«Abbiamo spazio per una sola lingua in questo Paese e questa lingua è l’inglese, intendiamo vedere il crogiuolo affinché esso renda le persone americane, di nazionalità americana e non degli abitanti di una pensione poliglotta».1 (Theodore Roosevelt)
Ci sono 6909 lingue vive nel mondo d’oggi. 74 sono indigene nella sola California, ad esempio le lingue come Hupa, Kawaiisu, e Shoshone; mentre in Papua Nuova Guinea ve ne sono più di 800, con una media di soli 1200 parlanti per lingua. Per quanto sorprendenti queste cifre sembrino essere, queste oscurano una cruda realtà: potenzialmente la metà di queste lingue sono destinate a scomparire nel prossimo secolo.
Non mi credete? Si consideri che in Nord America su 296 lingue conosciute al momento del primo contatto con gli europei solo 33 passarono attivamente alla generazione successiva. Le rimanenti si estingueranno alla morte dei loro ultimi parlanti (se ciò non è già avvenuto), probabilmente durante questo secolo.2 Molte persone non vedono alcun problema in questo….
La globalizzazione come la viviamo ora è del tutto artificiale, imposta dall’alto e destinata al fallimento.
Fino a non molto tempo fa i poveri cercavano di insegnare ai figli la lingua nazionale, con l’aiuto della scuola pubblica, per emanciparli da un orizzonte angusto di deprivazione culturale e di indigenza economica. Ora sono i ricchi a riscoprire i dialetti per sfoggiarne la competenza accanto alla dimestichezza con la lingua ufficiale e la conoscenza di una o più lingue straniere, in primis l’inglese. E’ come, in campo alimentare, con il pane integrale e lo stracchino di Gorgonzola: un tempo cibi a buon mercato delle classi meno abbienti, oggi raffinatezze alimentari anche nel prezzo. Così va il mondo. Lo Stato nella distruzione delle lingue locali ci ha messo del suo, e talora in modo piuttosto pesante; ma la scomparsa degli idiomi vernacolari e delle lingue minoritarie era nell’ordine delle cose. Piaccia o non piaccia, in un mondo globalizzato è più utile conoscere l’inglese che il bergamasco.
più in generale la pianificazione sociale reprime e uccide ogni forma di ordine naturale con le istituzioni relative, compresa la lingua.
l’armonia e l’ordine generati dai meccanismi impersonali del libero scambio, vengono continuamente infastiditi e disturbati dalla interferenza della pianificazione, che ne fiacca l’efficacia con massicce campagne promozionali di welfare, che tendono a rompere i vincoli morali dei comportamenti basati su regole semplici di tipo negativo, per instaurare rapporti indiretti con un soggetto terzo in grado di remunerare i loro nuovi comportamenti usciti dal loro alveo naturale, non più dalla certezza di ricevere in cambio delle proprie azioni le stesse attenzioni, la sicurezza e la prevedibilità di quelle altrui, ma da titoli e benefici con i quali evitare le difficolta soggettive connesse col doversi procacciare il proprio sostentamento e la propria felicità.
in una parola lo stato che pianifica corrompe e invita i suoi discepoli ad un massiccio congame di cui lui ne è solo il giocatore più importante, rappresenta semplicemente una larga e comoda autostrada per l’inferno in cui i vari giocatori si avviano nella ricerca non già della propria felicità ma della propria goduria.
+1.
Al Politecnico di Milano, e credo sia un’onda che investirà tutti gli atenei italiani, da quest’anno lezioni al primo anno della triennale e al primo della specialistica sono in inglese, con test in inglese, esami in inglese. Non mi dispiace di doverlo fare come professore, il materiale che avevo e che ho è quasi tutto in lingua inglese. Ciò nonostante non nascondo che insegnare (noi professori) e apprendere (gli studenti) in una lingua differente da quella madre, implica difficoltà, rischi e problemi veri non del tutto trascurabili per il processo di formazione. Rischi e impatti che temo non siano stati considerati approfonditamente e nei cui riguardi, a parte la conoscenza dell’inglese richiesto, non sono ad oggi stati pensati strumenti di mitigazione del rischio o azioni preventive apposite.