DI REDAZIONE
Tra i pionieri del libertarismo in Italia ed esponente dell’ala anarco-capitalista, Guglielmo Piombini è autore di numerosi saggi e contributi su tale filone di pensiero. Come e quale è stata la ricezione nel Belpaese del pensiero libertario?
Il libertarismo è ancora un pensiero non molto conosciuto nel nostro paese, ma rispetto a dieci anni fa sono stati fatti enormi passi in avanti. Il primo a far circolare le idee libertarie in Italia è stato Riccardo La Conca, che alla fine degli anni Settanta pubblicò cinque numeri della rivista Claustrofobia e poi un originale libro, con la Sugarco, intitolato Democrazia, mercato e concorrenza. Quella di La Conca è stata purtroppo una breve meteora, e per più di dieci anni le idee libertarie sono scomparse dalla scena culturale italiana. Alla metà degli anni Novanta i libertari in Italia si contavano letteralmente sulle dita di una mano: erano cinque giovani entusiasti (Luigi Marco Bassani, Nicola Iannello, Carlo Lottieri, Alessandro Vitale e il sottoscritto) che iniziarono a riunirsi, a Milano o a Brescia, per studiare i modi di riportare nel dibattito le idee che li appassionavano. Il risultato di questa attività, favorita anche dal clima ideologico generale (erano gli anni di un diffuso sentimento antistatalista, che partiti come la Lega Nord di allora e quotidiani come L’Indipendente di Feltri avevano canalizzato in maniera efficace) è stata la traduzione e la pubblicazione delle opere di un buon numero di autori libertari: Murray N. Rothbard, David Friedman, Ayn Rand, Walter Block, Bruno Leoni, Albert Jay Nock, Lysander Spooner, Gustave de Molinari, Fréderic Bastiat, Hans-Hermann Hoppe, da parte di piccoli ma intraprendenti editori come Aldo Canovari della Liberilibri di Macerata e Leonardo Facco di Treviglio. Particolarmente importante l’attività editoriale promossa da Leonardo Facco. Dopo questa “prima ondata”, negli anni successivi si sono avvicinati al libertarismo altri validi studiosi, per la maggior parte giovani, come Alberto Mingardi, Carlo Stagnaro, Giorgio Bianco, Paolo Pamini, Fabio Lazzarin, Paolo Zanotto, Fabio Gallazzi, Novello Papafava, Massimiliano Neri, Carlo Zucchi, Alberto Masala, Mauro Tosco, Piero Vernaglione, Fabio Massimo Nicosia. Nel frattempo anche la Scuola Austriaca d’economia di Carl Menger, Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek, alla quale la maggior parte dei libertari si rifà sul piano scientifico, conosceva una grande riscoperta a livello accademico grazie agli studi di Dario Antiseri, Lorenzo Infantino, Raimondo Cubeddu, Enrico Colombatto. Una grande quantità di testi della biblioteca austriaca sono stati così resi disponibili al pubblico italiano dall’editore Rubbettino di Soveria Mannelli. Oggi i libertari sono spesso presenti con la loro firma su importanti quotidiani e riviste nazionali, mentre le numerose presenze nelle mailing-list e nei forum libertari su internet dimostrano che vi è una nuova generazione molto interessata a queste idee. L’attivissimo Istituto Bruno Leoni di Torino (www.brunoleoni.it) è solo l’ultima delle iniziative nate per diffondere le idee libertarie. Tutta questa vitalità solo dieci anni fa sarebbe stata considerata un sogno impensabile.
Il principale teorico del libertarianism è stato Murray N. Rothbard. In che cosa consiste la sintesi da lui operata è quale è stato il suo background ideologico?
