Per quanto sia molto comune contrapporre la meritocrazia allo statalismo, questa contrapposizione non esiste: la meritocrazia è l’essenza stessa dello statalismo. I due termini sono interscambiabili: vogliono dire la stessa cosa.
Questa errata contrapposizione fra meritocrazia e statalismo emerge a volte dall’indignazione prodotta da casi come quello della recente assunzione di Benedetta Cappon al Comune di Roma. Questa assunzione infatti è avvenuta per chiamata diretta su proposta di Flavia Barca, assessore alla cultura della giunta capitolina di Ignazio Marino, quindi senza bando pubblico (la Cappon, “occupante” di un importante teatro romano, il Teatro Valle, è figlia dell’ex direttore generale della RAI, Claudio Cappon).
Casi di questo tipo vengono spesso visti come il trionfo dello statalismo sulla meritocrazia. Se la Cappon fosse stata assunta mediante bando pubblico, il suo curriculum fosse stato anonimamente valutato insieme a quello di altri concorrenti e lei fosse stata selezionata fra molti sulla base di parametri oggettivi, allora, secondo questa visione, la meritocrazia avrebbe vinto sullo statalismo e non ci sarebbe stata la stessa indignazione.
Per capire perché questa contrapposizione fra meritocrazia e statalismo è errata, è necessario preliminarmente distinguere fra merito e valore.
La fondamentale differenza fra merito e valore sta nel fatto che, mentre il merito è espressione di un giudizio individuale (che non costa nulla), il valore è espressione di un’azione individuale (in particolare un’azione di rinuncia) della quale chi la compie subisce direttamente le conseguenze economiche. Per esempio, Giorgio può ritenere che Rebecca sia una persona fantastica e che meriti un determinato lavoro (e altre persone, naturalmente, possono ritenere l’opposto). Tuttavia, fino a quando lui o qualcun altro non rinuncerà a ciò che può acquistare con una determinata somma del proprio denaro per darla a Rebecca in cambio del suo lavoro, il valore economico del lavoro di Rebecca sarà zero (indipendentemente da quanto meritevole esso possa essere a seconda dei giudizi individuali). Il valore del lavoro di Rebecca è quindi soggettivo: per Giorgio può essere 10 mentre per Marco può essere 1.000.000, a seconda di quanto del proprio denaro ciascuno di essi è disposto a spendere per il lavoro di Rebecca, il che dipende, fra le altre cose, anche dalla situazione particolare di Giorgio e Marco e da infiniti altri fattori che solo loro conoscono[1]. Anche il merito è soggettivo ma è un concetto che non ha nessun significato economico in quanto, al contrario del valore, non implica nessuna scelta economica (definita come una rinuncia di un soggetto a un bene economico di sua proprietà per ottenerne un altro).
Ora, da quanto discusso fin qui deriva che non c’è un solo euro speso dallo Stato, per esempio nell’assunzione di un impiegato pubblico, che implichi una scelta economica: ogni euro speso dallo Stato è infatti stato estorto con la forza e con la violenza (cioè mediante tassazione, inflazione monetaria o debito pubblico) ai cittadini. Ne segue necessariamente che il valore economico di ciò che viene pagato con soldi “pubblici” è per definizione zero (quindi si: un impiegato pubblico riceve un compenso economico per un lavoro che ha sempre e comunque valore economico nullo).
Ma se il valore economico di una spesa pubblica (per esempio quello del lavoro della Cappon presso l’amministrazione capitolina) è necessariamente zero, allora perché viene fatta quella spesa? Nel meno peggio dei casi essa viene fatta perché, secondo coloro che hanno il potere di approvarla in modo irresponsabile (cioè senza doverne subire direttamente le conseguenze, senza dover rinunciare personalmente a qualcosa), “merita”: per esempio, secondo l’amministrazione capitolina il lavoro della Cappon merita in quanto essa è una persona che, «per esperienza, capacità personali e professionali, [è] in grado di coadiuvare il medesimo [l’assessore] nell’espletamento del proprio mandato».
Lo Stato moderno può quindi anche essere definito come quella macchina che, grazie alla coercizione arbitraria resa possibile dall’idea di “legge” sulla quale è basato (il positivismo giuridico), consente a chi lo controlla (i governanti, i burocrati e soprattutto la maggioranza che li elegge) di realizzare la propria personale visione del mondo (ciò che secondo loro “merita”) con le risorse e la libertà degli altri.
Statalismo e meritocrazia sono dunque la stessa cosa. La scelta della Cappon per chiamata diretta è stata meritocratica e quindi statalista (secondo chi la ha assunta lei meritava quel lavoro; la sua assunzione non ha implicato una scelta economica: i soldi per pagarla verranno estorti con la forza ai cittadini). Se la Cappon fosse stata assunta mediante bando pubblico questa scelta sarebbe stata ugualmente meritocratica e quindi statalista (avrebbe rispettato i criteri di merito arbitrariamente stabiliti da coloro che avrebbero istituito il bando e, di nuovo, non avrebbe implicato nessuna scelta economica: i soldi per pagarla sarebbero comunque stati estorti con la forza ai cittadini).
