“In via ipotetica, il ritorno dello spread ai 200 punti base, livello che la Banca d’Italia ha più volte definito come coerente con i fondamentali della nostra economia, consentirebbe di risparmiare dagli 8 ai 10 miliardi nel 2013-2014, 3-4 miliardi già quest’anno, per raggiungere i 2527 miliardi nel quadriennio 20132016… Il risparmio si dimezzerebbe nel caso in cui il livello dello spread si attestasse attorno ai valori attuali, e si annullerebbe qualora il differenziale tornasse a salire ben oltre i 300 punti base.” (D. Pesole)
Nella settimana centrale di agosto, a fronte di un calo dello spread tra i rendimenti dei titoli decennali di Italia e Germania fino a 230 punti base, i mezzi di informazione spargevano ottimismo e Letta non ha mancato di attribuire il merito al suo governo (cosa che, peraltro, avrebbe fatto chiunque al posto suo). Qualcuno imprudentemente ha perfino parlato in quei giorni di “minimi storici”, essendo in realtà i minimi dall’estate del 2011.
Ora, monitorare l’andamento dello spread tra BTP e Bund è certamente utile per avere un’idea di come il mercato quantifichi il maggior rischio del debitore Italia in relazione alla Germania, ma se si ragiona di spesa per interessi ed effetti sul deficit del bilancio dello Stato è bene considerare il costo effettivo a cui si finanzia il Tesoro, non il maggior costo rispetto alla Germania.
Non entro nel merito delle stime sul valore “coerente con i fondamentali della nostra economia” dello spread, perché si tratta di numeri che escono da modelli econometrici sui cui risultati influiscono alcune assunzioni arbitrarie e, soprattutto, perché l’unica misura oggettiva del valore di scambio di un qualsiasi bene è quello che si forma su un mercato, meglio se animato da una moltitudine di operatori e privo di distorsioni introdotte da norme e regolamenti.
Sta di fatto che uno spread a 200 punti base può essere il risultato di un rendimento del BTP al 6% e di un Bund al 4%, mentre uno spread a 300 punti base può risultare dalla differenza tra un BTP che rende il 4.5% e un Bund che rende l’1.5%. Questo per fare solo un paio di esempi. Se l’aritmetica non è cambiata senza che me ne accorgessi, per l’Italia (soprattutto, per chi paga le tasse) è meglio un costo per interessi al 4.5% che al 6%, a prescindere dallo spread.
E’ pur vero che una riduzione non temporanea dello spread tra i rendimenti dei titoli di Stato dovrebbe comportare una riduzione anche del maggior costo dei finanziamenti per gli emittenti privati italiani rispetto a quelli tedeschi, con ciò riducendo il gap di competitività. Ed è altrettanto vero che se una riduzione dello spread fosse attribuibile a un aumento del Pil italiano il maggior costo del debito potrebbe essere (più che) compensato dall’incremento delle entrate tributarie.
Ciò non toglie, tuttavia, che quando si fanno i conti sulla spesa per interessi quello che conta è il costo effettivo del debito, non la differenza rispetto al costo di altri Stati. Bene dunque guardare allo spread, ma meglio evitare di credere (o far credere) che il suo calo comporti sempre e comunque un risparmio nella spesa per interessi. Non è detto che sia così.