso tempo come un fine”) e quindi sembra assumere addirittura un alone di moralità. Portare il detenuto alla “risocializzazione e al reinserimento nella società” sarebbe un modo per considerare la sua persona come fine oltre che come mezzo.
Se da una prospettiva kantiana questa idea del ministro non fa una piega, da una prospettiva liberale invece la fa eccome.
In generale, il liberalismo non ha nulla contro l’utilizzo delle persone come mezzo e di certo non considera il loro utilizzo come mezzo un’azione immorale, anzi. Se mi si rompe un mobile e mi rivolgo all’artigiano per ripararlo, sto utilizzando l’artigiano come mezzo, non come fine. A meno che l’artigiano sia mio amico oppure che con esso venga fuori un’immediata simpatia, la ragione per cui gli commissiono la riparazione del mobile potrebbe tranquillamente non avere nulla a che vedere con il suo benessere e consistere unicamente nel mio desiderio di avere il mobile riparato, e ciò non sarebbe immorale.
D’altro canto, il liberalismo, difendendo la libertà intesa come quella condizione delle persone in cui la coercizione di alcuni su altri è limitata alla sola difesa della legge intesa come principio astratto, ha molto da dire contro l’utilizzo delle perone come mezzo da parte dello stato. Se io uso l’artigiano come mezzo per la riparazione del mio mobile e l’artigiano usa me come mezzo per ottenere reddito non c’è nulla di male perché questo è uno scambio volontario e legittimo, come per definizione tutti gli scambi che avvengono nel libero mercato. Ma quando l’utilizzare l’altro come mezzo implica coercizione (e in particolare coercizione che sta al di fuori della difesa della legge intesa come principio astratto) allora siamo nel campo dell’aggressione, dell’arbitrarietà e dell’assoluta illegittimità. E non è che le cose cambiano quando si parla di detenuti: a meno che non ci sia volontarietà da parte loro, il fatto che lo stato li utilizzi come mezzi attraverso coercizione è, da un punto di vista liberale, illegittimo.
Inoltre, il liberalismo non ha nulla da dire contro il fatto che le persone considerino altre persone (o perfino animali o cose) come fini delle loro azioni volontarie e libere. Anzi, il liberalismo considera questa un’espressione di individualismo e quindi di libertà. Se Marco fa il donatore di sangue, per esempio, in alcuni casi egli può considerare le persone a cui lo dona come il fine di questa sua azione, oltre che come mezzo per esprimere la sua individuale inclinazione verso questo tipo particolare di generosità.
Il liberalismo tuttavia ha molto da ridire sul fatto che lo stato utilizzi le persone come fini: se per esempio lo stato, considerando le persone che beneficiano della donazione di sangue come fine, imponesse ai cittadini la donazione di sangue, da un punto di vista liberale questo sarebbe illegittimo in quanto violerebbe i diritti di proprietà che ogni persona ha sul suo corpo.
Quando a considerare le persone come fini non è l’individuo ma lo stato si ha dunque il socialismo, e cioè la sostituzione della volontà e delle inclinazioni di chi comanda lo stato alla volontà e alle inclinazioni dei singoli individui. L’imperativo categorico kantiano nella formulazione “agisci in modo tale da trattare l’umanità, nella tua persona o in qualunque altra, mai semplicemente come mezzo ma sempre allo stesso tempo come un fine” diventa quindi la base del socialismo: “la preferenza per il fine dell’umanità si trasforma nell’idea di Socialismo attraverso la definizione di ogni individuo come fine ultimo, un fine in se stesso”, riconosce con orgoglio il socialista neo-kantiano Cohen.
Tornando all’esempio dei detenuti, molte persone potranno pensare che in fondo chisseneimporta: non sono mica io il detenuto. Ebbene esse sbaglierebbero, perché oggi lo stato utilizza i cittadini tutti come mezzi per un fine e, allo stesso tempo, utilizza i cittadini tutti come fine, mostrando in entrambe queste attitudini la sua natura socialista e quindi totalitaria.
Lo stato utilizza per esempio i cittadini-‘contribuenti’ come mezzo per mantenere i parassiti oppure per realizzare la distribuzione dei redditi che corrisponde ai loro desideri. Come dice Ortega y Gasset, “Questo è ciò a cui porta l’interventismo dello stato: le persone sono trasformate in carburante per nutrire la pura macchina che è lo stato. Lo scheletro divora la carne che lo avvolge. L’impalcatura diventa il proprietario e l’inquilino della casa” – qualcuno per caso ha visto il film The Matrix?
