DI PIETRO AGRIESTI
Nel mondo non si è adottato un approccio unico al coronavirus: diversi Stati hanno adottato soluzioni differenti. Dal momento che vi sono enormi differenze tra Stato e Stato è pacifico che non sia applicabile ovunque la stessa ricetta. L’imposizione di un approccio unico sarebbe stata sicuramente meno efficace. Ma perché questo sarebbe vero solo tra Stati e non all’interno degli Stati stessi? È vero che alcune caratteristiche sono omogenee all’interno dello stesso Stato, ma molte altre no. Una risposta che riesca a tenere conto delle caratteristiche peculiari locali ha più chance di funzionare.
Lasciati liberi individui, imprese e tutti i diversi attori in generale, possono agire con una conoscenza della loro situazione particolare che il pianificatore centrale non può avere e dare, nell’insieme, una risposta alla crisi molto più flessibile, sfaccettata e aderente alla realtà.
Se l’esigenza di fare i conti con la pandemia è comune, la risposta non deve essere identica. Il decentramento dà vita a una pluralità di risposte e questa pluralità è il fondamento necessario per il verificarsi di un processo di scoperta delle soluzioni migliori. Non si tratta ovviamente di confrontare soluzioni in cui la pandemia viene curata seguendo i consigli degli epidemiologi e altre in cui si seguono quelli del mago Otelma. Ma di confrontare soluzioni diverse per calare nella realtà i consigli degli epidemiologi, che saranno anche esperti di epidemie, ma non sono onniscienti.
L’EPIDEMIOLOGO NON BASTA
Sicuramente la maggior parte di noi non sa niente di virus, epidemie, mascherine, test, etc.. perché queste sono informazioni tecniche che hanno gli esperti dei rispettivi campi coinvolti. Ma dal riconoscere questo, non ne deriva che la risposta alla pandemia sia scontata. Le informazioni che mi possono dare gli esperti sono preziose e financo indispensabili, ma non sono le uniche informazioni rilevanti.
Combattere la pandemia richiede più di quello che può conoscere l’epidemiologo. Che ne sa lui di come si producono mascherine e kit di test? Di come si costruisce un ospedale? Di come si gestisce l’ordine pubblico? Delle dinamiche della comunicazione? Delle conseguenze economiche del lock-down? E di infinite altre cose che esulano totalmente dalle sue competenze? Niente.
Mitigare la pandemia è importante, ma non dobbiamo correre il rischio di indossare i paraocchi e non vedere nient’altro o ci troveremo a dire, come in una famosa battuta: “L’operazione è riuscita, il paziente è morto”.
Abbiamo bisogno che la vita prosegua. Non possiamo semplicemente spegnere il mondo. Sarebbe un suicidio e il senso dii adottare delle misure sanitarie contro la pandemia è quello di consentire alla vita di proseguire. L’epidemiologo non ci basta.
La nostra sopravvivenza e il nostro benessere dipendono da un’infinità di attività “normali” che all’improvviso durante la crisi diventa problematico svolgere. Eppure vanno svolte. E l’epidemiologo non le sa svolgere, perché è esperto di epidemie, non di come fare il pane.
Panettiere ed epidemiologo si devono incontrare: sono necessari entrambi per trovare un modo di proteggersi dalla pandemia e di continuare a fare il pane. E abbiamo bisogno che nei limiti del possibile si continui a farlo.
Non si tratta semplicemente di salvaguardare gli interessi individuali di ciascuno. Questa strategia è di interesse collettivo: se ognuno riesce, nonostante la pandemia, a badare comunque ai suoi affari, questo è nell’interesse di tutti, perché quando bado ai miei affari, bado anche a quelli degli altri.
La gestione migliore della crisi attuale è quella dei paesi che hanno adottato approcci maggiormente basati sulla libertà e la responsabilità individuali. Dove le istituzioni si sono preoccupate soprattutto di dare informazioni chiare e corrette, di rispondere alle domande dei cittadini, di chiarire chi corre i maggiori rischi, quali sono i modi per proteggersi e come evitare di contagiare gli altri. Dove la popolazione è stata quotidianamente informata sull’andamento della pandemia, su cosa ci si aspettava per il futuro, sulle ragioni per cui si facevano certe richieste o si adottavano certi provvedimenti, sui comportamenti più corretti e prudenti da tenere. Dove insomma si è stabilito un rapporto virtuoso tra istituzioni, informazione e cittadini, di fiducia e collaborazione.
Gli esperti e gli scienziati hanno fatto la loro parte nell’informare e nel divulgare, nel dare linee guida, nel rispondere alle domande, nel chiarire gli scenari attesi e possibili, ma poi sono state coinvolte e responsabilizzate le persone, le famiglie, le associazioni, le comunità, le imprese. Approcci di questo tipo hanno ottenuto che la maggior parte delle persone, capendo la situazione, ricevendo le giuste informazioni, si attivasse in modo autonomo e responsabile. Ma certamente necessitano di un background di un certo tipo, che non può essere improvvisato, dove già non ci sia, all’arrivo di una pandemia.
La mia idea è che più le istituzioni, le imprese, la scienza, i media, le autorità si affermano e si mantengono attraverso meccanismi “di mercato”, su basi volontarie, contrattuali, dal basso verso l’alto, in un quadro di uguaglianza davanti alla legge e di trasparenza, e meno su basi coercitive, più è plausibile che alla libertà corrisponda la responsabilità, che e che fra i diversi attori vi siano rapporti di fiducia e collaborazione. Perché quando non puoi obbligare devi convincere, quando non puoi essere autoritario devi essere autorevole. Posto che in ogni contesto qualcuno si comporterà sempre in maniera irresponsabile, penso che questa sia la strada per ottenere nel corso del tempo, un contesto capace di fronteggiare le crisi senza sopprimere la libertà e minimizzandone i danni.
