Come è noto, sono in tanti a sostenere che ci sia un problema di insufficiente domanda aggregata, che andrebbe rilanciata con investimenti pubblici, secondo uno schema tipicamente keynesiano. Per esempio, ecco cosa ha scritto Daniele Manca sul Corriere della Sera:
“Ci sono alcuni numeri che impressionano. Gli investimenti totali (che comprendono quelli delle imprese, delle famiglie e quelli pubblici) sono scesi in Europa di 260 miliardi l’anno dal 2008 al 2015. Negli Stati Uniti, secondo un recente studio del Mc Kinsey Global institute, gli investimenti fissi netti sono scesi dal 12% del Pil nel 1950 all’8% del 2007. E a un magro 4% nel 2014. Mettere in fila le ragioni di questo declino è abbastanza semplice: si va dalla caduta dei prezzi dei beni alla politiche di bilancio restrittive, passando per una redistribuzione del reddito che ha prodotto maggiori diseguaglianze.”
Premesso che Manca allude a una caduta dei prezzi dei beni come se si trattasse di un crollo generalizzato, il che si scontra con la realtà dei fatti, le politiche monetarie non sono restrittive ovunque e la redistribuzione del reddito che ha prodotti maggiori disuguaglianze è da attribuire anche a quella che tanti considerano una cura ai mali dell’economia, ovvero la politica monetaria (ultra)espansiva.
Manca si guarda bene dal considerare negativi gli effetti redistributivi delle politiche monetarie. Aggiunge infatti:
“Ma, se questa è la tendenza, è evidente che siamo in presenza di un circolo vizioso. Circolo dal quale non sarà facile uscire. A lavorare contro questa pericolosa discesa degli investimenti, sottolineata la settimana scorsa da Mario Draghi, sono state negli ultimi anni le banche centrali. Ma è evidente che il mix di tassi bassi e liquidità sta facendo fatica a sostenere una crescita. Il vero problema in Europa e non solo. Torna a circolare la paura di una «stagnazione secolare». Il termine fu coniato dall’economista Alvin Hansen, gran divulgatore delle teorie keynesiane negli anni Trenta. Si tratta sostanzialmente di una situazione nella quale cittadini e imprese si trovano a dover o voler aumentare il risparmio e diminuire gli investimenti. Un allarme che Larry Summers, oggi economista e docente ad Harvard, ma ieri segretario del Tesoro con Bill Clinton, lanciò in un ormai celebre discorso alla consueta riunione dell’Fmi nel novembre del 2013.”
A Manca non sorge il dubbio che la discesa degli investimenti sia riferibile a “malinvestimenti”, ossia a investimenti posti in essere prima della crisi per via di tassi di interesse artificialmente bassi che si sono rivelati fallimentari una volta ridotto lo stimolo monetario. Diversi di quegli investimenti sono stati tenuti artificialmente in vita negli ultimi anni da politiche monetaria ancora più espansive di quelle dei primi anni Duemila, ma sono per lo più scarsamente produttivi, il che contribuisce a spiegare l’andamento non esaltante del Pil.
Il problema non è un eccesso di risparmio, bensì una carenza di risparmio reale, che le banche centrali stanno cercando di sostituire con l’espansione monetaria, ponendo le basi per una nuova crisi.
Ma se finora la cura monetaria non è stata risolutiva, cosa fare?
“Tutti vedono in una ripresa degli investimenti pubblici una possibile strada, o comunque lo stimolo necessario alla crescita e al ritorno della domanda. E qui qualche responsabilità l’Europa ce l’ha, per avere identificato il rigore con i generici tagli alla spesa. Quindi anche quella voce che, invece, andava chiamata con il suo vero nome: investimenti.”
A parte il fatto che non sono “tutti” a vedere negli investimenti pubblici la soluzione (ancorché questo pensino tutti i keynesiani), la scelta di tagliare una voce di spesa o un’altra è squisitamente politica. Nulla vieta a un governo di tagliare spesa corrente invece che quella per investimenti.
Ma attenzione: la definizione di investimento pubblico è almeno in qualche misura arbitraria. Come disse Murray Rothbard, “la spesa pubblica si qualifica come investimento solo in senso orwelliano; lo Stato in realtà spende per i beni di consumo e i desideri di burocrati, politici e delle loro clientele”. Anche scavare buchi per poi ricoprirli, tanto per restare in territorio keynesiano, potrebbe essere considerato un investimento che “crea” lavoro.
Come se ciò non bastasse, tutti questi tagli di spesa pubblica non si sono visti, men che meno in Italia. Giusto per chiamare le cose con il loro nome.
Ho ascoltato venerdì un’intervista ad un responsabile dell’imprenditoria privata della zona di Mirandola , vicino a Modena, dove ci fu un terremoto alcuni anni fa.
Ha riferito che l’attività produttiva è ritornata a valori superiori a quelli precedenti il sinistro.
E confermava che questo solo ed esclusivamente grazie a investimenti e impegni dei privati imprenditori, in prima persona.
Raccontava che l’intervento pubblico non c’è stato.
Di alcun genere, tanto vero che tutte le proprietà pubbliche, addirittura anche le chiese, languono in attesa di opere di sistemazione e ripristino.
Non qualcuna, ma tutte.
Barisoni, mi pare fosse durante la sua trasmissione, non ha saputo commentare con intelligenza.
Specie pensando che è alle dipendenze di quel carrozzone di confindustria che , in teoria, dovrebbe tutelare e valorizzare le imprese private.
Si è limitato a lamentare questa assenza del sistema pubblico.
Non ci siamo, davvero non ci siamo.
Manca è sulla medesima linea d’onda.
Entrambi non capiscono che solo l’interesse privato, libero dai veleni e purghe pubbliche , può risanare un mondo ormai da fondato sul a sfondato dal debito.