DI ALDO MARIA VALLI
Dopo che Janine Small, responsabile dei mercati internazionali di Pfizer, davanti agli eurodeputati ha detto chiaramente che la casa farmaceutica non ha mai testato la capacità del vaccino di bloccare il contagio, molti amici mi scrivono euforici: “Evviva! Il castello di menzogne è caduto! L’intera narrazione che colpevolizza il non vaccinato è sbugiardata! L’utilità del green pass è fatta a pezzi!”.
Purtroppo non condivido questa euforia. Il motivo? È semplice e lo sperimento ogni giorno. Trovandomi a confronto con una persona che a proposito di Covid, lockdown, mascherine, distanziamento e vaccinazioni ha sempre sostenuto la narrativa ufficiale, anche se la metto di fronte a queste ultime rivelazioni – che confermano quanto io ho sempre sostenuto – non ho da parte di quella persona l’ammissione di essersi sbagliata e di essere caduta in un tranello. Le reazioni prevalenti sono: o il silenzio, o un generico “non è così”, oppure l’obiezione che “comunque i vaccini sono serviti” e “serviranno ancora, quando il virus tornerà”. Nessuno dice: “Mi sono sbagliato, avevi ragione tu”.
Io posso far ricorso a tutte le argomentazioni razionali possibili, ma nei confronti di coloro che hanno sempre creduto nella narrazione dominante non ci sono argomentazioni razionali che tengano. Perché? Perché i motivi per cui si sono rifugiati nella narrazione ufficiale non sono razionali.
Fin dall’inizio della “pandemia” è stato evidente che le statistiche circa la mortalità sopravvalutavano la pericolosità del virus (letale quasi esclusivamente per gli anziani e per chi aveva altre patologie), che i protocolli medici adottati (ricovero, tachipirina e vigile attesa) erano sbagliati e che le misure adottate per il contenimento, del tutto sproporzionate e liberticide, avrebbero causato molti più danni del virus stesso. Era anche evidente che il virus non aveva nessuna intenzione di sterminarci, semplicemente perché nessun virus vuole eliminare gli organismi da cui trae la vita. Poi si è arrivati al green pass e di nuovo, per alcuni, è stata evidente la mostruosità di un tale provvedimento. Tuttavia, molti non hanno voluto vedere. E continua a essere così. Chi non ha voluto vedere continua anche ora a non vedere, e non solo di fronte alle ammissioni delle case farmaceutiche, ma anche di fronte ai dati sugli effetti avversi dei cosiddetti vaccini.
Questo comportamento ha un’origine psicologica spiega Mattia Desmet nel suo Psicologia del totalitarismo. E, come ogni fenomeno di massa su larga scala, nasce da quattro condizioni necessarie. La prima: occorre che ci siano molte persone socialmente isolate, prive di autentici rapporti sociali. La seconda: devono esserci molte persone che non riescono a trovare un significato nella vita. La terza: la presenza di un diffuso stato di ansia. La quarta: un alto tasso di malcontento psicologico.
Anche nel caso in cui incontrino altre persone, tutti questi soggetti sono sostanzialmente separati dalla realtà, e il fenomeno è trasversale. Non è questione di intelligenza, di livello di studio o di status sociale. L’intossicazione mentale può colpire tutti.
Il problema è che prima o poi questa condizione di disagio viene utilizzata da una élite che prende il comando della massa per creare un nuovo tipo di Stato. Eccoci così in un sistema totalitario, che è cosa diversa dalla dittatura classica.
In una dittatura classica abbiamo una popolazione in preda al terrore nei confronti di un piccolo gruppo o di un singolo dittatore a causa del potenziale di aggressività di coloro che esercitano il potere. Le persone però non hanno perduto l’autonomia di giudizio e il senso critico. Anzi, semmai l’hanno acuito. In un sistema totalitario invece la popolazione, a causa delle sue condizioni di disagio psicologico, cade facilmente nella morsa di una certa narrazione frutto di una visione ideologica nella quale è spinta a credere fanaticamente e ciecamente. In uno Stato totalitario, quindi, il controllo sulla vita delle persone è molto più forte perché sono le persone stesse che corrono a uniformarsi.
Se nella dittatura classica la forza è nel dittatore, nello Stato totalitario è nella massa, ovvero in quella cospicua parte della popolazione che crede fermamente nell’ideologia di Stato e nella narrazione che la sostiene.
Durante la “pandemia” lo abbiamo visto bene. In tutte le famiglie abbiamo trovato alcune persone che hanno creduto ciecamente alla narrazione ufficiale, formando un compatto corpo sociale che è arrivato a prendere le forme di corpo di polizia.
Ma perché? Secondo Desmet il terreno era stato preparato da tempo. La narrazione ha approfittato di uno stato d’ansia che già era presente negli individui isolati, negli uomini-massa già privati di senso della realtà, di autentici rapporti sociali e di spirito critico, e ha usato questa situazione per rafforzare la presa totalitaria. La narrazione ufficiale ha potuto approfittare della “pandemia” perché ha utilizzato uno stato mentale presente da prima.