LIBERTÀ E RESPONSABILITÀ
Una posizione che assolutizza la prospettiva sanitaria, dimenticando tutto il resto e rinunciando a integrare la lotta alla pandemia con le altre esigenze è miope.
Uno degli elementi che ha fatto gioco a una migliore gestione della crisi è stata la possibilità di dare una risposta il più decentrata possibile, favorita anche dalla presenza di buoni rapporti tra istituzioni e cittadini, e di istituzioni centrali con istituzioni locali, nonché da una cultura fondata sull’autonomia e la responsabilità individuali, che ha facilitato la collaborazione tra istituzioni, informazione, scienziati e cittadini, e ha portato ciascuno ad attivarsi individualmente nel suo angolo di mondo, mentre intorno a lui gli altri facevano lo stesso, supportandosi a vicenda senza sentirsi oggetto di costrizioni e provvedimenti autoritari o di richieste irragionevoli. Questo tipo di risposta ha saputo contenere l’epidemia e i decessi, ma anche il panico e le tensioni sociali, e soprattutto i danni economici.
Più si mantiene l’economia funzionante, più i danni economici saranno contenuti. E siccome il mercato per funzionare ha bisogno della libertà degli attori economici, mantenere il più possibile in funzione l’economia implica garantire il più possibile la libertà individuale. Tanto più si riesce a salvaguardare questa, conciliandola con le esigenze sanitarie, tanto meno si compromette il funzionamento del mercato, tanti meno prodotti e servizi risulteranno scarsi, tante meno persone perderanno lavoro e reddito, tanta meno ricchezza andrà persa, tanto meno il futuro sarà nero.
Il lock-down è economicamente deleterio, porta al fallimento moltissime attività, lascia senza reddito un gran numero di persone, produce masse di disoccupati e genera, tra le altre cose, un crollo verticale del gettito fiscale. Nello stesso tempo comporta un forte aumento della platea di persone che avrebbe diritto, stanti le regole vigenti, a misure di sostegno da parte dello Stato, e ad un aumento delle richieste di allargare ancora di più quella platea.
Se questa situazione si protrae come si può finanziare un sistema sanitario che richiede più risorse per gestire la crisi mentre di risorse ne restano sempre meno? Quanto tempo ci vorrà perché il sistema sanitario collassi? O perché lo stato sociale imploda? Come fanno a operare gli attori di mercato in una condizione di totale incertezza in cui lo Stato può accendere e spegnere interi settori dell’economia?
Molti dipingono le ragioni dell’economia come contrapposte a quelle della vita umana, persino il Papa. Ma senza un sistema economico funzionante, capace di produrre le risorse necessarie, non esistono sistema sanitario, mascherine, test, ospedali, terapie intensive, respiratori, e niente altro. Le posizioni anti economiche sono anti-umane e genocide già in tempi normali: sostenute in tempi di pandemia risultano grottesche.
La verità è che per sopportare la crisi c’è bisogno di un sistema economico funzionante in splendida forma, capace di adattarsi velocemente a un evento imprevisto e dirompente. È normale arrivare allo scoppio della pandemia senza un milione di posti in terapia intensiva e senza una scorta adeguata di mascherine. Ma abbiamo bisogno di un sistema economico flessibile che si adatti velocemente alla nuova situazione e si riconfiguri a tempo di record, riallocando risorse da ciò la cui domanda è crollata a ciò la cui domanda ha subito un’impennata.
Bisogna fornire i beni che servono ad affrontare l’emergenza sanitaria, come mascherine, tamponi, kit di test, laboratori, letti d’ospedale, macchinari medici, farmaci, ventilatori e relativi professionisti. Ma anche adeguare il modo in cui vengono forniti tutti gli altri beni e servizi “classici”: nelle nuove condizioni, le modalità di produzione, distribuzione, vendita e acquisto non possono restare le stesse.
Non può avvenire in modo indolore. Il mutamento radicale della situazione si traduce in un mutamento radicale delle richieste dei consumatori, per soddisfare il quale è necessario un mutamento altrettanto radicale dal lato dell’offerta. Ma perché le risorse possano essere riallocate devono prima essere liberate, e per lasciare che ciò avvenga tutte le attività economiche che la crisi porta al fallimento devono essere lasciate fallire. Questo è chiaramente “doloroso”.
Ma il motivo per cui bisogna lasciare che i fallimenti avvengano e non sprecare risorse per cercare di impedirli (senza riuscirci) è consentire al mercato di riallocare le risorse nel modo più veloce possibile, così che il sistema economico possa ridisegnarsi per corrispondere a nuove esigenze, piani e priorità. La liquidazione dei vecchi investimenti e la liberazione delle risorse dalle vecchie attività è necessaria perché possano essere impegnate sulle nuove.
Più il mercato è libero, più la crisi sarà contenuta e prima la scarsità debellata. Prima chi ne avrà bisogno potrà trovare un nuovo posto di lavoro. Prima sarà possibile tornare a risparmiare e investire. Prima la produzione potrà farsi di nuovo lunga e complessa. Prima ci si lascerà alle spalle la crisi. Non si tratta del Dio mercato che vuole i suoi sacrifici di sangue, si tratta del modo più efficace per minimizzare le persone rovinate, i disoccupati, la povertà e le sue tragedie.
IL SOCIALISMO NON È UNA SOLUZIONE
Da un lato abbiamo la necessità che la risposta alla pandemia sia la più tempestiva possibile, dall’altro si tratta di una risposta complessa. Come tenere assieme rapidità e complessità? Di sicuro la soluzione non è bloccare tutto, stabilendo una stretta pianificazione centrale della società e dell’economia.