Durante gli anni della guerra fredda l’Old Right, la vecchia Destra antirooseveltiana e antinterventista, si era sfaldata, e la Destra americana (dalla New Right di William Buckley ai neoconservatori) per paura della minaccia sovietica aveva finito per accettare la presenza di uno “Stato forte”. Il mortale pericolo comunista non sembrava porre altre alternative. All’interno della Destra gli unici a sfidare questa convinzione furono Murray N. Rothbard e pochi altri intellettuali, i quali negli anni Sessanta e Settanta diedero vita al movimento libertario. Rispetto ai conservatori i libertari erano decisamente più antistatalisti sul piano economico e fortemente isolazionisti nei rapporti internazionali. Grazie soprattutto all’elaborazione teorica di Murray N. Rothbard, la dottrina libertaria venne sviluppata in maniera sistematica, fondandosi sulla rigorosa difesa dei diritti naturali alla vita, alla libertà e alla proprietà degli individui; sulla celebrazione del libero mercato; e sulla radicale critica dello Stato. Venne così delineato un modello ideale di società libertaria, definito talora anarco-capitalista, che condannava ogni monopolio legale anche nei campi della sicurezza e della giustizia, e prevedeva al suo posto la libera concorrenza tra agenzie di protezione, arbitrali o assicurative. In definitiva, realizzando una sofisticata sintesi di realismo filosofico tomista, giusnaturalismo liberale alla Locke, anarchismo politico alla Tucker o alla Spooner e soggettivismo della Scuola Austriaca dell’economia, Rothbard rinnovò in una veste più coerente e radicale la lezione dei liberali classici dell’Ottocento.
Oggi, anche tu, non esiti a definirti “paleolibertario”. Secondo te, si tratta di una svolta necessaria per uscire dalla marginalizzazione e far breccia nella cultura mainstream, o, come molti lamentano, è solamente una involuzione verso la destra cattolica, conservatrice e financo reazionaria?
Negli Stati Uniti il “paleolibertarismo” nasce nei primi anni Novanta, quando Rothbard si decide a rompere definitivamente con il Partito Libertario, che aveva contribuito a fondare e per il quale aveva profuso notevoli energie, a causa della forte insofferenza che gli procurava l’atteggiamento “alternativo” e “controculturale” esibito da molti attivisti libertari. Il termine “paleolibertario”, o libertario all’antica, venne coniato da Lew Rockwell, il principale collaboratore di Rothbard negli ultimi anni della sua vita, per evidenziare la continuità con la Old Right di un tempo e per differenziare le proprie posizioni da quelle, giudicate decadenti, edoniste, relativiste e libertine dei left-libertarians (che in Italia potrebbero essere assimilati, per alcuni versi, ai radicali), in uno sforzo di combinare un radicale liberalismo nel campo politico ed economico con un altrettanto deciso tradizionalismo nel campo culturale. Rothbard si era infatti convinto che le libertà americane fossero germogliate non dal relativismo e dal nichilismo degli anni Sessanta, ma dai tradizionali valori giudaico-cristiani, considerati come dei veri e propri prerequisiti sociologici del libertarismo. Non direi quindi che il tradizionalismo culturale dei paleolibertari sia stato un espediente per far breccia nella cultura mainstream: forse si possono attrarre alcune parti del mondo cattolico e conservatore, ma la cultura dominante rimane largamente secolarizzata, relativista e materialista, per cui la battaglia risulta ancora più difficile. Però è assolutamente necessaria: come ha osservato Rothbard, questa guerra culturale ha un’importanza ben maggiore di quella per ridurre le tasse sui guadagni di borsa, perché da essa dipende l’anima e il futuro dell’America (e dell’Occidente).
La sfida che i paleolibertari si pongono – mi pare di capire – è sul terreno della cultura. E’ possibile, a tuo avviso, una seria collaborazione con il mondo cattolico senza cadere in compromessi dannosi per entrambi? Insomma, quali sono i punti in comune e quelli che ancora vi dividono?
È significativo che Rothbard, libertario ebreo e agnostico, pur senza convertirsi e senza cambiare nessuna delle sue idee politiche sia arrivato al termine del suo percorso intellettuale a considerarsi “un ardente sostenitore del Cristianesimo” e ad aderire ad una visione culturale in senso lato cattolica. Su gran parte delle questioni morali e culturali, soprattutto negli ultimi tempi, egli si trovava molto più vicino ai cattolici che a certe frange libertarie, ad esempio a proposito dell’eutanasia o della presenza dei segni religiosi negli spazi pubblici (anche sull’aborto attenuò la sua posizione pro-choice, pur non abbandonandola). Io credo che il Cattolicesimo possa rinforzare la teoria libertaria fornendogli un sostegno culturale e anche metafisico, dato che l’uomo è per natura un animale religioso che non rinuncerà mai alle domande ultime sul senso della vita. Da parte sua, il libertarismo di scuola austriaca può dare un contributo alla dottrina sociale della Chiesa, rendendola meno vaga e più cosciente del rapporto indissolubile tra libertà economica e dignità umana. Il sistema prasseologico misesiano, che parte da alcuni assiomi empirici autoevidenti e si sviluppa per deduzioni, è molto più compatibile dell’economia neoclassica o positivista con la forma mentis cattolica, presentando forti analogie metodologiche con il sistema della Scolastica di San Tommaso. Non è un caso che qualcuno ha definito il sistema di Rothbard come una “filosofia tomista senza teologia”.