Allo statalismo non si contrappone quindi la meritocrazia (che ne è l’essenza) ma il valore economico. Solo quando il trasferimento di risorse da un soggetto a un altro avviene volontariamente e in base al valore economico (cioè solo quando c’è scelta economica) si ha rispetto per la persona, per la sua individualità, per la sua umanità, per la sua libertà[2]. Solo in questo caso viene rispettata la Legge intesa come limite al potere (cioè come principio astratto, come regola generale di comportamento individuale) e non come strumento di potere (cioè come provvedimento particolare). Solo quando viene rispettata la Legge così intesa (senza eccezioni[3]) si ha il libero mercato. E, incidentalmente, solo col libero mercato si può avere prosperità e crescita sostenibile.
Fin quando le persone perbene e che si dichiarano non ostili al libero mercato (e che a volte hanno perfino il coraggio di definirsi “liberali”) continueranno a idolatrare la meritocrazia, stiamo pure tranquilli: il libero mercato sarà sempre più lontano, lo statalismo sempre più asfissiante e uscire dalla crisi in modo sostenibile sarà sempre più impossibile. La Legge e il libero mercato richiedono il rispetto di scelte e situazioni legittime che a nostro personale parere possono essere immeritevoli. Quando auspichiamo il ricorso alla coercizione statale per imporre scelte o situazioni che a noi sembrano meritevoli o, il che è lo stesso, per alterare il risultato degli spontanei processi di mercato (qualunque sia questo risultato), siamo passati dalla parte del male, siamo diventati totalitari, anche e soprattutto se siamo persone perbene. Il vero nemico della libertà non è lo Stato, sono le persone perbene che si servono di esso per realizzare ciò che secondo loro è “meritevole”.
[1] Il fatto che il valore del lavoro di Rebecca per Marco, ad esempio, sia 1.000.000 non vuol dire affatto che, in una situazione di libero mercato, egli pagherà necessariamente quella cifra. Infatti, in tale situazione il meccanismo delle coppie marginali farà si che normalmente Marco pagherà molto meno del valore che per egli ha il lavoro di Rebecca, e comunque mai di più.
[2] Robert Nozick non è d’accordo su questo punto: nel suo Anarchy, State and Utopia egli sostiene che si ha rispetto per la libertà di un individuo solo quando la distribuzione della ricchezza avviene in base a nessun criterio particolare (unpatterned principle of distributive justice) e specificamente critica Friedrich A. von Hayek per auspicare una distribuzione della ricchezza basata sul criterio del valore. Tuttavia, se si dà al termine “valore” il significato che gli viene dato dalla teoria soggettiva del valore della Scuola Austriaca, io ritengo che il valore, essendo soggettivo e espressione di una legittima azione individuale, sia a tutti gli effetti un unpatterned principle of distributive justice. In altre parole, per chi conoscesse il testo citato di Nozick, il criterio del valore (se si adotta la teoria soggettiva del valore della Scuola Austriaca) è perfettamente compatibile col suo esempio di Wilt Chamberlain. A me sembra che Nozick dica la stessa cosa di Hayek ma che, non avendo ben compreso il significato che quest’ultimo dà al termine “valore”, confonda il valore con gli altri criteri che, a differenza di questo, richiedono tutti un’azione coercitiva dello Stato.
[3] Tranne, a determinate condizioni che qui non possono essere discusse, quelle eventualmente necessarie per la difesa della legge stessa: le tasse sono una violazione della Legge, un furto.
Bell’articolo senza tempo. Grazie
Questo articolo è come la Corazzata Potiomkin. una cagata pazzesca!!!
contento tu! Limportante è che hai dato la cifra del tuo QI
Ma come fate a dire che è un ottimo articolo quando in realtà è un pasticcio di concetti?! Basta guardare al significato originale di “valore”( http://www.etimo.it/?term=valore ) per rendersi conto quanta confusione c’è in questo articolo. Mi spiace per chi lo ha scritto ma sopratutto mi spiace per coloro che hanno creduto alla comunanza tra meritocrazia e statalismo. Il problema è che in ragion del fatto che, giustamente, si attacca lo statalismo, allora i concetti espressi sono tutti buoni a prescindere, anche se sono totalmente sballati. E poi ce la si prende contro i pecoroni che continuano a votare i partiti classici. Si può essere pecoroni in molti modi!
Più che d’accordo! L’importante è buttarla in caciara!… tanto la gente è già molta confusa di suo, moltissimi non hanno nemmeno basi culturali per capire se una cosa è vera o meno…si punta sulla confusione, tanto molti abboccheranno!
Caro Giovanni Birindelli. Sono d’accordo in maniera incondizionata con tutti i principi esposti nel post. Vorrei però dirti la mia opinione su un paio di punti concettuali che secondo me interpreti in modo errato.