La complessità necessita della libertà. Nessun tipo di società centralizzata e pianificata ha mai saputo produrre l’ombra della ricchezza e del benessere delle società più libere.
Dopo tutto un sistema economico efficiente si regge sull’assenza di pianificazione centrale: è la sua mancanza che consentendo a ciascuno di agire per conto proprio fa sì che emerga un ordine spontaneo. La pianificazione dei pianificatori centrali è alternativa alla pianificazione decentrata di istituzioni locali, famiglie, imprese, ospedali, scuole chiese, assicurazioni, negozi, associazioni, individui. La prima implica la soppressione della seconda.
Immaginiamo che all’erompere di una situazione di crisi come questa pandemia tutta la società si fermi in attesa di muoversi secondo i comandi emanati da un unico centro comandi. Immaginiamo che politica e burocrazia debbano ridisegnare l’intera economia: non la produzione di una matita come nel celebre esempio di Leonard Reed, ma tutti i processi che portano a tutto. L’unico che potrebbe rendere l’idea di come andrebbero le cose è Kafka.
Il mercato funziona grazie alla libertà di ogni singolo attore, individuo, o associazione volontaria di individui. Sostenere che la pandemia richiede l’abbandono della libertà dei singoli attori e il passaggio a una economia pianificata, accesa e spenta per settori dal Grande Epidemiologo, significa, qualsiasi altro beneficio si possa ottenere, perdere l’ausilio del libero mercato e trovarsi a dover gestire un paese in condizioni sovietiche, incorrendo in tutti i problemi evidenziati da Mises ne “L’impossibilità del calcolo economico in regime socialista”. Anche se fosse inevitabile, le conseguenze sarebbero comunque quelle di una enorme devastazione economica.
Il mercato si regge sull’autonomia dei singoli attori, che a sua volta si regge sulla proprietà privata come spazio di autonomia decisionale. Su un sistema dei prezzi non distorto da interferenze coercitive. Il lock-down, forma estrema di esproprio e collettivizzazione totale, manda in tilt tutto questo.
In un’economia pianificata burocrati e politici, dall’alto e dal centro, fissano gli obbiettivi, stabiliscono le priorità, e indicano in che modo vanno perseguiti. In un libero mercato ogni attore decide i propri obbiettivi, stabilisce le proprie priorità, elabora e segue i propri piani. Il libero mercato risponde ai bisogni e ai desideri delle persone che ne fanno parte semplicemente perché ognuno è libero di esercitarli quotidianamente. E questa libertà è certamente limitata, ma dalla libertà altrui, non dalla coercizione e dalla violenza.
Ognuno si trova nella convivenza con gli altri alle prese con la necessità di integrarsi con loro su vari piani, perché questo è un elemento essenziale da cui dipendono il benessere, le possibilità e la qualità della sua vita. L’integrazione e il coordinamento “generali” sono il prodotto di questo lavoro di ciascuno nella sua situazione particolare. Quando ogni attore del sistema si preoccupa autonomamente di trovare il modo di incastrarsi con gli altri attori, anche se lo fa senza avere visione dell’ordine sociale generale e senza sapere come funzioni, il risultato è ordine e non caos. In questo modo si sono prodotte storicamente un’infinità di istituzioni e meccanismi di coordinamento: lingue, monete, unità di misura, sistemi di calcolo, condivisi fra milioni di persone senza alcuno Stato a disegnarli e imporli.
E se c’è un momento in cui c’è bisogno di ristabilire l’ordine, di trovare un nuovo equilibrio e una nuova configurazione economico sociale è durante una crisi.
IL LIBERO MERCATO INVECE SÌ
In qualsiasi stato di crisi ci si trovi il mercato continua a rispondere ai bisogni e ai desideri delle persone che ne fanno parte, semplicemente perché ognuno continua a esercitarli anche durante una crisi. La legge della domanda e dell’offerta non cessa di operare neanche sotto le bombe, il sistema dei prezzi, anche se limitato e distorto, continua a trasportare informazioni e coordinare piani e azioni dei diversi attori e il mercato continua ad essere un gioco a somma positiva.
Da chi ci dovremmo aspettare mascherine per tutti e a prezzi economici? Kit di test a domicilio? Laboratori d’analisi in abbondanza? Posti in ospedale? Respiratori? Farmaci? Servizi di consegna a domicilio? Macchine per l’igienizzazione? Disinfettanti? E da dove dovrebbe venire la capacità di ripensare la produzione, la distribuzione e la vendita di prodotti e servizi, all’epoca della pandemia? E da dove dovrebbero venire i prestiti, gli investimenti, gli strumenti finanziari, le assicurazioni, per coadiuvare tutto questo? Se non dagli imprenditori, dall’innovazione, dalla competizione, dal libero commercio, dal libero mercato?
La pianificazione aggiungerebbe solo disordine al disordine. Sarebbe impossibile raccogliere altrimenti le informazioni che il sistema dei prezzi raccoglie e trasporta, o fornirle in altro modo: non può essere sostituito da un qualche tipo di grande organizzazione burocratica.
Se in un luogo viene a mancare qualcosa, per esempio le mascherine, i prezzi di ciò che manca iniziano a salire, perché le persone che lo domandano si trovano in competizione tra loro. Il salire dei prezzi porta alla moderazione e al razionamento, attira le risorse di cui c’è bisogno da altri luoghi e fa anche scattare tutti gli altri comportamenti che possono aumentare l’offerta o soddisfare in altro modo la domanda.
