Sono oramai almeno duecento anni che circolano alcune idee sullo stato che sono il prodotto di tre concezioni riguardanti l’organizzazione sociale : il liberalismo, il comunismo e l’anarchismo. Tali idee esprimono le rispettive aspirazioni e i desideri su come l’entità politica “stato” debba evolvere ed esistere, o non esistere.
Dal momento che queste idee continuano ad essere dibattute in vista di una loro attuazione che sembra non concretizzarsi mai, forse più che idee sarebbe meglio chiamarle illusioni. Cerchiamo allora di esaminare brevemente queste idee e, nel caso esse si rivelassero davvero illusioni, vedere come esse possono essere superate una volta per tutte e rimpiazzate con una concezione di tipo metodologico molto più interessante e funzionante.
Le tre illusioni sono:
1. Lo stato minimo permanente (liberalismo)
2. Lo stato massimo temporaneo (comunismo)
3. Lo stato nullo definitivo (anarchismo).
1. Lo stato minimo permanente. In situazioni di soffocamento statale causato dalla presenza asfissiante dello stato in tutti settori dell’attività sociale, è quanto mai probabile che circoli la richiesta, se non il grido, a favore di uno stato minimo da parte di molti liberali (classici) e libertari (moderati) che non vogliono la fine dello stato ma semplicemente meno stato e meno tasse. Questa richiesta, altamente sensata, poggia purtroppo sulla illusione che, garantire il monopolio della violenza ad un organismo (lo stato territoriale) al fine di far cessare la violenza tra singoli (questa è la posizione di tutti i liberali classici tranne de Molinari e de Puydt) non comporti l’altissimo rischio, se non la quasi certezza, che tale organismo espanda a dismisura il suo potere ben oltre il campo d’azione a lui originariamente destinato (protezione e giustizia). In effetti, le vicende storiche insegnano che lo stato minimo permanente non è di questo mondo. Inoltre, la conoscenza della psiche umana dovrebbe confermarci che tale ipotesi non è umanamente sostenibile. Infatti, dare un potere monopolistico a qualcuno vuol dire metterlo nella posizione di abusarne, accrescendo continuamente la sua sfera di azione, talvolta anche in maniera inconsapevole e spesso con la scusa che ciò non rappresenti un abuso e una invadenza ma un comportamento necessario messo in atto per il nostro bene.
Per ovviare a questa illusione “liberale”, i comunisti hanno inventato quella che si è rivelata poi un’altra colossale illusione.
2. Lo stato massimo temporaneo. Nell’analisi del comunismo marxiano, lo sviluppo del capitalismo è visto come una lotta economica aspra per affermarsi sul mercato; questa lotta spinge allo sviluppo di metodi produttivi sempre più perfezionati, dando vita, al tempo stesso, a concentrazioni produttive gigantesche, mano a mano che i capitalisti più innovatori ed audaci riescono ad assorbire o a mettere fuori mercato i capitalisti meno dinamici e meno efficienti. Alla fine, si producono due fenomeni: (1) da un parte una centralizzazione enorme dei capitali nelle mani di pochi capitalisti, e (2) dall’altra uno sviluppo di forme avanzate di cooperazione produttiva e di socializzazione della produzione. Questa dinamica, caratterizzata dall’esistenza di un numero estremamente ridotto di capitalisti che dominano la produzione mondiale (tesi) e di un numero sempre più grande di produttori dipendenti che operano in maniera cooperativa in una economia mondiale socializzata (antitesi), sbocca, secondo i comunisti marxiani, come risultato finale (sintesi), nella espropriazione degli espropriatori e nel passaggio alla società comunista (Karl Marx, Il Capitale, Libro I, capitolo 24). Questa espropriazione si compie attraverso lo strumento politico “stato” il cui compito è appunto quello di attuarla nei fatti per poi scomparire subito dopo lasciando la gestione della società direttamente nelle mani dei produttori associati.
Questa illusione “comunista” dello stato massimo temporaneo, fu criticata e avversata dai sostenitori di un’altra concezione sociale, quella anarchica.
