DI PIERGIORGIO MOLINARI
Parliamo di negri. Può la parola “negro”, per il solo fatto di venire pronunciata, essere una manifestazione di razzismo? Il reverendo Martin Luther King, Jr., uno che forse qualche titolo più di un calciatore per parlare di razzismo lo aveva, nel suo celeberrimo discorso “I have a dream”, pronunciato dai gradini del Lincoln Memorial di Washington di fronte a 250mila sostenitori dei diritti civili, usa la parola “negro” quindici volte. Non ricorre mai alle espressioni “Afro-American” o “colored”, mentre dice “black” (“nero”) solo quattro volte. La sua, infatti, è una precisa scelta lessicale.
Altro esempio: quando nelle ex colonie francofone dell’Africa attorno al 1950 si sviluppa un movimento letterario il cui obiettivo è rivendicare con orgoglio l’identità delle popolazioni africane, tale movimento decide di chiamarsi “negritudine”. E ancora: sapete il nome della rivista italiana mensile dei missionari comboniani che da un secolo e mezzo è dedicata al continente africano e agli africani nel mondo, annoverando tra i suoi collaboratori persone come Gad Lerner e Vauro? “Nigrizia”.
Nei vocabolari si leggono definizioni come questa alla voce “negro”: “In antropologia fisica, appartenente alle etnie (sudanese, nilotica, cafra, silvestre, batua, andamanese, aetide), viventi per lo più in Africa e in poche regioni dell’Asia, comprese nel ceppo negride (v. questa voce).” Non esattamente un proclama razzista, dunque. Eppure, da un decennio a questa parte, dire “negro” in certi salotti – e ormai anche in famiglia – suscita sguardi che vanno dal perplesso allo sdegnato. Può addirittura comportare gravi conseguenze per coloro i quali si macchiano in pubblico di questo orribile crimine di emissione sonora.
Ma chi, e a che titolo, a un certo punto ha deciso che quella “g” aggiunta alla parola “nero” sottintenderebbe un messaggio razzista? Non è dato saperlo. Però è facile intuirlo. Una prima indicazione la offre il fatto che coloro i quali bandiscono il termine “negro” siano in genere gli stessi che vorrebbero sì i “neri”, ma come schiavi nei campi a raccogliere pomodori per stipendi da fame, oppure per ingrassare quelle cooperative cattocomuniste che – con altro stravolgimento semantico – definiscono “accoglienza” ciò che è in effetti un lercio traffico di esseri umani (“negrieri”).
In effetti, la dequalificazione morale della parola negro appartiene al medesimo processo di sostituzione etico-semantica per cui, in nome della lotta alla discriminazione, si è passati da “zingaro” a “rom” (termine, questo sì, discriminatorio, perché i rom sono solo una delle popolazioni zingare, tra le quali ci sono anche i sinti). Si tratta in sostanza di un’operazione di sottomissione del pensiero. Heidegger spiegava che noi riusciamo a pensare limitatamente alle parole di cui disponiamo. E così come non possiamo parlare di ciò per cui non abbiamo parole, sostituire certe parole con altre significa imporre un determinato pensiero, o ideologia, e al contempo impedire la formazione di qualsiasi ragionamento contrastante con l’“ortodossia” (la neoligua di Orwell). Di più: se il tuo interlocutore nel momento stesso in cui sta per pronunciare una qualsiasi parola ha il dubbio che quel termine sia lecito o meno, ovvero teme che proferirlo comporti una condanna sociale, allora sei già padrone del suo pensiero. Lo hai sottomesso, imponendogli con l’autocensura il tuo codice linguistico e impedendogli di formare qualsiasi concetto che non ricada dentro gli schemi da te fissati. La sottomissione, appunto.
In astratto, se invece di chiamarla “influenza”, si desse a una malattia una cupa denominazione alfanumerica, improvvisamente si sottrarrebbe quella realtà dal mondo con cui abbiamo familiarità per spalancare una dimensione di mistero e terrore. Quello appena descritto è ovviamente un paradosso, ma spiega come obbligando la gente a utilizzare le parole che vuoi tu, le costringi non poter più ragionare autonomamente.
Le parole, diceva qualcuno, sono importanti. Rifiutate quindi questa spregevole operazione di impoverimento del lessico e del pensiero; denunciate chi vorrebbe farvi dire “nero” anziché “negro” per quello che realmente è: un ignorante e intollerante razzista, uno che vorrebbe svilire un gruppo umano (i negri) a livello di un colore (i neri), aggravando così il contrasto con “i bianchi”. Soprattutto, amiamoci tutti, negri, zingari, bianchi, gialli, nella libertà e nella giustizia, estromettendo coloro che attraverso la distorsione del linguaggio vorrebbero soffocarci con le loro ideologie perverse e costruire un mondo di divieti, di paure, di censure, di sottomissione. Viva i negri!
I “negri” non sono neri, non si avvicinano per niente al nero, tanto che qualcuno negli Stati Uniti li chiama “melanzane” ed con altre “colorite espressioni” per la loro tonalità scura.