D’altro canto, tuttavia, attraverso queste stesse misure che utilizzano il cittadino come mezzo, allo stesso tempo lo stato utilizza il cittadino anche come fine: le politiche fiscali redistributive e l’articolo 18, tanto per fare due esempi fra gli infiniti che possono essere fatti, non hanno forse come fine il benessere e la tranquillità di una particolare categoria di cittadini?
Lo stesso fine che, quando sta alla base dell’azione volontaria e libera del cittadino, può essere nobilissimo ed espressione della sua individualità, nel momento in cui sta alla base dell’azione coercitiva dello stato (qui intendo un’azione coercitiva dello stato che esula dalla difesa della legge intesa come principio astratto) diventa un fine illegittimo in quanto il suo raggiungimento presuppone uno stato di polizia: “Quello che costituisce uno stato di polizia non è il ‘bussare alla porta’ (questo è un dettaglio minore), ma il fatto che un governo persegua delle politiche particolari in relazione ai suoi stessi cittadini” (Oakeshott)
Da un punto di vista liberale la legittimità di un’azione non sta nel fine, ma nella natura dell’azione e cioè nel fatto che quell’azione rispetti o meno la legge intesa come principio astratto e cioè come regola di condotta individuale che vale per tutti (stato incluso) nello stesso modo, senza differenza fra datori di lavoro e lavoratori dipendenti, fra ricchi e poveri, fra detenuti e non detenuti.
Quindi le parole del ministro Severino (se sono intese nel modo in cui le ho intese io, e cioè nel senso di utilizzare le persone-detenuti come mezzo e allo stesso tempo come fine) esprimono in modo molto chiaro il ruolo dello stato moderno, cioè dello stato totalitario, nei confronti dei suoi cittadini tutti (casta esclusa).
-
[…] publication: Movimento Libertario) A ridosso del terremoto che ha scosso l’Emilia, il ministro della giustizia Severino ha […]
Anche io quoto Carlo Butti decisamente.
Sono d’accordo con quello che dice Carlo Butti.
Mi pare che tutto il problema sia mal posto. Il detenuto si trova in stato di non-libertà come conseguenza di un reato commesso. Costringerlo a oziare in cella o costringerlo a lavorare, sempre un costringerlo è. Non vedo che c’entri in tutto questo la libertà di scelta. Se invece vogliamo mettere in discussione tutto il sistema penale di oggi, a mio parere aberrante, il discorso è diverso, e molto più lungo.
Grazie del commento. E’ vero, come dice lei, che costringere il detenuto a oziare in cella o costringerlo a lavorare, sempre un costringerlo è. Tuttavia sono diverse le motivazioni di questa costrizione. Nel primo caso la coercizione viene utilizzata esclusivamente in difesa della legge intesa come principio. Nel secondo caso, la coercizione viene utilizzata a) per ottenere dei vantaggi che nulla hanno a che vedere con la difesa della legge intesa come principio e b) per “migliorare” il detenuto. A differenza di quanto avviene nel primo caso, nel secondo la persona viene utilizzata (ricorrendo alla coercizione) come mezzo per un fine e viene considerata un fine. Nell’articolo ho cercato di spiegare perché questo, a mio modo di vedere, è illegittimo e toglie dignità alla persona. Lasciando da parte la distorsione del mercato che una misura di questo tipo produrrebbe, lasciare al detenuto la libertà di scelta implicherebbe secondo me il suo rispetto in quanto persona, non solo da parte dello stato, ma anche da parte di lui stesso: un conto è fare un lavoro perché obbligati, un altro è farlo per scelta. Rimane, ripeto, il problema della distorsione del mercato che una misura di questo tipo, come qualunque altra forma di interventismo da parte dello stato, necessariamente produrrebbe, non solo sul piano economico ma anche su quello della legittimità.
L’articolo è scritto bene e descrive bene i punti fermi del liberalismo.
Ma, cercando di andare in profondità, qual’è lo spirito che anima il liberalismo?.
Questa specie di auto-controllo, molto correct, dove sembra che i due umani che si incontrano si sorridono e si dicono “Come va?”, “Bene grazie”. E’ molto british, è molto anglosassone. Troppo. E’ un’immagine morta, come quella di una fotografia.
