Al netto del significato “romantico” di un premier che chiama il suo popolo ad esprimersi a proposito del futuro del paese, non capisco proprio il significato razionale del referendum in Grecia. Non sto dicendo che sia un errore lasciare che gli elettori possano esprimersi su questioni di fondamentale importanza, come quella che riguarda il quesito referendario posto dal governo di Atene. Ma esistono quantomeno molte contraddizioni sull’operato del governo e, quindi, di conseguenza, anche sulla soluzione referendaria proposta, che soluzione non è. Questo è tanto più vero che se si considera che Syriza ha vinto le elezioni proprio grazie alla promessa di attenuare l’austerità. Va da sé che, sotto questo punto di vista, Tsipras gode già di un mandato popolare conferitogli dagli elettori lo scorso gennaio.
Quindi, perché un referendum? Cosa si vuole dimostrare? Cosa si vuole affermare? Forse il primato della democrazia sulla finanza? Puramente illusorio, allo stato attuale e in questo contesto. E poi, se così fosse, verrebbe da chiedersi: con i soldi di chi? Il deteriorarsi delle aspettative nella trattativa tra la Grecia e i suoi creditori è frutto dell’asimmetria esistente tra il programma politico con il quale Syriza ha vinto le elezioni in Grecia e le logiche che governano l’Eurozona. Logiche che in alcun modo possono coesistere con le promesse che Tsipras ha fatto in campagna elettorale.
A seguito della vittoria di Tsipras è iniziata un’estenuante trattativa che dura ormai da 5 lunghi mesi e che, secondo la mia modesta opinione, appare a dir poco priva di logica e strategia. Nel frattempo la situazione economica in Grecia si è deteriorata ulteriormente: i gettiti tributari si sono manifestati ben inferiori a quelli programmati dal governo, i soldi in cassa sono finiti o quasi, i risparmiatori hanno ritirato decine di miliardi di euro dalle fragili banche (fino a questo momento tenute in vita dalla BCE) e si è disposta la chiusura degli sportelli per una settimana (ma la riapertura potrebbe essere ulteriormente differita) con l’introduzione di misure di controllo dei capitali, ed è aumentato notevolmente anche il disagio del popolo greco.
La storia recente dice che, ad un certo punto, avendo promesso la fine dell’austerità (ma anche la permanenza nell’euro), Tsipras chiama a raccolta il suo popolo e dice: “Cari concittadini greci, è vero che, durante la campagna elettorale, era stata promessa la fine dell’austerità e, al tempo stesso, la permanenza della Grecia nell’euro, ma avevamo fatto i conti senza l’oste. Quindi, non posso fare altro che alzare le mani e fare decidere a voi stessi cosa dovrà esserne del vostro futuro, ringraziandovi di avermi votato alle scorse elezioni”. Quindi indice il referendum per il prossimo 5 luglio, invitando gli elettori greci ad esprimersi se vogliono accettare il piano proposto dai creditori (quindi ancora austerità) oppure rigettarlo.
Ora, tenuto conto che la grandissima parte degli elettori potrebbero non avere la giusta cognizione di causa su cosa potrebbe comportare un espressione di voto piuttosto che un’altra (cosa che, come ben sapete, accade anche in Italia), fare un referendum di questa importanza, in 5 giorni, è un po’ come voler dire: caro bambino, preferisci il gelato o lo sciroppo medico. E’ ovvio che il bambino risponda Il gelato. Quindi, abbandonando la metafora, è probabile che vincano i “NO” e che vengano rigettate le proposte della Troika.
Ma se ciò non dovesse accadere, ossia nel caso in cui dovessero vincere i “SI”, cosa accadrebbe? In questo caso si aprirebbe uno scenario per nulla rassicurante, perché, come affermato dallo stesso Tsipras, il governo potrebbe dimettersi e quindi si potrebbe andare a nuove elezioni con tutte le incognite del caso, qualora la votazione dovesse restituire una maggioranza che non è detto sia sulla stessa posizione determinata dai risultati del referendum del prossimo 5 luglio. Insomma, caos su caos.