Se nella massa, tramite i media, si diffonde una narrazione che individua un oggetto dell’ansia e fornisce una strategia, succede qualcosa di tipico: tutta l’ansia che prima non aveva un oggetto specifico su cui concentrarsi viene connessa a un oggetto preciso (per esempio il virus) e genera la volontà di diventare parte della strategia necessaria per combatterlo. È così che gli individui sono spinti a scendere in battaglia, tutti insieme, contro il motivo dell’ansia. Ed è così che la frustrazione viene incanalata non solo contro il motivo dell’ansia ma anche contro coloro (per esempio quelli non disposti a vaccinarsi) che non hanno intenzione di prendere parte alla grande strategia.
Dato che alla guerra sono chiamati tanti individui, ecco che si crea un legame sociale. E così gli individui che prima si sentivano isolati ora avvertono un legame, una connessione, il che rafforza ulteriormente la narrazione. Nasce una nuova cittadinanza.
Occorre ripetere che all’interno di questo meccanismo non importa quanto la narrazione sia fondata razionalmente. Non importa neppure quanto sia fondata razionalmente la contro-narrazione. Tutto ciò non conta nulla. Gli individui non aderiscono alla narrazione perché sia giusta. Aderiscono per i vantaggi psicologici che assicura: convogliare l’ansia e combattere la grande battaglia comune.
Secondo Desmet, non solo non è necessario che la narrazione abbia fondamenta razionali, ma più la narrazione sarà assurda e più otterrà l’adesione degli individui ridotti a massa. E sapete perché? Perché, dice Desmet, queste narrazioni (per esempio le misure contro il covid) funzionano come rituali. E che cos’è un rituale? È un comportamento simbolico che, assurdo da un punto di vista strettamente pragmatico, diventa significativo alla luce di un credo.
Ecco perché la gente è cieca e resta cieca. Le contro-argomentazioni fondate sulla ragione non hanno nessuna importanza.
Quando diventano massa, gli individui, privi di autonomia di giudizio e di senso critico, hanno soltanto bisogno di concentrare le energie contro la fonte dell’ansia e l’aggressività su coloro che non stanno al gioco. Ma attenzione: il nuovo legame che si viene a creare non è tra individui, ma tra l’individuo e un gruppo. Di qui un senso di solidarietà molto intenso.
Man mano che procede il formarsi della massa, il processo di solidarietà tra individui si logora, a vantaggio di quello verso il gruppo. Ecco così l’adesione ad atteggiamenti che sarebbero semplicemente impensabili se valutati in base a relazioni individuali. Lo abbiamo visto. La gente ha accettato di non andare a trovare il morente affetto dal virus e ha sostenuto l’idea che sia giusto non curare il malato non vaccinato o fargli pagare le cure senza il ricorso al servizio sanitario nazionale.
Più a lungo dura il processo di formazione della massa, più si deteriorano i legami individuali a vantaggio del legame tra l’individuo e il gruppo. Di qui anche la paranoia: nessuno si fida più dell’altro, ma tutti si è reclutati per la battaglia.
Tante volte, tra amici che non hanno aderito alla narrazione dominante, ci siamo trovati a osservare: è come se la gente fosse ipnotizzata. E in effetti, spiega Desmet, il meccanismo è proprio quello. Il processo di formazione della massa concentra tutta l’attenzione su un aspetto molto limitato e ristretto della realtà. Non guarda all’insieme. Un processo del tutto simile a quello che avviene nell’ipnosi di gruppo.
L’ipnotista che cosa fa? Distoglie l’attenzione dall’ambiente circostante e la concentra su un singolo dettaglio. Da quel momento le persone perdono il senso della realtà. Tutta l’energia psicologica viene concentrata su un punto (per esempio il virus), ciò che resta fuori non ha più importanza e chi ancora gli attribuisce importanza diventa un sovvertitore, un nemico.
Di nuovo, la razionalità delle argomentazioni usate contro la narrazione non ha rilievo. Tali argomentazioni, semplicemente, non sono prese in considerazione perché sono state poste fuori dal punto sul quale la narrazione ha concentrato tutta l’energia psicologica.
Ecco perché quando diciamo che la gente sembra sotto sortilegio, ipnotizzata e incapace di osservare la realtà, non usiamo solo una metafora.
Quando, trasformati in massa, gli individui ricevono un comando dal leader, obbediscono. Non possono fare altro. Il leader, come l’ipnotista, può chiedere loro qualsiasi cosa: anche di farsi inoculare una sostanza sconosciuta, anche di farla inoculare ai propri figli.
Ecco il totalitarismo. Realizzato con la fattiva collaborazione delle vittime.
