“E’ importante sottolineare che la separazione tra politica monetaria centralizzata e fiscalità delegata ai singoli partner dell’Unione crea differenziali non trascurabili sui livelli di competitività, a causa dell’incidenza della pressione fiscale sia diretta che indiretta sulle imprese e sulle famiglie, con l’effetto di ridurne i consumi e aumentare la deflazione; ma, soprattutto, inficiando il principio di libera concorrenza che è alla base della costruzione europea.” (G. Di Taranto)
Giuseppe Di Taranto insegna alla LUISS ed è un convinto sostenitore dell’utilizzo delle politiche monetarie e fiscali per governare l’economia. Uno dei tanti keynesiani con cattedra che insegnano nelle università italiane (e non solo). In vista del semestre italiano di presidenza europea, Di Taranto avanza alcune proposte che, a suo parere, il governo dovrebbe fare ai partner. In buona sostanza, bisognerebbe modificare i Trattati per introdurre la mutualizzazione dei debiti pubblici dei diversi Stati, eliminando il Fiscal compact; bisognerebbe anche riscrivere il Patto di stabilità e crescita per escludere dal calcolo del deficit i cosiddetti investimenti produttivi; infine, sarebbe necessario modificare lo statuto della Bce per consentirle (obbligarla?) di diventare prestatore di ultima istanza, sottoscrivendo titoli di Stato direttamente in asta.
In buona sostanza, si tratterebbe di stravolgere l’assetto attuale dell’Ue, ovviamente per favorire la crescita, l’occupazione e sconfiggere la deflazione. Il mantra che, con poche e non significative varianti, ripete ogni keynesiano tutti i giorni dell’anno. Secondo Di Taranto la separazione tra politica monetaria unica e politiche fiscali demandate ai singoli Stati “crea differenziali non trascurabili sui livelli di competitività, a causa dell’incidenza della pressione fiscale sia diretta che indiretta sulle imprese e sulle famiglie”. Che la politica monetaria unica rendesse necessari aggiustamenti strutturali e fiscali diversi negli Stati aderenti all’euro per raggiungere livelli di competitività non dissimili lo si sapeva fin dall’inizio. Che l’azione di politica fiscale in Italia si sia concentrata sulla generazione di saldi primari positivi solo nei periodo in cui lo spread tra BTP e Bund era elevato (seconda metà degli anni Novanta e dal 2011 in poi) e che la generazione di tali saldi primari fosse sbilanciata sul lato dell’aumento delle entrate senza mai ridurre la spesa pubblica (corrente o per investimenti che fosse, distinzione molto cara ai keynesiani per giustificare il deficit spending) non erano scelte obbligate.
Lamentarsi oggi dell’incidenza della pressione fiscale chiedendo in buona sostanza che siano altri a farsi carico dei debiti generati dalla politica italiana è una proposta a mio parere puerile, oltre a non avere alcuna probabilità di essere accolta da coloro che dovrebbero (contribuire a) pagare il conto. Trovo anche ridicolo che si individui nella mancata unificazione delle politiche fiscali un limite al principio di libera concorrenza. Non è uniformando che si ottiene concorrenza. E’ vero che le imprese italiane sono penalizzate da un fisco oppressivo e da una burocrazia sempre più ottusa e invadente, ma non è chiedendo agli altri europei di farsi carico di questi problemi che li si risolvono. Al contrario, sarebbe ora di tagliare seriamente la spesa e ridurre la burocrazia.
Il che è, però, assolutamente incompatibile con il mantenimento degli attuali livelli di occupazione nelle strutture delle diverse articolazioni dello Stato. Solo così la pressione fiscale può diminuire. Non certo facendo gli accattoni e chiedendo (anche) ad altri di pagare per mantenere più o meno inalterato il carrozzone statale.
Beh, in buona misura è il trasferimento in EU della politica economica italiana degli ultimi 70 anni. Che ci si aspettava dal Di Taranto ?
è davvero un dolore che anche alla luiss girino tipi del genere.