In Anti & Politica, Varie

BRAZILDI ROBERTO BOLZAN

Uno strano personaggio entra nella casa di Sam Lowry, impiegato del Ministero dell’informazione per riparargli illegalmente l’impianto di riscaldamento centralizzato. Non vuole essere pagato perché la sua è una missione, quella di libero professionista sovversivo, esercitata contro una società completamente burocratizzata e asservita al controllo totale di una casta di tecnocrati.
Tutto nasce quando una mosca morta produce un errore nella stampa di un nome: invece del sig Tuttle viene catturato, e subito condannato e giustiziato, il sig Buttle. L’affannoso scaricabarile con il quale gli uffici cercano di liberarsi della responsabilità dell’errore provoca una serie di reazioni a catena che sembrano mettere in difficoltà alcuni funzionari, con le conseguenze catastrofiche che ne derivano.
Quando infatti Sam (interpretato da uno smagliante Jonathan Pryce) va a visitare la vedova del signor Buttle viene a conoscenza di Jill, identica alla fanciulla che sogna.  La storia di Sam che cerca la ragazza e quella di Tuttle che opera per disgregare il sistema si intrecciano strettamente finché Sam non viene catturato e portato nella camera di tortura per essere interrogato. Tuttle interviene e da qui si dipana un sogno che termina con la follia di Sam. Di Tuttle (un irriconoscibile De Niro con i baffi) non si sa più nulla, forse è finito inghiottito da un turbine di scartoffie.
La trama di quest’ultima parte è proprio il sogno, avvitato in più volute dentro sé stesso, al punto che non si capisce mai se Sam sta sognando o è il sogno che sta prendendo il sopravvento, se è il sogno che diventa incubo o l’incubo che sogna il volo nelle nuvole e l’amore.
Quel che è del tutto escluso è però che il sistema sia messo in crisi. Non c’è fuga dal sistema se non quella illusoria del sogno e per un brevissimo poetico istante d’amore, dal quale veniamo subito richiamati alla tragica realtà.
Terry Gilliam, unico americano del gruppo dei Monty Python, gira il suo capolavoro visionario e onirico nel 1985, un anno dopo il fatidico 1984, ma sembra passato un secolo dall’anno in cui è collocata la distopia di Orwell: non c’è più bisogno, infatti, come nel 1948, di spiegare il mondo nuovo, tanto è chiara a tutti la potenza del dominio che si sta dispiegando sulla società. Il mondo nuovo non ha bisogno di essere imposto, è già dentro di noi, tanto che ci si possono permettere l’ironia ed il grottesco ed i tocchi personali e delicati dell’amore e del sogno.
La messa in scena è sensoriale al massimo, con una corposità che mai si è più vista al cinema. L’ambientazione gioca magistralmente a creare un cortocircuito tra un futurismo barocco e abiti classici e retrò anni ’60, in una miscela che ricorda Arancia meccanica ma con più disinvoltura e potenza. A fronte della visionarietà totale dell’immagine, i dialoghi sono serratissimi e privi di sbavature e tengono lo spettatore con i piedi per terra, libero di sognare. Terry Gillian, in questo film, possiede completamente l’arte e con estrema totale sicurezza sforna un film senza accettare compromessi sulle potenzialità visive e narrative del cinema.
Una scena con una scalinata, un aspirapolvere che sobbalza scendendo i gradini ed un occhialino infranto da un colpo di fucile, le fila di soldati che scendono con passo cadenzato sparando disciplinati, dichiara scopertamente a quale mondo Gillian alludesse. Quattro anni dopo cadeva il Muro. Trentun anni dopo ci troviamo a pensare ad allora come ad un periodo di libertà.
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Comments
  • Pedante

    Gillian. Gilliam!

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