DI REDAZIONE
Ogni tanto, si scopre che c’è un pizzico di buon senso tra i giudici e, alla faccia dei finanzieri, arriva la conferma che l’equazione tot miscela di caffè uguale tot tazzine di espresso, non può essere considerata un metodo valido per ricostruire il reddito di un ristorante. Lo ha decretato la Commissione tributaria provinciale di Genova che ha accolto il ricorso di un esercente di Cogoleto al quale l’Agenzia delle Entrate aveva contestato per l’anno 2010 un maggior reddito imponibile ai fini Irpef pari a 180 mila euro. Nel suo ricorso, il titolare del ristorante ha contestato, tra le altre cose, la procedura induttiva degli ispettori del fisco nonché la percentuale di scarto ascrivibile all’uso del caffè.
I giudici in sentenza hanno sottolineato che gli elementi evidenziati dall’ufficio a supporto della legittimità della metodologia adottata (e cioè l’antieconomicità dell’attività svolta, irregolarità nella compilazione dello studio di settore, valore dei beni strumentali) non “configurano un quadro presuntivo caratterizzato da gravità, precisione e concordanza”.
Circa i rilievi sulla mancanza di remunerazione del capitale investito e l’antieconomicità dell’attività “nel 2010 è iniziato quel diffuso perdurante disagio economico che ha investito un po’ tutti i settori e anche la ristorazione, particolarmente quella di fascia medio alta…..”
I giudici inoltre circa la metodologia adottata per la “ricostruzione del reddito accertato, vale a dire il numero di tazzine di caffè somministrato in ragione dei quantitativi di miscela di caffè acquistati, si osserva che trattasi di un empirico criterio valutativo scarsamente attendibile in quanto grossolano, approssimativo e condizionato da molteplici fattori variabili. Umani: i diversi operatori addetti alla macchina; ambientali: percentuale di umidità”.
Ma non basta, la Commissione tributaria provinciale evidenzia che “la stima dell’Agenzia circa il numero dei caffè abbinati ai pasti somministrati va corretta sia in ragione della quantità di prodotto impiegato per la preparazione dei dolci, che per effetto dei consumi “interni” da parte del personale dipendente”.
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E come la mettiamo con i costi sociali? Il contribuente ha dovuto pagare un commercialista per il ricorso (e sono proprio curioso di vedere se i giudici hanno condannato alle spese l’Agenzia delle Entrate). Il contribuente ha dovuto pagare lo stipendio al giudice tributario, perché giudicasse in materia di “caffè presunto”.
Quante liti simili si svolgono in tutta Italia? Magari finite con la sconfitta del malcapitato contribuente?
A me pare che quando c’è un po’ di cosiddetta giustizia sia solo per la volontà di una parte di stato a sottolineare la propria autonomia ed indipendenza verso un’altra parte, insomma un’esibizione muscolare di facciata per dimostrare che il sistema funziona.
Però mentre los gobiernativos procedono d’inerzia e fanno carriera a prescindere, tra le more di giudizio (spesso in vari gradi) il suddito ci rimette comunque sempre tempo, soldi e salute.