Nel frattempo, con chi dovrebbero trattare le autorità europee se il governo dovesse dimettersi? La questione è aggravata anche dal fatto che il prossimo 20 luglio Atene dovrà rimborsare alla BCE circa 3,5 miliardi di euro. E mancare il rimborso alla BCE non ha lo stesso significato del mancato rimborso verso il Fondo Monetario Internazionale di appena due giorni fa, visto il potere di vita o di morte che la BCE esercita sulle banche greche. Insomma, nel caso dovessero vincere i “SI”, nella migliore delle ipotesi, si avrebbero comunque non pochi problemi. Che sono tuttavia imparagonabili rispetto a quelli che si avrebbero se il fronte del “NO” avesse la meglio.
Se Tsipras afferma che votare NO al referendum non significa votare contro l’euro, dovrebbe spiegare con quali strategie intende rimanere all’interno dell’Eurozona. Ovvero dovrebbe spiegare in che modo intende onorare il debito scaduto due giorni fa e le rate che verranno a scadere nelle prossime settimane, che sono ben più impegnative rispetto a ciò che non è stato rimborsato al Fondo Monetario Internazionale appena due giorni fa. Dovrebbe anche spiegare in che modo vorrebbe salvare il sistema bancario che è praticamente al collasso, e soprattutto dovrebbe dire al popolo greco con i soldi di chi, vista la non remota possibilità che questo avvenga per tramite i risparmiatori greci (bail-in).
Tsipras pensa che, se dovessero vincere i NO, il governo greco guadagnerebbe forza contrattuale da spendere con la Troika che, a quel punto, secondo questa logica, assumerebbe un atteggiamento più tollerante e sarebbe meno ostile verso nuove concessioni.
Ma attenzione: il punto è proprio questo ed è assai pericoloso, non meno dell’uscita di Atene dalla zona euro.
In questi anni di crisi si è visto che, in molti paesi, il processo democratico è stato fortemente alterato, solo per usare un eufemismo. E la vita politica di ciascun paese, se vogliamo, ha subito delle manifeste prevaricazioni ad opera di istituzioni europee che, in nome della salvezza dell’euro da se stesso, ha imposto a buona parte del continente manovre di austerità, solo da alcuni mesi parzialmente compensate dall’interventismo della Bce.
In altre parole, l’austerità è stata imposta per ridurre gli squilibri strutturali tra i vari paesi ed ha consentito alla BCE di assumere un atteggiamento più interventista rispetto a quello avuto fino all’arrivo di Mario Draghi alla presidenza della banca centrale.
Ora, ritornando al caos greco, se dovessero vincere i NO, dal mio punto di vista, sarebbe assai illusorio pensare che la Troika possa prendere atto della volontà del popolo greco (contrario all’austerità) e riformare il sistema di governo che ha adottato fino a questo momento. Perché, altrimenti, ciò significherebbe aprire uno squarcio profondo proprio nella credibilità delle istituzioni eruopee (ammesso che ne abbiano), confinandole in una posizione di debolezza nei confronti di quelle espressioni di volontà popolare, troppo spesso e con troppa facilità etichettate come “populiste”. Oggi, secondo questa logica, alla luce di una possibile vittoria dei “NO”, le istituzioni europee dovrebbero assumere un atteggiamento più clemente e quindi fare delle concessioni alla Grecia. Ma ciò non esclude il fatto che domani potrebbe essere la volta del Portogallo, della Spagna o dell’Italia. Ecco quindi che si verificherebbe un precedente che, in proiezione futura, potrebbe essere fortemente destabilizzante.
L’alternativa è quella dell’uscita di Atene dalla moneta unica.
L’uscita della Grecia dall’euro creerebbe un precedente che abbatterebbe il dogma dell’irreversibilità dell’euro. L’integrazione europea, di fatto, diverrebbe reversibile. Ciò significa che agli altri membri della zona potrebbero essere tentati di abbandonare la moneta unica: non necessariamente nell’immediato ma, eventualmente, in occasione di qualche prossima crisi.