L’erede intellettuale di Rothbard, Hans-Hermann Hoppe, viene spesso accusato dai left-libertarians di essere razzista e xenofobo; nonché nella sua rivalutazione dei sistemi politici tipici dell’ancien régime viene additato di atteggiamento antimoderno. Che ne pensi?
Hans-Hermann Hoppe ha sviluppato la teoria libertaria in un libro pieno di idee intelligenti e provocatorie, che possono risultare scandalose per l’opinione comune: Democracy: The God That Failed (in corso di traduzione in Italia da parte della Liberilibri di Macerata, a cura di Alberto Mingardi). Con un taglio revisionista, Hoppe rivaluta alcuni aspetti di moderazione delle monarchie tradizionali rispetto alle democrazie moderne, e indica nello statalismo welfarista il vero distruttore dei legami comunitari e dei valori tradizionali. Un altro aspetto delle tesi di Hoppe, decisamente irritante per il pensiero politicamente corretto, è il suo giudizio favorevole ad ogni forma di secessione che porti a decomposizione gli attuali Stati nazionali. L’utopia sarebbe quella di tornare ad un sistema pluralistico come quello medievale, del quale oggi rimane qualche traccia solo in quelle autentiche reliquie che sono il Principato di Monaco, Andorra, San Marino, il Liechtenstein, i cantoni svizzeri. Dalla moltiplicazioni dei governi deriverebbe una pressione concorrenziale tale da renderli meno esosi e più favorevoli alla libertà individuale, come nel modello “anarco-capitalista”. Invece di usare questa espressione, Hoppe preferisce però definire “ordine naturale” il tipo di società nella quale gli uomini tendono spontaneamente a convivere, quando per qualsiasi motivo è assente un potere politico centralizzatore: in questo modo egli si ricollega idealmente alla filosofia scolastica del Medioevo. Hoppe ha inoltre messo in chiaro che non vi è un collegamento necessario tra l’ideologia libertaria e la libertà d’immigrazione. Anzi, poiché un “ordine naturale” libertario si fonda sulla proprietà privata, l’immigrazione sarebbe possibile solo quando vi è il consenso dei proprietari riceventi (da qui l’assurdità delle accuse di razzismo).
Se non ho capito male la distanza tra taluni libertari (mi riferisco agli anarchici “paleo”) e i vari teorici del liberalismo (in particolar modo di quel liberalismo sceso a patti con la democrazia, così come la intendiamo oggi in Occidente) è più marcata di quanto si pensi: vi è quasi una rottura radicale. In tal senso, come si deve valutare la riscoperta dei pensatori controrivoluzionari ottocenteschi, dei quali anche tu ti stai occupando?
Sono giunto alla convinzione, leggendo le opere degli autori controrivoluzionari e soprattutto di Carl Ludwig von Haller, che la distanza tra il pensiero libertario e quello liberaldemocratico è forse più ampia di quanto si pensi. Infatti, mentre gli anarco-capitalisti ammirano il pluralismo competitivo medievale e concordano con il realismo della filosofia controrivoluzionaria, i liberaldemocratici sono gli eredi di quel “liberalismo” illuminista e rivoluzionario che, dopo aver contribuito a demolire i retaggi medievali e ad edificare il monopolio legislativo del Leviatano, si sono poi cullati nell’illusione che fosse possibile limitarne il potere mediante artifizi e congegni interni (lo “Stato di diritto”, il costituzionalismo, la divisione dei poteri, le elezioni, la generalità e astrattezza della legge e così via) rivelatisi poi in buona misura inefficaci. Al pari di un grande anarco-individualista come Lysander Spooner, il reazionario von Haller giudicava del tutto assurda l’idea di contratto sociale che tanto piace ai liberaldemocratici: in realtà nessuno l’ha mai firmato, per la semplice ragione che nessuno sarebbe mai così pazzo da firmare, a favore di un gruppo ristretto di uomini, una procura che contempli un “mandato non imperativo” a disporre della propria vita, libertà e proprietà. Le società non sono sorte in un colpo solo con un contratto sociale unico e uguale per tutti, ma gradualmente grazie ad una miriade di contratti tra persona e persona: così si è sviluppata l’Europa durante l’età feudale e comunale, fino ad assumere le fattezze che aveva nell’ancien régime, malgrado il nefasto processo di centralizzazione assolutistica iniziato in età moderna. Anche coloro che non accettano questa visione della storia non possono negare che, secondo ogni standard libertario, le società prerivoluzionarie fossero infinitamente meno statalizzate di quelle venute dopo.