Preferisco la schiavitù, lo sfruttamento e l’omicidio.
il liberalismo, specie nella variante viennese, è solo una paracula copertura di una lotta di classe portata dagli imprenditori nei confronti dei lavoratori al fine di aumentare la loro fetta di torta.
In replica ai commenti del Signor Antonio:
PUNTO 1
Ha ragione a dire che la volontà è una favola ma (aggiungo io) solo se si prende in considerazione il concetto di volontà propinato dalle favole: fare tutto ciò che si desidera con la bacchetta magica.
Se guardiamo alla volontà nella realtà sappiamo che essa è sempre stretta in dei limiti che variano da situazione particolare a situazione particolare e che in un regime di mercato non vengono imposti coercitivamente da nessuno.
Guardando invece agli sfruttatori,come li chiama lei (anche se il termine ha poco senso da quando,a detta di un certo studioso di diritto romano, siamo passati dalla società degli status alla società del contratto), è possibile notare come anche loro siano dotati di una volontà (non assoluta come quella delle favole) ristretta da limiti: se i consumatori cambiano gusti gli sfruttatori-imprenditori possono scegliere volontariamente se adeguarsi (a costi molto pesanti) o meno ma se non si adeguano fanno morire di fame se stessi e la loro famiglia).
Secondo il suo ragionamento l’imprenditore sarebbe veramente libero solo se i consumatori non cambiassero gusti e quindi ci fosse una legge che glielo vietasse.
PUNTO 2
Sull’Italia e gli Usa IMPLICITAMENTE (se la mia interpretazione dei suoi commenti è stata scorretta mi corregga) definiti come luoghi di capitalismo non c’è bisogno di dire nulla visto quanto detto sopra.
PUNTO 3
Quanto all’accumulazione capitalistica, la violenza e la proprietà privata ho alcune considerazioni di dissenso: nelle sue parole leggo il tentativo di cercare di istituire una specie di connessione tra violenza e istituzioni giuridiche INGIUSTE.
Questa connessione però non regge se passiamo un momento a considerare il fatto che oltre alla proprietà privata sono nate dalla violenza anche la democrazia (che io ritengo ingiusta ma forse e dico forse (in quanto non la conosco) lei ritiene giusta se applicata coerentemente), la libertà di parola, l’uguaglianza giuridica ma soprattutto l’uguaglianza sostanziale (che consiste “idealmente” nella libertà delle favole di cui lei tratta).
Se poi mi dirà che il giusto non esiste, io le risponderò che esso è razionalmente individuabile guardando a una semplice situazione che ci fa capire il senso della proprietà privata:
abbiamo una comunità di persone che vive in una primitiva forma di comunismo dal momento che il fabbisogno di ciascuno non supera le quantità disponibiili di beni. A un certo punto cambiano le condizioni e il fabbisogno viene a superare le quantità disponibili di beni. I bisogni non possono più essere completamente soddisfatti.
Lei come risolve la situazione? Se scarta la proprietà privata devo dedurre che ci sia qualcuno in grado di decidere quali fini è giusto che tutti perseguano (insomma un pianificatore centrale) E chi? Un’individuo singolo? La maggioranza?
io non scarto nè la proprietà privata nè il capitalismo, e ho studiato l’etnologia tanto da sapere che il “comunismo primitivo” è una semplificazione demagogica.
solo trovo URTICANTI i discorsi sulla “libertà di scelta”, specie nel mercato del lavoro. perchè scegliere tra la padella e la brace non è libertà di scelta… e magare può essere conveniente rivoltarsi contro il cuoco.
è vero, anche la democrazie e tutte le altre belle cose sono state ottenute con la violenza, ma questo non fa che confermare la mia tesi, e cioè che la forza è componente essenziale dei rapporti umani… il contrario della “libera scelta” e delle teorie viennesi (paracule).
le carceri già sono delle S.P.A. nella pratica… i carcerati lavorano in condizioni quasi schiavistiche e IMPRENDITORI PRIVATI e amministratori pubblici incassano e fanno la bella vita.
e questo ancor più negli USA dove il sistema carcarario è ampiamente privatizzato.
inoltre, per avere sempre carne fresca a basso costo, ci si impegna a carcerare sempre più gente facendo ricadere nella categoria “reato” sempre più fattispecie e comminando pene assurdamente pesanti anche per i peccati più veniali.
l’italia, pur essendo un paese in media pacifico, ha il 3° tasso di popolazione carcerata al mondo, dopo usa e cina.