3. Lo stato nullo definitivo. Per gli anarchici, l’unica forma accettabile di organizzazione sociale è quella in cui lo stato si mette o è messo definitivamente da parte e gli individui si associano, liberamente e volontariamente, per organizzare i modi della convivenza sociale e della gestione produttiva. Per gli anarchici lo stato minimo permanente dei liberali è una impostura in quanto si tratterebbe di uno stato in formato ridotto controllato da una aristocrazia che gestisce e domina la società tutta; mentre lo stato massimo temporaneo dei comunisti sarebbe una vera e propria truffa in quanto la burocrazia-tecnocrazia si installerebbe al potere e non lo abbandonerebbe mai (come poi si è puntualmente verificato).
Il problema rappresentato da questa aspirazione allo stato nullo definitivo è che, pur essendo la più vicina al vero per quanto riguarda la natura oppressiva ed espansiva del potere statale, è anche quella che appare più lontana da una possibilità reale di attuazione. Come giustamente rilevato dallo storico dell’anarchia Max Nettlau, “le persone che sono a favore dello stato esistono sempre.” (1909) E per di più esse sono in numero così consistente che le idee dei liberali, dei comunisti e degli anarchici a favore dello stato minimo o della fine dello stato sono rimaste e continuano a rimanere pie illusioni. E, a fronte di queste pie illusioni, si è affermata e imposta dappertutto la tragica realtà di uno stato centrale territoriale sempre più asfissiante e sempre più prepotente.
Allora, escludendo il ricorso alla guerra civile in cui la parte vittoriosa impone a tutti la sua visione delle cose (che è poi la realtà in cui ci troviamo attualmente), come se ne esce da una situazione in cui alcuni vogliono qualcosa (meno stato, la fine dello stato) che altri (i sostenitori dello stato massimo) aborrono o ritengono assurda e impraticabile?
Una risposta plausibile e attuabile a questa domanda potrebbe rappresentare sia il superamento delle tre illusioni sopra delineate (attraverso la loro realizzazione) che, soprattutto, la fine della tragica realtà (attraverso la sua trasformazione).
Ad ogni modo, perché una risposta sia possibile occorre avere la capacità di superare le limitazioni che, anche inconsciamente, ci si pone e che restringono, in maniera indebita, il campo delle possibili soluzioni. Al tempo stesso la risposta deve avere un valore universale, basandosi su categorie e pratiche di giustizia generalmente accettate.
Negli anni intorno al 200 d.C. il giurista Ulpiano riassunse i cardini della giustizia in una serie di prescrizioni rimaste famose, quali, ad esempio:
Honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere. (“Vivere onestamente, non danneggiare alcuno, dare a ciascuno il suo”).
Iustitia est constans et perpetua voluntas ius suum cuique tribuendi. (La giustizia è la volontà costante e perpetua di dare a ciascuno il suo).
Ecco allora questo aspetto del “dare a ciascuno il suo” come principio ricorrente.
L’attuazione di questo principio, che significa l’accettazione della varietà, cioè di tutte le possibili scelte che soddisfino le esigenze personali di ciascuno, al di fuori di qualsiasi imposizione, è possibile attraverso la fine di tutti i monopoli, quindi anche del monopolio statale nel campo della protezione e dell’amministrazione della giustizia (oltre che dei nuovi monopoli quali l’istruzione e il dominio dei mezzi di comunicazione). Ciò vuol dire, in termini concreti, la fine del territorialismo cioè del monopolio statale (o di qualsiasi altro potere) su territori estesi (sovranità territoriale). Questa è, in sostanza, la condizione indispensabile per l’affermarsi della varietà.
A questo punto però è necessario dare una risposta ad una domanda che potrebbe sorgere spontanea.
È la varietà un criterio accettabile scientificamente in presenza di realtà sociali complesse o è una esigenza da accantonare in quanto paralizzerebbe il funzionamento della società, cioè dei rapporti sociali, nel suo complesso?