Se le mascherine sono scarse e i prezzi restano bassi, le mascherine si esauriscono immediatamente, i primi che vanno a comprarle le ricevono e tutti gli altri restano senza. Il prezzo basso non fa percepire alle persone che le scorte sono scarse, non comunica l’urgenza di usarle con prudenza e non fa scattare i comportamenti di risparmio e auto moderazione che si innescherebbero altrimenti.
Se il prezzo delle mascherine sale a Milano chi già ne possiede sarà invogliato a venire a venderle a Milano. Quindi le scorte situate altrove potranno essere allocate dove c’è più urgenza attenuando la scarsità: esattamente come nel caso delle carestie, di cui non ci preoccupiamo più da tempo, grazie alla maggiore integrazione economica.
La crescita del prezzo attira nuovi investimenti e nuovi imprenditori, e porta a riorganizzare il modo in cui i beni scarsi vengono prodotti, per produrli con maggiore efficienza, in modo più veloce e in maggiore quantità. Ad esempio durante la crisi attuale molte aziende si siano convertite alla produzione di mascherine o di altri beni attualmente scarsi e necessari.
Spinge a cercare modi alternativi di rispondere alla domanda dei beni che scarseggiano: non solo modi alternativi di produrre quei beni – ed ecco la ricetta dell’Amuchina fatta in casa, o i tutorial per le mascherine fai da te – ma anche dei beni alternativi che possano essere usati al posto di quelli che scarseggiano.
Ma perché tutto questo possa accadere è necessario che i prezzi siano lasciati liberi di riflettere la domanda e l’offerta reali e non siano fissati politicamente. Tanto più sono estesi la platea degli attori coinvolti, la divisione del lavoro, l’integrazione economica, il libero scambio, tanto più abbondantemente e rapidamente la scarsità sarà debellata e i prezzi torneranno a scendere, comunicando agli attori che la crisi è passata e il razionamento può finire.
Fissare un prezzo politico significa sabotare il sistema immettendovi informazioni false: gli attori che prenderanno le loro decisioni sulla base di queste informazioni saranno male indirizzati e compiranno scelte che a un certo punto andranno a infrangersi contro una realtà diversa da quella che il sistema dei prezzi gli aveva fatto supporre.
VIVA IL PROFITTO, VIVA LA RICCHEZZA
La legge della domanda e dell’offerta, il sistema dei prezzi, la proprietà privata e la libertà individuale, combinati, sono ciò che può garantire una migliore risposta alla crisi economica e alla scarsità dei beni e dei servizi che la pandemia richiede, rispetto alla pianificazione statale. Il profitto, lungi dall’essere un modo di calpestare la vita umana, è al suo servizio: fornisce ai diversi attori la guida e gli incentivi per rispondere in modo decentrato, autonomo, ma coordinato, alla crisi.
Quali che siano le motivazioni personali che si hanno in mente mentre si agisce i profitti derivano dal saper soddisfare bisogni e desideri di chi abbiamo intorno: e fin tanto che questi vengono soddisfatti le persone intorno stanno meglio e ciò che facciamo è oggettivamente positivo per loro.
Il profitto non è qualcosa che riguarda solo chi è mosso da motivazioni egoiste, è una guida indispensabile per agire in modo razionale, e in quanto tale riguarda ed è utile a tutti. Slogan come “mettere la vita umana prima del profitto” promuovono un comportamento all’insegna dell’irrazionalismo, che rifiuta ideologicamente il piano economico ed è destinato a causare disastri. Senza profitto non esistono nemmeno carità e gratuità: se posso permettermi di donare è perché in un altro contesto ho saputo far profitto. È perché svolgo alcune attività con un intento economico e indirizzato al profitto che in altri frangenti posso, mettendolo da parte, concedermi gesti di spontanea solidarietà disinteressata.
E ancora: la ricchezza è uno scudo contro gli imprevisti. Chi ha sufficienti risparmi da parte può affrontare meglio i periodi di crisi. Un lavoratore può affrontare un periodo di disoccupazione. Un’azienda un periodo di magra. Una persona che si ammala i costi delle cure. Chi ha un genitore anziano può permettersi un badante. Gli esempi sono infiniti: disoccupazione, malattie, malasorte, disastri naturali, chi ha da parte li affronta meglio. Vale per un individuo, una famiglia, un’impresa e una società nel suo complesso.
Anche se molti sono convinti che la ricchezza di uno sia la povertà di un altro è vero il contrario: la ricchezza e il benessere altrui sono la mia ricchezza e il mio benessere. Grazie alla libertà degli scambi e dei commerci il progresso altrui è il nostro progresso. Se un paese che non è il nostro si arricchisce tanto meglio, sarà un migliore partner commerciale, avrà di più da offrirci e avrà modo di acquistare di più da noi. E siccome in genere la crisi, la carestia, la pandemia, il terremoto, lo tsunami, etc… non colpiscono tutto il mondo contemporaneamente allo stesso modo, in un mondo di integrazione economica la singola regione in sofferenza può appoggiarsi alle altre regioni che stanno meglio, con vantaggio reciproco.
La produzione di macchinari medici, farmaci, vaccini, materiale sanitario, infrastrutture ospedaliere, etc… richiede processi di ricerca, di sviluppo, di produzione, lunghi e complessi, che coinvolgono un’infinità di attori e richiedono una miriade di competenze. Le competenze necessarie richiedono lunghi e complessi percorsi di studio. Se lo può permettere solo una società sviluppata e ricca, dove si fanno investimenti di medio e lungo periodo, dove la divisione del lavoro e la specializzazione hanno raggiunto livelli molto elevati. Non società dove a nove anni vai a lavorare nei campi. Ci vogliono capitalismo e libero mercato: risparmio, investimento, perdite e profitti, divisione del lavoro, specializzazione, crescente integrazione economica, progresso scientifico e tecnico, un’economia sempre più complessa, strumenti finanziari avanzati. Non fantasie su diritti da garantire a prescindere, non fantasie di comunismo e gratuità, di autarchia e isolamento, di pianificazione centrale e autoritarismo.