cara signora severino vogliamo premiarli questi detenuti le diamo pure uno stipendio e le facciamo fare la bella vita .Invece di proporre loro perche non fate lavorare gli emiliani che ormai non anno piu nulla lo stato dovrebbe pagare i detenuti paga i terremotati facendogli guadagnare qualcosa almeno per poter ricominciare sai lei forse non sa che molti di loro vivevano alla giornata e a stento compravano il pane ora con il terremoto nemmeno quello possono fare
è tutta una balla. io sono uno che è ai domiciliari (a me piace la marjiuana me ne hanno trovata e mi sono preso 3 anni) e vi dico che se gia mi havessero chiesto se volevo dare una mano a spalare il fango in liguria ci sarei andato volentieri. ora che questi tecnocrati si riempano la bocca di belle parole questo non è nuovo, ma restano chiacchere, facciano in modo di non riempire le carceri di gente per pene inutili e assurde,e con i soldi che risparmiano tra processi e detenzione ricostruiscano le case,poi in carcere ci buttino i colletti bianchi che rubano valanghe di soldi alla comunita, e quando serve ripaghino spalando macerie.
Grazie del commento. Infatti uno dei problemi principali dal mio punto di vista è la volontarietà. Se ai detenuti venisse data la facoltà di scegliere, per quanto riguarda loro il problema sarebbe risolto: essi non sarebbero usati come mezzi dallo stato ma potrebbero scegliere liberamente di rendersi utili, che è una cosa ben diversa. Rimarrebbe tuttavia il problema della distorsione del mercato (che non è un problema solo economico) prodotto da questa forma di interventismo statale come da ogni altra forma di interventismo statale.
non ci vedo niente di strano… il mercato del lavoro (come tutti i mercati) è SEMPRE per natura dominato da rapporti di FORZA, la “volontà” è una favola religiosa molto simpatica agli sfruttatori.
Lei si sbaglia. Il mercato è il luogo in cui, all’interno della legge intesa come principio generale e astratto, si esprimono i rapporti di “forza” intesa come capacità contrattuale. Se il mercato è dominato dalla forza intesa come coercizione esso semplicemente non è mercato. Come dice Antiseri, economia di mercato e stato di diritto nascono e muoiono assieme. Laddove c’è libertà di contratto non c’è coercizione. Dove c’è coercizione non c’è libertà di contratto e quindi non c’è mercato (un sequestratore non è un capitalista).
come no! forse nelle fiabe…
l’accumulazione ORIGINARIA di capitale è sempre, in tutto il mondo, stata fatta con la VIOLENZA… qualcuno si prende con la violenza tutto il capitale disponibile (la terra, in origine)… gli altri come mangiano? devono rivolgersi al “qualcuno”, che essendo monopolista del capitale può offrire loro la “libera scelta”: o una banana nel deretano o le frustate.
questa è la vostra libertà!
E dove sarebbe la libertà allora? Nell’affidare le risorse ad una autorità superiore che sarà sempre efficiente ed egualitaria con tutti e non ne approfitterà mai? L’autorità è al pari di un capitalista, con l’unico vantaggio di godere di una sorta di alone mistico di superiorità e di monopolio. Non possono esistere oltre a lei altri capitalisti, più o meno generosi poco importa, più o meno amati,più o meno scelti all’interno di un libero mercato da chi quelle risorse non le ha per poterci commercializzare per averle.
Non è il fatto che c’è un rapporto di forza, ma c’è la necessita degli uomini di avere quelle risorse. O si fa in modo di vivere in un capitalismo, ovvero con la possibilità che chiunque possa diventare possessore delle risorse e pertanto ci possa essere una selezione da parte della gente dei migliori (quelli che offrono le risorse al miglio rapporto qualità/prezzo). Oppure si affidano le risorse al capitalista centrale, senza la garanzia che poi esso sia “il più bravo” o che comunque continui ad esserlo con costanza nel futuro; questa è la deriva del socialismo.
Meglio i lavori forzati che stare in una cella a vegetare tutto il giorno senza imparare un cazzo.
Ma da una con quella faccia di sfinge egiziana, cosa vuoi aspettarti Leo ?
ovviamente la notizia rallegrerà i giustizialisti, moralisti 4 stagioni, i mercanti del tempio, di cui l’Italia pullula da Lampedusa al Brennero. Anche per la sfinge egiziana, c’è un lampione e una piazzale loreto. Non temere.