Parafrasando Albert J. Nock, il nemico “classico” dei libertari è lo Stato: qui varie istanze molto diverse tra loro combattono una battaglia comune. E i Paleo, come te, oltre ai sempiterni Leviatani – a chi lanciano il guanto di sfida?
I paleolibertari riconoscono che, malgrado la sconfitta finale del comunismo, le società occidentali stiano vivendo un periodo di profonda crisi culturale, che si riflette nel trionfo del nichilismo, cioè nell’abbandono di ogni idea di Verità e di ogni prospettiva trascendente. In base alle filosofie scettiche e relativiste oggi imperanti (diffuse anche all’interno del mondo libertario) non esisterebbe alcun criterio per stabilire se una determinata idea o istituzione sociale sia migliore di un’altra. Di fatto, questa prospettiva finisce per celebrare ogni tipo di “diversità”, anche la più ripugnante, e per respingere come autoritaria, eurocentrica o razzista, la tradizione culturale e religiosa dell’Occidente cristiano: tutte le culture andrebbero protette e preservate (anche quelle degli antropofagi o dei tagliatori di teste…) salvo quella occidentale che merita di estinguersi per le sue supposte colpe passate. Gli intellettuali e gli opinionisti progressisti hanno iniziato da almeno vent’anni a prepararci psicologicamente alla nostra estinzione, convincendoci che la società multietnica e multiculturale rappresenta il nostro radioso futuro. Questo vero e proprio odio di sé che caratterizza l’attuale Occidente si manifesta anche nell’epocale crisi demografica che ha colpito i paesi occidentali negli ultimi decenni, rivelatrice del fatto che gli europei non hanno più alcun desiderio di futuro e di trasmettere ai discendenti la propria cultura. A ciò si aggiunga che l’espansione indiscriminata del welfare state (diritto al consumo per tutti: il tipico frutto della mentalità materialista, edonista e relativista dominante!) ha esautorato completamente le famiglie e i figli dalle tradizionali funzioni previdenziali e assistenziali, rendendoli inutili. Se le cose non cambiano il destino inevitabile è quello segnalato da Patrick Buchanan nel suo libro The Death of the West, le cui proiezioni statistiche nessuno finora ha contestato: l’estinzione demografica dell’Occidente entro la fine del XXI secolo, sommerso da popolazioni più vitali, credenti, motivate e con un’alta stima della propria cultura come quelle islamiche. Non mi pare che gli europei, nella loro intera storia (salvo forse durante la peste nera del Trecento), si siano ritrovati così vicini a fare i conti con la propria scomparsa. Sorprende soprattutto l’indifferenza, la rassegnazione e la stanchezza con cui si accetta di veder scomparire tutta la propria gloriosa eredità culturale e religiosa. Per rispondere quindi alla tua domanda, direi che i paleo lanciano la sfida al nichilismo, al relativismo e al pensiero “debole”, con l’obiettivo (per dirla con Hoppe) di “ridare vita all’Occidente”.
Un’ultima domanda: vorrei che pensassi ad un aforisma che condensi i tuoi più profondi convincimenti. Grazie.
“La libertà non è figlia, ma madre dell’ordine”. Sembrerà strano, ma è un aforisma coniato da quell’anarchico socialista famoso per aver definito la proprietà un furto (anche se successivamente cambiò completamente opinione): Pierre-Joseph Proudhon. Contro i pianificatori sociali d’ogni risma, che vogliono convincerci che solo grazie all’ordine da essi instaurato possiamo godere un po’ di libertà, i libertari oppongono il convincimento che l’ordine sociale nasca spontaneamente dalle libere interrelazioni tra gli uomini, e che ogni tentativo di imporre l’ordine dall’alto porta al caos, alla guerra di tutti contro tutti e alla distruzione delle istituzioni della società civile, come le famiglie e le comunità.
Intervista di Marco Massignan, 2011
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