MENO COERCIZIONE POSSIBILE
Parlare di libertà individuale durante la pandemia non è una sterile fissazione su una concezione astratta di diritti individuali. Si tratta di un interesse vitale condiviso: preservare la massima libertà possibile per tutti significa preservare tenore di vita, benessere, sviluppo, salute, stabilità, armonia. Per questo anche se bisogna in qualche modo limitare lo svolgimento delle normali attività e prendere delle misure restrittive – che è meglio siano più dei comportamenti prudenti e responsabili messi in opera spontaneamente – è essenziale che queste siano il minimo necessario e non di più.
Con un’ottica liberale e libertaria si dovranno limitare solo i comportamento realmente pericolosi e punire solo i comportamenti che espongono concretamente qualcuno a un pericolo. L’ottica non sarà proibire tutto tranne quello che dice il Ministero della Pianificazione Totale, ma permettere tutto tranne quello che è concretamente pericoloso. Ogni attività che si possa svolgere senza violare alcune norme sanitarie necessarie si deve poter svolgere: non deve esistere il reato di uscita di casa per motivazioni non strettamente indispensabili, né si devono chiudere imprese e negozi ritenuti non essenziali. Le motivazioni con cui uno esce di casa o il tipo di attività svolta non c’entrano nulla. Che la legge e la polizia si mettono a sindacarle è insensato. Se esco di casa per contare le antenne ai grilli, ma non avvicino nessuno, non contagio nessuno: il fatto che sia un’attività non essenziale è indifferente. Se nella mia azienda di bambole gonfiabili per cani (sì, esistono, se ve lo state chiedendo) rispetto le norme sanitarie di sicurezza non c’è motivo di chiudermi, anche se non si tratta di beni di prima necessità. Se volgiamo persone libere e responsabili dobbiamo anche trattarle come persone intelligenti: se gli diamo da seguire delle linee guida palesemente cretine, non le seguiranno; se le puniamo per comportamenti palesemente innocui non collaboreranno.
La pianificazione dei pianificatori centrali sopprime la pianificazione decentrata di istituzioni locali, famiglie, imprese, ospedali, scuole chiese, assicurazioni, negozi, associazioni, individui. Più se ne occupa il governo, meno se ne possono occupare tutti gli altri. Un contesto libertario non implicherebbe totale libertà di movimento, assenza di chiusure o quarantene, mancanza di misure di precauzione. Implicherebbe invece la libertà dei vari soggetti privati di assumere questi provvedimenti. Salute, precauzione e sicurezza sarebbero beni chiesti dai clienti sul mercato. I clienti vorrebbero attività che prendessero misure per garantire la loro sicurezza e la loro salute. I lavoratori vorrebbero aziende che facessero lo stesso. Le aziende vorrebbero preservare la salute della propria forza lavoro. Le compagnie di assicurazioni imporrebbero condizioni. Comunità volontarie potrebbero avere le proprie regole riguardo ai momenti di crisi come questo. Potrebbero avere contratti con organizzazioni preposte ad avvisarle di simili rischi e/o a indicare le misure da adottare. Le residenze per anziani, o le scuole, o tutti coloro che giudicassero opportuno farlo, potrebbero chiudersi e isolarsi. Non ci sarebbe libertà assoluta di movimento (non ci sarebbe mai, non c’è neanche oggi, non ci sarebbe neanche senza pandemia), ma neanche un blocco totale.
Nell’immediato, in presenza di Stati per lo più di grandi dimensioni e spesso centralizzati, sistemi sanitari quasi del tutto pubblici e ampi sistemi di welfare, è irrealistico pensare si potesse affrontare la quarantena senza interventismo statale. Se lo Stato ha avocato a sé la sanità nel momento del bisogno deve cercare di gestirla al meglio. Tuttavia la gestione della crisi è stata migliore là dove la coercizione è stata minore. Dove le quarantene sono state mirate e più che sui divieti si è puntato sull’informazione. Dove l’autonomia delle istituzioni locali ha funzionato bene. Dove privati e imprese hanno potuto dare il loro contributo. E non dove impedimenti burocratici hanno soffocato l’autonomia locale o il contributo privato. Non in Cina e in Italia quindi, ma a Taiwan, in Corea del Sud, in Svezia, in Svizzera.
IL LUNGO SUICIDIO ITALIANO
Ma quello che ha fatto la differenza non è solo il comportamento tenuto allo scoppiare della pandemia, ma anche quanto fatto nei decenni precedenti. I sistemi dove si è potuto procedere con meno coercizione sono quelli che già da molto prima della crisi avevano imboccato questa strada. Bastiat insegna a considerare anche ciò che non si vede e Hazlitt a guardare alle conseguenze di lungo periodo. Oggi viviamo le conseguenze di lungo periodo delle scelte fatte in passato, che all’epoca non avevamo previsto e di cui non avevamo tenuto conto.
La coercizione statale, il centralismo, l’interventismo economico, la pianificazione, la socializzazione della sanità, le politiche monetarie, la tassazione, il welfare, hanno deviato per decenni e più il corso delle nostre società da quello che sarebbe stato altrimenti portandoci a una condizione talmente distante da quella che avrebbe potuto generare un libero mercato, che è diventato molto difficile immaginare come sarebbe stato il mondo non l’avessero fatto. La vera preparazione alla pandemia sarebbe stata scegliere il libero mercato fin dall’inizio.
