In Economia, Varie

DI MATTEO CORSINI

“La prova arriva da uno studio di alcuni scienziati dell’università dell’Indiana. Gli esperti americani, analizzando il periodo tra il 28 febbraio e il 19 dicembre 2008, hanno dapprima individuato quelli in cui l’autore esprimeva il proprio stato d’animo: 9.8 milioni di micro-testi lanciati da circa 2.8 milioni di utenti. In seguito, sfruttando complessi algoritmi e sofisticate analisi statistiche, hanno messo a confronto il “mood” espresso in Twitter e la performance del Dow Jones. Ebbene, dall’analisi è saltato fuori un dato inaspettato: l’indice industriale di Wall Street, ocn un ritardo medio di tre giorni, reagiva al maggiore, o minore, stato di “calma” di chi twitta in internet.” (V. Carlini)

Ho riportato queste parole non per criticarne l’autore, che, da giornalista, si è limitato a scrivere un articolo sull’argomento in questione, quanto per esprimere alcune considerazioni sulla notizia in sé.

L’uso dei metodi quantitativi per cercare di spiegare l’andamento dei prezzi di una o più attività finanziarie in base ai movimenti di altre variabili è da molto tempo diffuso nel mondo della finanza. L’obiettivo è poter affermare, con una certa confidenza statistica, che i movimenti di X determinano certi movimenti di Y, con un determinato lag temporale.

Si tratta di applicare alla finanza approcci tipici della fisica e dell’ingegneria, discipline le quali, però, sono state sviluppate per studiare fenomeni naturali. Questo dovrebbe mettere in guardia gli utilizzatori dei metodi quantitativi in finanza dal fare un eccessivo affidamento sui risultati delle loro analisi.

Quando, poi, si cerca di spiegare l’andamento di un indice di borsa facendo ricorso al contenuto dei messaggi scritti su Twitter relativi semplicemente allo stato d’animo di persone che, con ogni probabilità, non si occupano neppure nel tempo libero di comprare o vendere azioni, credo che si buttino via dei soldi e del tempo.

I ricercatori dell’università dell’Indiana avrebbero potuto prendere in esame tante altre variabili e, a forza di fare regressioni, certamente avrebbero ottenuto risultati simili. Peraltro non sarei così confidente sulla consistenza statistica di uno studio basato su una serie di dati di neppure 10 mesi.

Insomma, si sarà pure fatto ricorso a “complessi algoritmi e sofisticate analisi statistiche”, ma metterei analisi di questo tipo sullo stesso livello di quelle fornite da chi fa i tarocchi o legge i fondi di caffè.

Ovviamente ognuno è libero di credere a quello che vuole, ma un po’ di sano scetticismo non guasterebbe, a mio parere.

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Showing 7 comments
  • Samuel Adams

    Sono sostanzialmente in accordo con le vostre posizioni (dell’articolista, di Nicola e di Facco), anche se ho qualche perplessità sul destino che avrebbe la ricerca di base lasciata a sé stessa, non sovvenzionata da uno stato “mecenate”. La ricerca, per sua natura, non è facilmente imbrigliabile e, se è vero che molti istituti di ricerca statali finiscono per avere (ingranditi) tutti i limiti e i difetti connessi alla res pubblica, è anche vero che molti reparti aziendali di Ricerca&Sviluppo sfornano solo “fuffa” o poco più e sembrano creati solo per motivi d’immagine e/o per sfruttare qualche finanziamento statale ….
    Credo che per chiarire meglio questa questione politica, come molte altre, tutti dovrebbero rispondere al quesito base: “Quanto Stato è utile o necessario tollerare?” Nell’Atto Costituivo del Movimento Libertario (pagina 1 – 3a riga dal fondo) si sostiene che ” … è necessario abolire la presenza dello Stato, degli uomini politici e delle burocrazie nella vita quotidiana,….”. Abolire è un concetto chiaro e preciso ma impossibile da realizzare e probabilmente sbagliato. “Ridurre lo Stato” sarebbe un concetto più vago e più difficile da definire quantitativamente, ma sembrerebbe più realistico e forse più conforme alle esigenze di una società complessa come la nostra.