Gli investitori non europei, alla luce della reversibilità della moneta unica, assumerebbero un atteggiamento molto più cauto e quindi sarebbero meno disposti ad investire in un determinato paese che potrebbe abbandonare la moneta unica determinando la svalutazione dell’investimento.
C’è poi il rischio di contagio, con la possibilità di vedere aumentare il premio di rischio per i paesi considerati a rischio. Naturalmente, la BCE, oggi, dispone di un discreto arsenale per contrastare il rischio contagio, ma credo che lo shock sarebbe comunque inevitabile e non è affatto detto che la banca centrale riesca ad evitarlo.
Ma, in ogni caso, il danno più grande che determinerebbe l’eventuale uscita della Grecia dall’euro è quello derivante dall’arrestarsi della speranza di una maggiore integrazione della zona euro finalizzata a rendere ottimale quest’area valutaria in modo da poter compensare al proprio interno gli effetti prodotti da shock economici. Integrazione che, più volte, anche di recente, lo stesso Mario Draghi ha ribadito essere di fondamentale importanza per rendere l’euro effettivamente irreversibile.
Al netto delle responsabilità che, secondo la mia modesta opinione, stanno da entrambe le parti, la vicenda greca si sta concludendo nel peggior modo possibile. Tutta la sua gestione, da 5 anni a questa parte e, ancor prima, con l’entrata nell’euro del paese ellenico, è stata un susseguirsi di errori clamorosi commessi soprattutto dalla nomenclatura politica europea. Come che sia, sotto questo punto di vista, tenuto conto che la Grecia esprime appena il 2% del Pil dell’intera Eurozona, la bilancia delle responsabilità pende principalmente da parte tedesca per la manifesta incapacità di gestire un focolaio di crisi che nel frattempo si è trasformato in un vero e proprio incendio di grandi proporzioni. E questo, per coloro che invocano che occorrerebbe più Europa, che occorrerebbe un’Europa unita e che ritengono che la Germania debba e possa assumere un ruolo di leadership nella convergenza degli Stati europei verso quell’integrazione che, come dicevamo, lo stesso Draghi ritiene essere di fondamentale importanza per la sopravvivenza della moneta unica, dovrebbe indurre alla conclusione che questa unione monetaria è oggettivamente non riformabile per manifeste incapacità e carenti volontà politiche.
Non ci verrà lasciato neanche il teatro. Essendo del settore ne parlavo commemorando il mio amico Silvio Spaccesi, scomparso lo scorso due giugno. Alcuni dei presenti hanno cominciato a rumoreggiare quando ho parlato male di chi a suo tempo occupò il Teatro Valle a Roma. Per i rumoreggiatori l’importante non è l’euro, il non euro, la Grecia o altro. No: l’essenziale è che ci siano le sovvenzioni pubbliche, causa prima della morte del teatro e della cultura in generale. E molti di loro non sarebbero in grade di recitare l’antico teatro greco, molti di loro non sono in grado di recitare qualsiasi cosa. Però pretendono le sovvenzioni. E che siano i forzati contribuenti a pagarle. Altro che olimpiadi causa del fallimento greco, una goccia del mare nell’unico falso in bilancio che dovrebbe essere sanzionato: quello degli stati.
L’euro, la Grecia, e tutto il resto, finirà come qualcuno ha già deciso che debba finire. A noi viene lasciato il teatro, e gli schiamazzi del loggione non contano nulla.
Parlando di teatro e apprezzando il suo cinismo, ecco un’altra farsa:
https://www.youtube.com/watch?v=68we3aP_UNE
scusa maaaaaa……..l’austria sta facendo lo stesso referendum………..!!!!!??????