La ricchezza e l’innovazione che abbiamo distrutto scegliendo lo statalismo non sono qui a proteggerci ora che ne avremmo bisogno. La cultura e la mentalità diffuse, all’insegna della libertà, dell’autonomia e della responsabilità individuali, che ci avrebbero portato a respingere le risposte più violente e distruttive alla crisi sono in Italia ormai quasi del tutto assenti. La diffidenza nei confronti della politica e dello Stato e la fiducia nella libertà, nel mercato, nell’impresa sono merce rara, ed ecco perché ci auto infliggiamo una distruzione economica devastante senza rendercene conto, cantando sui balconi e appendendo lenzuola con disegni di arcobaleni. La flessibilità di un sistema economico di libero mercato, capace di risolvere una crisi economica in tempi brevissimi, come avvenne nella crisi dimenticata degli anni ’20, non sappiamo cosa sia.
Siamo ormai incapaci anche solo di concepire un sistema che non sia fondato sul debito pubblico, le tasse, lo scarica barile, la norma burocratica: in poche parole sui soldi degli altri e l’assenza di responsabilità. Ecco perché ad esempio vediamo persone che hanno commesso errori gravi, costati vite umane, trincerarsi dietro “ho dovuto rispettare le norme, ho dovuto chiedere il permesso, ho seguito quanto definito dal documento X, dalla procedura Y, dal mio superiore Tal dei Tali”. Incapaci di agire in coscienza, in nome del loro senso di responsabilità individuale, indipendentemente da norme e regolamenti.
La maggioranza in Italia è impostata in modo tale da promuovere tutto ciò che è più autodistruttivo. L’opinione pubblica, dal popolino al grande intellettuale, è un’accozzaglia di assurdità, contro la globalizzazione, per le nazionalizzazioni, il protezionismo, la sanità pubblica e gratuita, i sussidi a pioggia, i salvataggi, il debito pubblico, la stampa di moneta, il controllo dei prezzi, la patrimoniale, contro i privati, contro gli imprenditori, contro i ricchi, contro i paradisi fiscali e in una parola per lo stato di polizia.
Prendiamo ad esempio la questione dei tagli alla sanità: è vero, veniamo da un periodo di tagli alla sanità (e a tutto il resto). Sono decenni che le cose vanno così senza che si levino voci contrarie o quasi. È inaccettabile e lo stiamo pagando caro proprio durante questa crisi. In particolare le fasce della popolazione più deboli: senza tetto, disoccupati, poveri, precari, anziani, malati. Se c’è una cosa che dovremmo imparare dalla crisi, avendo visto collassare il nostro sistema sanitario e avendo avuto in Italia una mortalità superiore a quella riscontrata altrove, è a dire “No” a questi tagli.
Solo che i tagli non sono quelli fatti dallo Stato alla sanità pubblica: è la spesa sanitaria statale ad essere un taglio alla sanità. È il non aver affidato la sanità al mercato, e in generale l’assenza in tutti i settori di un libero mercato, che ha reso il nostro sistema sanitario inadeguato.
Minimizzare la coercizione è fondamentale e non vuol dire solo non affrontare la pandemia istituendo la legge marziale, vuol dire anche minimizzare le tasse – che sono un furto – e la spesa pubblica. Vuol dire libertà d’impresa. Libertà di fare dei propri soldi ciò che si ritiene meglio, consumando, risparmiando e investendo a piacere. Libertà di usare il mezzo di pagamento che si preferisce. Libera concorrenza. Libero commercio con tutti senza impedimenti. Libertà di associarsi e non associarsi. Libertà di discriminare. Libertà contrattuale. Libertà di difendersi.
Il prodotto di tutta questa libertà sarebbe stato un grande accumulo di ricchezza che avrebbe finanziato anche la sanità. Un sistema economico capace di assorbire la crisi economica dovuta alla pandemia molto più velocemente. Un sistema sanitario aderente alle esigenze reali della popolazione e non ai piani elaborati da politici e burocrati, più ricco di risorse e più flessibile (come ha dimostrato di essere il sistema sud coreano, fra i più liberali al mondo). Un’informazione e un sistema mediatico affidabili, perché selezionati per “meriti” nei confronti dei clienti, non per entrature politiche. E sul piano culturale un’abitudine a essere liberi e responsabili, a cercare soluzioni non coercitive ai problemi, a collaborare con gli altri su un piano di parità nel mercato, a non invocare sempre lo Stato madre, padre e padrone, ad ammirare il successo, la ricchezza, lo spirito imprenditoriale, l’innovazione e la competizione onesta.
Liberando il mercato ci accorgeremmo che è perfettamente in grado di darci ciò di cui abbiamo bisogno meglio dello Stato: sanità, scuola, sicurezza, strade, etc.. Per tutto il mercato può fornirci alternative non statali che ci permetterebbero di avere i servizi che oggi ci dà lo Stato senza bisogno di ricorrere alla coercizione. E sarebbero migliori anche solo perché la violenza è un modo rozzo e stupido di organizzare le cose: da un lato semplifica e velocizza, eliminando complessità e mediazioni nelle relazioni con gli altri, ma dall’altro proprio per questo perde per strada tutti i contributi che gli altri potrebbero dare.
Oggi il nostro sistema sanitario socializzato dimostra tutti i suoi limiti, la nostra economia crolla, e la nostra cultura dimostra una totale inadeguatezza: gli intellettuali delirano dei mali del capitalismo e si augurano che il corona virus ne rappresenti la fine, i politici ripropongono le stesse ricette di sempre moltiplicate per dieci, gli elettori stanno metà sui balconi a cantare e l’altra metà a mendicare soldi dallo Stato, i sindacati si battono contro i test privati, e Papa Francesco benedice e incoraggia tutto questo.
