DI MATTEO CORSINI
Che lo Stato sia, come intuì brillantemente Bastiat, “la grande finzione per mezzo della quale tutti cercano di vivere alle spalle degli altri”, lo si deduce ogni giorno leggendo o ascoltando gli inviti al governo a fare questo o a non fare quell’altro.
Per esempio, sul giornale della corporativa Confindustria, il direttore Fabio Tamburini invitava di recente Matteo Salvini a passare dalle parole ai fatti.
Dopo aver ricordato (bontà sua) che i conti pubblici sono scassati e che nella prossima legge di bilancio occorrerà trovare circa 40 miliardi, Tamburini scrive:
“Matteo Salvini è di fronte a scelte decisive. Il rischio è che la felice stagione della crescita dei consensi si esaurisca e che variabili esterne alla politica facciano sentire il loro peso. Insomma, è arrivato il momento in cui deve rompere gli indugi e assumere le responsabilità del caso. È arrivato il momento di passare dalle parole ai fatti, dalla litigiosità alla concretezza. Soltanto così potrà essere possibile passare dalle politiche dell’austerità, che sono risultate perdenti, a quelle dello sviluppo, l’unica medicina vera per il rilancio del Paese. Evitando l’errore di puntare la maggior parte delle risorse disponibili, poche, sull’assistenzialismo.”
Che anche in un giornale nel quale non dovrebbero mancare le competenze in materie economiche si dia sostegno alla narrazione in base alla quale in Italia siamo da anni alle prese con politiche di austerità a me pare allucinante.
Ci sono state le mazzolate fiscali del governo Monti, che indubbiamente hanno pesato su quasi tutti, tranne che sui consumatori di tasse, dato che anche in quel caso si puntò a un aumento delle tasse più che a una riduzione di spesa (eccezion fatta, in prospettiva, per la riforma delle pensioni).
Ma nelle stagioni successive, e in particolare da Renzi in poi, c’è stata per lo più redistribuzione, ossia mance distribuite al proprio (supposto) bacino elettorale con il conto a carico di altri (presenti o futuri). E neppure la riduzione di circa 20 miliardi di spesa per interessi procurata dalle manovre monetarie della BCE sono serviti a ridurre la spesa pubblica complessiva.
Parlare di austerità, quindi, è semplicemente parlare a vanvera.
E l’invocazione di non meglio precisate politiche “di sviluppo” sembra il sinistro richiamo a politiche da keynesismo all’amatriciana, tanto amate da più parti in Italia.
Ben venga la riduzione dell’assistenzialismo (meglio ancora sarebbe l’eliminazione), ma senza una restrizione complessiva del perimetro d’azione dello Stato (e quindi della spesa pubblica), un Paese con il bilancio scassato come l’Italia non può andare da nessuna parte.
Il tempo di vivere alle spalle degli altri ormai potrebbe essere in fase di esaurimento, anche per quelli che, in cambio di un superammortamento, se ne fregano che la spesa pubblica non sia tagliata di una virgola e che i ministeri annuncino un giorno sì e l’altro pure dei piani di assunzione di migliaia e migliaia di nuovi dipendenti pubblici.