Si perde ahimè nel tempo quando anche i galli in trasferta li chiamavano confidenzialmente “nez gros”. Pronunciatelo bene, en français s’il vous plaît. Ed in quest’ultimo caso chi parla di pelle vi piglia per il naso? Il villano ci mette un secondo a tradurre l’onomatopeica sonorità all’allusivo colore.”Par bleu”.
Noi visi pallidi non perdiamo mai l’occasione di dimenticare di scassarci la minchia a vicenda per miriadi di futili motivi.
Per parlare di cerchio occorre intendersi di geometria e le frasi riportate non hanno nulla di euclideo né di logico in generale. Chi dovrebbe stare con noi è chi aveva promesso la rivoluzione liberale. Il dovere consiste nel mantenere le promesse come quello di onorare le firme contrattuali. Se non si capisce questo è impossibile comprendere anche la differenza tra figure piane e solide. Cosa c’entra il “nazilibertarismo”, ossimoro idiota come monarco – repubblicano? E se anche avesse un significato, perché accostarlo a quanto espresso in merito a chi poteva mantenere le promesse e ha preferito un atteggiamento scorretto? E’ nazista chiunque chieda di onorare la parola data? I rispettosi dei contratti sono solo i nazionalisti? Visto, poi, che si chiede “chi”, allora chiariamo qualche punto. Io mi firmo per esteso e senza sinonimi, ho più volte scritto dove abito, nome del quartiere compreso; sono dunque facilmente identificabile e quindi si capisce “chi” sono al contrario di chi preferisce presentarsi come superstella o supernova per mascherare la “super – bia”; l’identificazione del “chi” politico, che comunque non è l’unico, è facilmente identificabile quando ironicamente lo chiamo signor Arcore, mister SopravVivendi o Emittentissimo; se non si gradisce che venga criticato tale personaggio sarebbe opportuno esprimerlo chiaramente, magari non dimenticando che fu lui a suo tempo a preferire l’alleanza con i nazionalisti invece di quella con i radicali (che all’epoca erano autenticamente libertari); se proprio si chiede chiarezza nomastica, sarebbe giusto essere coerenti indicando chi sarebbero il facchino e lo sguattero psicopatico e perché dovrebbero essere definiti con termini degni della gioventù hitleriana. Un ultima considerazione: noto che tra “lamentatio” e “Colla” non è presente la virgola. Se è solo un refuso si tratta di un’esortazione che non verrà soddisfatta perché ritengo, in quanto antinazista autentico e non a chiacchiere, che ognuno abbia il diritto di lamentarsi quanto gli pare. Se ciò a qualcuno non aggrada, problema suo che evidentemente soffre di quelle psicopatie che crede di vedere negli altri. Se invece l’assenza del segno di interpunzione è voluta, occorre ricordarsi che il “basta” lo decide eventualmente l’editore e non l’ospite; specialmente se poco urbano con gli altri ospiti. Il proprietario del sito ha diritto di ritenere che le lamentazioni di Colla siano da non pubblicare più, gli altri possono augurarselo ma non pretenderlo; come possono, se i nostri scritti lo infastidiscono, ignorarli andando a scrivere in luoghi che lo gratificano di più. Tanto per rammentare l’esistenza dei diritti di proprietà che i nazisti non garantivano.
Basta con la lamentatio Colla. Chi “DOVEVA” stare con noi? Eccolo il NAZI-libertarismo. Unitelo al ROZZO-libertarismo del Facchino e al FINTO-libertarmismo del suo sguattero psicopatico e il cerchio si chiude.
vai a farti inculare dal tuo amico prete… in sacrestia mi raccomando :-D
Io concettualizzo la demonizzazione della parola “negro” come uno dei tanti esempi della colonizzazione culturale americana che abbiamo subito negli ultimi 20-40 anni circa. Infatti, quella stessa parola ha sempre portato con se una connotazione negativa, negli USA, mentre una quarantina d’anni fa, un cantante italiano la utilizzò addirittura nel titolo di una canzone, con un evidente assenza di connotazione negativa. Il cantante si chiamava Fausto Leali, e il titolo della canzone era “Angeli Negri”!
“Negro” viene dal latino “scuro” e non ha nessun connotato negativo di per se. Se queste ora ci sono sono solo paranoie boldriniche. Se io fossi nero non avrei problemi a chiamare i miei simili negro e farmi chiamare tale. Anzi. Anche dai miei dissimili.
Il movimento letterario africano degli scorsi anni cinquanta dimostra che il vero messaggio razzista è togliere quella “gi” che peraltro è presente nel latino “niger”. Stesso discorsi per “zhingri”, “rom”, “korakanè” ed altri. Gli oscurantisti lo sanno ma censurano Orwell, che pure era contradditoriamente di simpatie labouriste. Del resto sono capaci di censurare anche il loro Gramsci sull’interventismo nella prima guerra mondiale o sui suoi giudizi positivi nei confronti de I Promessi Sposi manzoniani. Combattere l’oscurantismo sarebbe un dovere ma non è un duello ad armi pari. Noi abbiamo le fionde, loro i cannoni. Chi doveva stare con noi possedendo i cannoni ha preferito un altro tipo di cannoni o comunque un altro tipo di vizi non consigliabili per la salute psicofisica. Sì, pare che alla psiche non giovi neanche il tradimento coniugale, figuriamoci quello politico.