Tutto il debito pubblico, i buchi di bilancio, la gestione irresponsabile delle finanze pubbliche centrali e locali, le manovre per spingere la gente a consumare e contro il risparmio, si rivelano di fronte alla crisi come altrettanti modi in cui si sono resi gli italiani più vulnerabili, meno in grado di sopportare la perdita o la riduzione del reddito, la disoccupazione, le difficoltà che la pandemia porta con sé. Eppure i politici e gli pseudo economisti che gli reggono bordone sono ancora lì a proporre debito e manovre per spingere i consumi.
La ricchezza, il risparmio, l’investimento sono ciò che serve per prepararsi alle crisi che possono arrivare. Tutti i provvedimenti presi contro la creazione di ricchezza, il risparmio, e l’investimento hanno contribuito a renderci fragili ed esposti, così come a darci una sanità peggiore. Eppure chi odia la ricchezza, il risparmio e l’investimento, oggi gioisce del coronavirus, vedendoci l’ennesima occasione per riproporre le sue teorie anticapitaliste.
Con il crollo del pil, la disoccupazione che esplode, i fallimenti di tante aziende, i barboni multati perché stanno all’aperto, tutti chiusi in casa, a rischio salute mentale, impossibilitati ad uscire a mangiarsi una pizza, ad andare al cinema, a farsi un viaggio, a trovarsi con gli amici per una partita a calcio, ad andare a messa, a fare shopping, ad andare in spiaggia, a recarsi in negozio o in ufficio a lavorare fianco a fianco coi colleghi, con le macchine per lo più ferme, le scuole chiuse, le strade vuote, gli aerei a terra, viviamo la decrescita e la vita più ecologica che in molti propongono. E nonostante il fatto che il risultato sia devastante, continueremo a sentirci proporre la decrescita ad oltranza anche dopo questa esperienza. Ci diranno ‘non era vera decrescita’ come ci hanno detto ‘non era vero comunismo’.
Nessuno di coloro che nei decenni passati ha portato l’Italia a indebitarsi mostruosamente ha realizzato che se non ci fossimo indebitati in modo indecente in tempi ordinari, in tempi straordinari avremmo anche potuto farlo in via eccezionale e limitata. Nessuno ha realizzato che debito pubblico, spesa pubblica, tasse, lotta all’evasione, piani di sviluppo, hanno solo impoverito gli italiani. Nessuno fra politici e loro consiglieri ha avuto il buon gusto di sentirsi in colpa di fronte allo sfacelo di queste settimane, agli infermieri che si suicidano, alle case di riposo falcidiate, alla crisi economica che si prepara e spararsi un colpo in testa, come ultimo gesto di dignità possibile. Erano impegnati a salvare Alitalia.
Un bellissimo escursus, che dovrebbero leggere laici, credenti e non credenti, ma soprattutto quelli che aiutano il prossimo e lo fanno come mestiere, al calduccio, stipendiati.
Meglio ancora se le dimensioni delle territorialità fossero come la repubblica di San Marino o al massimo come l’estensione attuale di Roma. E’ possibile che fuori d’Italia, come in Svezia, gli esperti abbiano svolto la loro parte in modo migliore che in Italia. Ma sui dati statistici comparati con i contagiati dai virus influenzali degli anni precedenti c’è stata una censura internazionale. Il dato di Wuhan preoccupa? Anche con la Sars in quell’area ci fu un maggior numero di persone colpite, spesso i virus vengono da lì. Il motivo può essere legato ad abitudini locali e magari anche alla leggerezza adottata in laboratorio. Ma allora il problema non è più scientifico ma politico. Resta inteso che le “autorità” ci trattavano da cretini quando si temeva il mancato isolamento da chi veniva da lì e hanno continuato a trattarci da cretini ritenendo che senza imposizioni non si sappiano prendere eventuali precauzioni. Da cretini ci hanno trattato dicendo che il rischio di contagio per noi era zero e da cretini ci trattano, a voltafaccia acquisito, quando si contestano le loro decisioni in base al diritto e ai dati statistici. Allarmisti italiani e irresponsabili turkmeni sono la faccia della stessa medaglia. I primi amano il terrorismo, i secondi odiano l’igiene. In tutti e due i casi l’informazione migliore la offre, come al solito, il mercato. Quando è autentico, non la finzione italica o di gran parte degli stati dell’Unione Europea.
Ale, riguardo l’estensione del territorio sono d’accordo con te che sia piccolo.
Una superficie equivalente a due regioni? come una metropoli?
Diciamo che variare potrebbe essere una buona risposta, vedere perciò tanti stati con tante superfici un po’ come per esempio in svizzera: lì non hanno una superficie standard decisa dallo Stato Supremo, vanno dai 37 agli oltre 7mila chilometri quadrati, secondo come è capitato che siano storicamente nati o sia stato deciso in seguito a secessioni.
Anche perché ci potrebbero essere contrasti inconciliabili tra comunità limitrofe e quindi stabilire unioni o divisioni arbitrarie riproporrebbe gli stessi errori fatti con l’unità d’italia prima e d’europa poi.
il “cosa fare” secondo me è un falso problema nel senso che, sempre secondo me, ci dovrebbero essere due livelli decisionali, ricordando sempre che la guida dev’essere ‘Stare con chi vogliamo e con chi ci vuole’:
il primo è a livello individuale: faccio quel che mi pare fino a quando non aggredisco materialmente qualcun altro, e nessuno può impormi quel che non voglio. Se non ti sta bene vattene. Alle brutte sarò costretto ad andarmene io.
il secondo è a livello di singola comunità che può prendere una decisione secondo lo statuto base (costituzione) che si è (veramente) data. Costituzione che conterrà una serie di norme e verrà valutata dai suo cittadini: norme che prevedono o meno la schiavitù, il libero mercato, l’aborto, i vaccini, mascherine, la proprietà collettiva totale parziale o minima fino alla nulla, ed ancora norme che prevedono revisione della costituzione e modalità per farlo, eccetera.