A questa domanda, lo studioso di cibernetica William Ross Ashby ha dato una risposta estremamente chiara attraverso la formulazione di quella che ha chiamato the law of requisite variety (la legge della varietà necessaria). Ashby ha giustamente notato e fatto notare che, in presenza di una varietà di situazioni, un organismo o un meccanismo devono offrire una varietà di possibili risposte. Come affermato dallo stesso Ashby, “nella sua forma elementare la legge è intuitivamente ovvia e quasi non ha bisogno di essere formulata espressamente. Se, ad esempio, un fotografo ha a che fare con venti soggetti fotografici che presentano differenze dal punto di vista dell’esposizione e della distanza, allora la sua macchina fotografica deve ovviamente essere in grado di consentire almeno venti differenti messe a punto se vogliamo che tutte le fotografie abbiano una uguale densità e nitidezza.” (An Introduction to Cybernetics, 1956)
Questa legge di regolazione cibernetica, del tutto ovvia, è completamente disattesa nel mondo disfunzionale del Grande Fratello che impone a tutti i suoi comandi, ignorando completamente sia la varietà delle esigenze sia il grande principio della giustizia condensato nella formula “a ciascuno il suo”.
Quindi, sulla base della morale (giustizia) e della scienza (cibernetica) sarebbe indispensabile offrire a coloro che, rispettivamente, vogliono lo stato minimo, lo stato massimo o l’assenza di stato, quello che essi chiedono per sé (“a ciascuno il suo”). Ciò costituirebbe la risposta eticamente valida e scientificamente corretta al problema del soddisfacimento delle diverse legittime esigenze. E a coloro che pensano che ciò non sia possibile occorre dire in maniera chiara e precisa, che la loro è la posizione di coloro che non hanno imparato niente dalla storia dal momento che anche i sostenitori dell’intolleranza religiosa la pensavano alla stessa maniera e cioè che non era possibile che ciascuno praticasse in santa pace la sua religione. Ci sono voluti decenni di guerre, cosiddette di religione, perché la gente sopravvissuta a quelle carneficine rinsavisse e lasciasse a ciascuno di praticare il suo credo religioso.
Continuare invece sulla strada del Grande Fratello Stato, il tritatutto che riduce ognuno in un granello identico di una poltiglia informe, è la maniera certa per ingolfare il meccanismo fino a quando esso esplode con inaudita violenza. Oppure, il meccanismo sociale ingolfato, si deteriora giorno dopo giorno fino a quando non è altro che un ammasso arrugginito del tutto inservibile.
Per evitare che questo avvenga dobbiamo davvero riscoprire i principi universali ed eterni del “a ciascuno il suo” e della “varietà necessaria”. Altrimenti meritiamo davvero di essere granelli di polvere al servizio del Grande Fratello di turno, sia esso lo stato centrale nazionale o gli staterelli feudali padronali che potrebbero sostituirlo, tutti monopolisticamente territoriali e tutti terribilmente infernali.
Diagnosi perfetta, fondata su dati storici, filosofici e giuridici di prima mano; conclusione pienamente condivisibile.Finalmente qualcuno mette a fuoco un problema scottante, di solito sottaciuto:non può essere coerente un sistema libertario in presenza di gruppi, più meno estesi (e probabilmente maggioritari) che non ne vogliono sapere. Quindi, bisogna dare a ciascuno il suo: lo Stato massimo a chi lo vuole, lo Stato minimo a chi lo ritiene il migliore, l’assenza di Stato ai libertari puri.Ma resta la fragilità della “pars costruens”:una volta individuati questi sacrosanti principi, come costruire aggregazioni sociali che li rispettino? Attraverso quali mezzi si può dare a ciascuno il suo?E in tutto questo non c’è qualcosa di pericolosamente”ingegneristico”? Sarebbe interessante riprendere il discorso da questo punto, proprio per uscire dall’utopia e idividuare qualche soluzione concreta.
” … come costruire aggregazioni sociali che li rispettino? Attraverso quali mezzi si può dare a ciascuno il suo? …”
Attraverso le COMUNITA’ VOLONTARIE AUTONOME.