    Il Leviatano italiano si mangia oltre la metà del PIL . Va bene così? No. Quanto dovrebbe mangiare la bestia? Il 40 % del PIL andrebbe bene? No, è ancora troppo. Il 30% potrebbe andare? Si, forse. A cosa si dovrebbe rinunciare con questi tagli di spesa? Cosa dovrebbe garantire lo stato ai suoi cittadini? Un piano ventennale che riducesse la spesa pubblica di un punto percentuale di PIL all’anno (oppure di 5 punti in cinque anni) potrebbe andare bene ? Quale società si prospetterebbe?
    Mentre io (libertario potenziale) cercherò di studiare Rothbard, voi (libertari di fatto) provate a rispondere a queste domande, in modo da risultare convincenti a tutti i sudditi di questo paese corrotto e socialista – che sono arrabbiati, sì, ma non fino al punto di rinunciare alla ragionevolezza. Per il momento.
    = = =
    PS: molto bello il nuovo sito!

    • NIcola

      Le aziende che producono “fuffa” anziché risultati veri vengono bastonate dal mercato prima o poi.
      Per tornare alla questione stato: in tutti gli statalisti convinti che vedo in giro, c’è l’idea di fondo (profondamente sbagliata, ma supportata dallo stato stesso) che ci sia un gruppo di magnanimi personaggi dotati di un qualche surplus intellettuale in grado di sapere scegliere il “meglio” per “tutti” . Finché ci sarà questa convinzione lo stato sarà sempre presente in una qualche misura. Ma così come non sentiamo la mancanza dei meccanismi tribali della preistoria, penso che prima o poi anche l’idea di stato avrà il suo declino. Personalmente penso che la tecnologia può mostrare alternative di organizzazione allo stato che diverranno sempre più affascinanti.
      Ti consiglio la lettura di “The market for liberty” ( http://mises.org/books/marketforliberty.pdf ), leggi solo le prime due pagine introduttive (l’insoddisfazione delle persone, lo scontento diffuso per le strutture esistenti, …), scritto nel 1970, sembra di leggere un articolo odierno.

  • Leonardo Facco

    Credo che Nicola abbia centrato la questione: la ricerca uno la deve fare perchè pagato da aziende private che, ricercando nuovi prodotti ad esempio, puntano a fare profitti innovando. Quando c’è di mezzo il soldo pubblico, l’irresponsabilità, il posto fisso, ecc. tutto diventa aleatorio.

  • Koso

    Viva l’università pubblica e i miloni buttati in ricerche che non servono ad un cazzo!!!!!!

    • NIcola

      La ricerca scientifica o pseudo-scientifica resa come professione è il più grosso sperpero di denaro che l’uomo potesse concepire.

      • Samuel Adams

        …. la ricerca scientifica e pseudo-scientifica non sono la stessa cosa!!! Nicola, spiegati meglio….

        • Nicola

          Intendo dire che la ricerca scientifica o pseudo-scientifica (quindi quella universitaria in generale) innalzata a professione, mi sembra una moda e comunque troppo costosa (io personalmente non ho mai capito come si ripaghino in termini economici molte ricerche, chi dia gli input su cosa si debba ricercare, con quali competenze, come vengano calcolati i costi/benefici).
          Conosco diverse persone (ex compagni di università) che fanno i “ricercatori”, mi sembra una professione finalizzata al non contatto col mondo del lavoro, un’oasi felice a cui molti ambiscono per avere poche responsabilità e vivere di contributi pubblici.
          Per concludere con la ricerca pseudo-scientifica, molte ricerche mi sembrano veramente idiote e finalizzate al trafiletto su un rotocalco, piuttosto che su rivista scientifica.

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