In questa comunità si deciderà COSA fare, come, quando e quanto. Non potremo noi imporlo alla comunità vicina né viceversa (1).
Per far coesistere questi due livelli, per facilitare al massimo gli individui nella ricerca della loro felicità, per evitare attriti e conflitti, per far emergere il maggior numero di scelte possibili, ebbene la risposta è la presenza di Stati Sovrani piccoli.
Piccoli quanto un paio di medie regioni italiane messe assieme, tipo lazio ed abruzzo, toscana ed emilia, ecc… Possono anche essere all’interno di una confederazione, purché sia vera e non come in Germania o negli Usa e forse anche in Svizzera.
La possibilità di scelta di vivere dove le scelte della collettività si avvicinano alle mie, sarà ovviamente più facile avendo una frontiera vicina. Trasferirsi a 100 chilometri non è come essere costretto a cambiare continente; in un’ora potrò raggiungere amici e parenti, cenare coi miei cari e tornarmene a cena oltre frontiera, nel mio Paese.
(1) anche se mi aspetto, visto le guerre preventive e addirittura l’atteggiamento di certi libertari, che le comunità vicine ci facciano guerra per imporci il loro punto di vista perché temono che il nosto modo di fare li contagi, o li ammali, o li inquini, o li metta in pericolo in qualche modo.
“Gli esperti e gli scienziati hanno fatto la loro parte…” Non sempre. Molti si sono dimostrati né esperti né scienziati. Tutto il lungo discorso (senti chi parla di lunghezza!) può andare bene per prevenire situazioni di epidemie e pandemie reali, una buona teoria in linea con il pensiero liberale in genere. Ma l’allarmismo (che è il caso in questione) non ha nulla di scientifico né può essere ascritto a un’azione compiuta da esperti; che spesso si sono rivelati sedicenti tali. Non credo che un potere centralizzato sia saggio. Ma all’interno di un potere, centrale o periferico che sia, possono esserci persone che praticano la saggezza. Pura casualità, comunque;: il divieto di parlarne è sbagliato ma il procurato allarme è giusto che in qualche modo venga sanzionato. Anche in un sistema libertario.
“Gli esperti e gli scienziati hanno fatto la loro parte” si riferisce ai paesi virtuosi descritti nel paragrafo prima.. come la Svezia..
La gestione migliore della crisi attuale è quella dei paesi che hanno adottato approcci maggiormente basati sulla libertà e la responsabilità individuali. Dove le istituzioni si sono preoccupate soprattutto di dare informazioni chiare e corrette, di rispondere alle domande dei cittadini, di chiarire chi corre i maggiori rischi, quali sono i modi per proteggersi e come evitare di contagiare gli altri. Dove la popolazione è stata quotidianamente informata sull’andamento della pandemia, su cosa ci si aspettava per il futuro, sulle ragioni per cui si facevano certe richieste o si adottavano certi provvedimenti, sui comportamenti più corretti e prudenti da tenere. Dove insomma si è stabilito un rapporto virtuoso tra istituzioni, informazione e cittadini, di fiducia e collaborazione.
Qui gli esperti e gli scienziati hanno fatto la loro parte nell’informare e nel divulgare, nel dare linee guida, nel rispondere alle domande, nel chiarire gli scenari attesi e possibili…
In Italia loro meno..
Attenzione però a dire che “il potere” sbaglia sempre a centralizzare.
Nel caso della pandemia, mi ha colpito molto l’atteggiamento del Turkmenistan.
All’inizio del fenomeno, il Turkmenistan ha vietato parlare dell’argomento COVID!
Probabilmente si erano accorti che l’allarmismo avrebbe fatto più danni della malattia, e infatti è andata proprio così.
Questo per dire che la saggezza esiste e anche un potere centrale può averla.
La non informazione non è certo una scelta migliore della buona informazione. Può essere meglio dell’allarmismo, ma è senza dubbio peggio della buona informazione. Il pianificatore centrale ha preso una decisione draconiana. D’altronde è logico perché non può avvalersi del contributo di tutti, e le sue scelte sono limitate. La buona informazione viene da un rapporto virtuoso fra tanti soggetti. E la tesi è che questo si possa verificare solo in un contesto di mercato, di proprietà privata, di libertà e responsabilità, e che invece centralismo e coercizione non possano che perdere per strada informazioni, conoscenze, contributi essenziali. Come avviene per es con i “prezzi” politici, rispetto ai prezzi di mercato. Da qui la decisione centrale è sempre rozza, lontana dalla realtà specifica, violenta. Mentre il decentramento permette – anche se non automaticamente – un livello di risposta ai problemi molto più flessibile, vario, e aderente alla realtà.
Mah, sono tutte idee che si nutrono di astrazioni concettuali.
Quando ti sta cadendo una tegola in testa, cosa fai? Chiedi informazioni? Fai la riunione di condominio? No, se sei sveglio ti scansi. Sennò ti prendi una tegola in testa.
Prima ancora del mercato ci siamo noi. Noi. Noi.
Anzi, è senza le informazioni esterne che si vede se sei in gamba o no,se hai un intuito che ancora funziona.