Fratelli, pagate delle tasse per darmi lavoro al vostro prezzo. È il diritto al lavoro, il socialismo elementare o di primo grado.
Fratelli, pagate delle tasse per darmi lavoro al mio prezzo. È il diritto al profitto, il socialismo raffinato o di secondo grado.
L’uno e l’altro vivono per mezzo di quegli effetti che si vedono. L’uno e l’altro moriranno a causa di quegli effetti che non si vedono. Ciò che si vede, sono il lavoro ed il profitto stimolati dalle tasse. Ciò che non si vede, è il lavoro al quale darebbero luogo quelle stesse tasse se le si lasciasse ai contribuenti.
Nel 1848, il diritto al lavoro si mostrò per un momento con due facce. Ciò basta a rovinarlo nell’opinione pubblica. Una faccia si chiamava: fabbrica nazionale. L’altra: quarantacinque centesimi. In milioni andavano tutti i giorni dalla rue de Rivoli alle fabbriche nazionali. È il lato bello della medaglia.
Ma ecco l’altro lato. Affinché milioni di franchi escano, bisogna che siano entrati. È per questo che gli organizzatori del diritto al lavoro si rivolsero ai contribuenti. I contadini dicevano: bisogna che paghi 45 centesimi: dunque, mi priverò di un abito, non marnerò il mio campo, non riparerò la mia casa. E gli operai delle campagne dicevano: poiché il nostro borghese si priva di un abito, ci sarà meno lavoro per il sarto; poiché egli non marna il suo campo, ci sarà meno lavoro per il terrazziere; poiché non fa riparare la sua casa, ci sarà meno lavoro per il carpentiere ed il muratore.
Allora fu provato che non si traggono da un solo sacco due macinate, e che il lavoro pagato dal governo è realizzato a spese del lavoro pagato dal contribuente. Fu la morte del diritto al lavoro, che apparve come una chimera, così come un’ingiustizia. E tuttavia, il diritto al profitto, che è soltanto l’esagerazione del diritto al lavoro, vive ancora e si porta a meraviglia.
C’è qualcosa di imbarazzante nel ruolo che il protezionista fa giocare alla società? Dice: bisogna che tu mi dia del lavoro, e, di più, del lavoro lucrativo. Ho intelligentemente scelto un’industria che mi lascia un dieci per cento di perdita. Se tu prendi un contributo di venti franchi sui miei compatrioti e se tu me lo trasferisci, la mia perdita si convertirà in profitto. Ora, il profitto è un diritto; dunque, me lo devi.
La società che ascolta questo sofista, che si carica di tasse per soddisfarlo, che non si accorge che la perdita coperta da un’industria non è meno una perdita, perché si obbligano gli altri a coprirla, questa società, dico io, merita il carico che le si infligge.
Così, lo si vede con i numerosi argomenti che abbiamo attraversato: non conoscere l’economia politica, vuol dire lasciarsi abbagliare con l’effetto immediato di un fenomeno; conoscerla, vuol dire comprendere nel proprio pensiero e nelle proprie previsioni tutti gli effetti.
Potrei sottoporre una quantità di altre questioni alla stessa prova. Ma mi fermo di fronte alla monotonia di una dimostrazione sempre uguale; e concludo, applicando all’economia politica ciò che Chateaubriand disse della storia:
Ci sono, dice, due conseguenze nella storia: una immediata e che al momento è conosciuta, l’altra distante e che non si scorge inizialmente. Queste conseguenze spesso si contraddicono; le une vengono dalla nostra breve saggezza, gli altri della saggezza di lungo termine. L’evento provvidenziale appare dopo l’evento umano. Dio si alza dietro gli uomini. Negate finché vorrete il consiglio supremo, non acconsentite alla sua azione, disputate sulle parole, chiamate forza delle cose o ragione ciò che il popolo chiama provvidenza; ma osservate alla fine di un fatto compiuto, e vedrete che ha sempre prodotto l’opposto di ciò che se ne attendeva quando non è stato stabilito inizialmente sulla morale e la giustizia. (Chateaubriand; Mémoires d’outre-tombe.)
*Tratto da “Quello che si vede, quello che non si vede” (Leonardo Facco Editore)