Ora, la trasformazione degli individui in massa da parte delle élite non può durare a lungo, né può andare in profondità, se non c’è una costante e sistematica manipolazione mediante i mass media. Proprio perché la formazione della massa è come l’ipnosi di gruppo, indotta dalla voce del leader, questa voce deve farsi sentire sempre, raggiungere tutti e non essere disturbata da interferenze.
Va notato che spesso i leader delle masse sono sotto ipnosi loro stessi. Già Gustave Le Bon, in Psicologia delle folle, spiegò che la differenza tra la classica ipnosi e la formazione della massa è una sola: nel secondo caso i leader sono essi stessi ipnotizzati. Sono ipnotizzati dalle proprie ideologie, introiettate attraverso i meccanismi di formazione e selezione. Ideologie che possono prendere nomi diversi ma hanno sempre in comune, come abbiamo visto durante la “pandemia”, una caratteristica: la pretesa pseudoscientifica. Sempre per ottenere il controllo sociale si utilizzano narrazioni sedicenti scientifiche. Stalin utilizzò il materialismo storico e la teoria della superiorità del proletariato, Hitler la teoria della superiorità della razza ariana. Non stupisce che l’ideologia che sta prendendo piede oggi sia tecnocratica e guidata da esperti che esercitano il controllo servendosi di argomenti “scientifici”.
Questi leader, ieri come oggi, vogliono sempre rimodellare la società, ricrearla. E gli obiettivi dei leader attuali li vediamo chiaramente nei proclami degli enti e delle istituzioni globaliste, dall’Onu al Wef. L’obiettivo è rifare l’uomo stesso. È il transumanesimo, l’unità uomo-macchina, l’internet dei corpi.
Se nella dittatura classica la forza sta nel dittatore, nel totalitarismo la forza è nella massa. Nel primo caso, se si elimina il dittatore la dittatura crolla. Ma nel secondo caso che cosa si può fare?
Poiché è molto difficile sottrarre la massa all’ipnosi collettiva, non resta che destabilizzare il sistema.
Qui la mia riflessione si lega a quella che ho condotto nei testi dedicati alla dissidenza, all’andare nel bosco, alla polis parallela e alla disobbedienza civile. Compito delle voci dissonanti è la resistenza. Il che significa principalmente trovare il modo di continuare a farsi sentire. Unico ostacolo di fronte a un Stato totalitario che mira a fagocitare tutto, queste voci non devono tacere.
Nella dittatura classica quando il dittatore riesce a silenziare l’opposizione diventa meno aggressivo, perché non ha più bisogno della violenza. Anzi, per tenersi buoni i cittadini deve mostrare loro un volto, per quanto possibile, amichevole. Nello Stato totalitario succede invece l’opposto: quando lo Stato ha silenziato tutte le voci dissonanti, è proprio in quel momento che diviene più aggressivo. A quel punto, quando l’ipnosi è profonda, lo Stato può rivolgere tutte le attenzioni ai non allineati, per colpirli duramente e definitivamente.
Questa repressione viene ammantata di dovere etico, e anche questa non è una novità. Le masse lo fanno sempre. Ogni crudeltà, se commessa in nome del “popolo”, è un dovere etico. Chi non è dentro la massa viene accusato di non avere senso civico, responsabilità sociale e spirito solidale. Secondo questa visione, chi non è dentro la massa commette un peccato capitale: antepone il singolo al gruppo. Quindi va distrutto. Non può esserci pietà.
L’ipnosi di massa va combattuta ogni giorno, con una dissidenza continua e radicale. Non può esserci sosta. Chi non crede alla narrazione è chiamato a trovare il modo di farsi sentire in ogni modo. Non importa dove e come: di capitale importanza è che la sua voce sia diffusa. Se si spegne quella voce, è la fine. La voce della dissidenza è l’unico strumento che possa incrinare il processo di ipnosi collettiva.
Gustave Le Bon dice che è quasi impossibile svegliare le masse. Tuttavia, se le persone non ipnotizzate continuano a farsi sentire, l’ipnosi di massa non riuscirà a raggiungere il punto di non ritorno e non sarà possibile commettere gli atti più crudeli spacciandoli per dovere etico.
A questo punto si potrà osservare: ma se sulla massa non hanno presa le argomentazioni razionali, che senso ha continuare a parlare? Nessuno si sveglierà dall’ipnosi indotta.
Desmet risponde: è vero, non dobbiamo aspettarci che la gente si svegli. Tuttavia il risuonare continuo delle nostre voci dissidenti è il solo strumento a disposizione per impedire di arrivare al punto di non ritorno. Ogni volta che uno di noi dirà “grazie, tante, ma io la penso diversamente”, l’ipnosi non potrà dirsi completata.
Sembra un obiettivo di poco conto, eppure una cosa è certa: se le voci dissonanti taceranno, inizierà la distruzione dell’uomo. E sarà per tutti. Il mostro totalitario divora sempre i suoi figli (Hannah Arendt).
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