NO, sta raccogliendo le firme
I problemi della Grecia (indipendentemente dal risultato del referendum popolare pro o contro l’UE), del medio Oriente e dell’Oriente, l’antieuropeismo ed il terrorismo, hanno una causa comune, dato che a dirigere l’Europa avrebbe dovuto essere lo spirito dell’antico popolo greco che fu guida del paleocristianesimo, e non lo spirito giuridico romano che di fatto ha ridotto questa nazione ad essere ancora colonia tedesca o romana o americana.
Nel concetto di Stato paleocristiano dei greci, lo Stato era pensato dotato di tutta la concretezza fatta di umana individualità già riconoscibile a partire dalla scritta “Conosci te stesso” che campeggiava sulle colonne dell’oracolo di Delfi, quasi come un plurisecolare presentimento dell’“Io sono”, o “Figlio dell’uomo”, detto Cristo, che veniva ad incarnarsi nell’essere umano.
Quello della “grecità” non era dunque, non è, e mai sarà, uno Stato della burocrazia. Perché con l’“io” veniente, era necessariamente sempre più conosciuta anche la possibilità di convivialità fra tanti “io”, poggiante sul nascente senso democratico, sviluppantesi secondo “equità”, o “epicheia”, vale a dire secondo il diritto-dovere di disubbidire a leggi ritenute non eque o ingiuste, esattamente come aveva fatto Socrate, che preferì bere la cicuta piuttosto che conformarsi alla legislazione del suo tempo che riteneva retrograda. Così dovremmo pensarla anche noi se ci reputiamo cristiani, cioè umani nel più alto senso della parola, dato che il Cristo è crocifisso in base all’accusa di istigazione “a non pagare i tributi a Cesare” (Luca 23,2).
Per pensarla a questo modo dovremmo però avere il coraggio di chiederci: siamo veramente noi lo Stato in cui il sabato è per l’uomo e non l’uomo per il sabato? Il cosiddetto collettivo democratico consiste veramente in una “crazia” del “demo” in cui pur agendo come “io”, adempiamo alla sua missione con tutte le caratteristiche della personalità capace di evolversi in individualità cristiana (individualismo etico)? Se le istituzioni ci schiacciano non possiamo che rispondere di no. E cioè: lo Stato NON siamo noi. Perché un io sano e non alienato né esaltato dal potere NON può accettare come cosa buona e giusta il suo monopolio della coercizione, che già produsse tanti fallimenti, non ultimo il fallimento del terzo Reich e di quest’Europa totalitaria… Occorre dunque un modo nuovo di pensare lo Stato.
Agli inizi del 1900, questo modo nuovo era ancora in germe, ma l’operazione romana (cattolica) contro il cosiddetto modernismo – e dunque contro ogni anelito spirituale in grado di essere pervaso dal concetto del Cristo – non fece che comprimere ed oscurare le coscienze nel loro anelito cristico di ricerca.
È così che siamo arrivati all’attuale disastro in cui l’umanità del futuro non può più accettare il “civis romanus”, in quanto il diritto romano è fondato sulla violenza, vale a dire sul fratricidio (Romolo e Remo) e sulla rapina o sul sequestro (ratto delle Sabine). Il carattere dei popoli medio-orientali ed orientali, non solo fu educato, ma fu nutrito e allevato nella spina dorsale della grecità, che più tardi, a causa dell’imperialismo romano, del “civis” e del cattolicesimo romano (tra l’altro contraddizione in termini in quanto cattolico significa universale) degenerò al punto che perfino il senso della morte di Socrate e quello della crocifissione di Cristo, furono stravolti: il morire per l’umanità diventò il morire dell’umanità per opera di “santi” del tempo dei “Crociati” come Bernardo, o come gli odierni kamikaze del terrore, mossi dalla medesima anticristianità o dal medesimo paradosso di un “idealismo materialistico”. A me risulta che il terrorismo ha dunque le sue radici in questa degenerazione. Anche perché la tavola rotonda dei cavalieri del Graal fu in pratica trasformata in potere piramidale. È in fondo la faraonica piramide che Roma, a differenza di Mosé, non volle mai lasciare.