Il “valore economico” di un dipendente pubblico non è zero, E’ inconoscibile. Il fatto che un servizio non venga pagato in maniera volontaria da nessuno non inficia il fatto che un servizio è reso e qualcuno ne usufruisce. Noi non possiamo sapere QUANTO ha valutato il servizio il cittadino che ne usufruisce perché non compie scelte di rinuncia, ma cionondimeno il valore c’è, per il semplice fatto che l’usufruitore lo utilizza razionalmente come mezzo per qualche fine.
Possiamo dire con “apodittica certezza” per citare il buon Ludwig, che la stessa quantità di risorse spese (costo sostenuto) avrebbero prodotto molto più valore in un’ottica privata. Questo sì, perché la gestione pubblica è costruttivamente ed ineluttabilmente meno efficientte del mercato. Ovviamente questo discorso vale per quei beni comunque di una qualche utilità per il cittadino. In sostanza, non gli uffici di carte bollate.
Riguardo la meritocrazia, a mio modo di vedere “merito” coincide con “valore” in un’ottica di libero mercato. In pratica io parlo di meritocrazia intendendo solo ed esclusivamente “valore economico”. Ragion per cui arrivo a dire non che la “meritocrazia” nello statalismo esista perché la scala di meriti è quella del politico e non quella che intendiamo con “valore economico”, cosa peraltro corretta. Ma affermo che lo statalismo e la socializzazione di un qualunque bene o lavoro viene attutato proprio in quei campi dove NON SI DESIDERA la meritocrazia. In pratica, tu non vuoi che insegnino i migliori, altrimenti lasceresti al mercato, non vuoi che l’immondizia sia smaltita dai migliori, altrimenti lasceresti al mercato etc etc etc. In ogni campo dove si vuole avversare la meritocrazia a vantaggio ovviamente di clientelismi e nepotismi, la strada più efficiente è lo statalismo.
La ringrazio per il suo commento e mi scuso per il ritardo della risposta dovuto al fatto che lo ho visto solo adesso.
Lei scrive: «Il fatto che un servizio non venga pagato in maniera volontaria da nessuno non inficia il fatto che un servizio è reso e qualcuno ne usufruisce. Noi non possiamo sapere QUANTO ha valutato il servizio il cittadino che ne usufruisce perché non compie scelte di rinuncia, ma cionondimeno IL VALORE C’È, PER IL SEMPLICE FATTO CHE L’USUFRUITORE LO UTILIZZA RAZIONALMENTE PER QUALCHE FINE».
Ecco, la frase che ho messo in maiuscolo secondo me è sbagliata ed è ciò che contribuisce alla nostra divergenza di opinione.
Nello scrivere quella frase lei rinuncia alla distinzione fra beni economici (che sempre hanno valore economico) e beni non economici (o “free goods” come li chiama Mises: beni che non hanno valore economico, ANCHE SE LI USIAMO). I beni economici sono quelli per i quali il nostro fabbisogno è superiore alla quantità a noi disponibile e che quindi possiamo acquistare (compatibilmente con la nostra disponibilità di risorse e col posto che questi beni occupano nella nostra personale scala di priorità) mediante azione di rinuncia. I beni non economici sono quelli per cui il fabbisogno è inferiore alla quantità a noi disponibile e che quindi non acquistiamo mediante azione di rinuncia: pensiamo all’aria. Ora, noi l’aria la respiriamo e, se qualcuno togliesse una sufficiente quantità d’aria dalla nostra stanza, l’aria passerebbe immediatamente da essere bene non economico a essere bene economico (il nostro fabbisogno diventerebbe immediatamente superiore alla quantità disponibile e noi saremmo disponibili ad acquistarla rinunciando ad altre cose di cui abbiamo meno bisogno). Tuttavia, finché qualcuno non toglie l’aria dalla nostra stanza, cioè finché noi non siamo costretti a rinunciare a qualcosa per averla (cioè a SCEGLIERE), l’aria è un bene non economico e, in quanto tale, non ha valore, ANCHE SE LA USIAMO. Nelle parole di Carl Menger, «Diviene così anche chiaro perché soltanto i beni economici abbiano per noi valore, mentre i beni sottoposti al rapporto quantitativo che ne fonda il carattere non economico non possono acquisire per noi proprio nessun valore. Il rapporto che fonda il carattere non economico dei beni consiste nel fatto che il fabbisogno dei relativi beni [non è che non c’è, ma] è minore della quantità disponibile».
E lo stato totalitario (soprattutto se “democratico”) può sopravvivere solo se aumenta continuamente i “free goods”, cioè quei beni e servizi di cui gli elettori possono godere senza dover rinunciare a nulla (perché tanto sono stati pagati con soldi estorti con la forza ad altri).
Quindi non è vero, secondo me, che ciò che determina l’esistenza del valore economico di un bene o di un servizio è il fatto che questo sia utilizzato da qualcuno. Il valore economico nasce quando c’è un’azione di rinuncia: cioè dove qualcuno SCEGLIE di rinunciare a qualcosa che è di sua proprietà per avere qualcos’altro a cui dà più valore. Dove un bene o servizio viene finanziato con la coercizione su altri (e quindi dove chi ne gode non ha dovuto compiere una scelta economica come definita sopra) quel bene non ha valore economico, anche se viene usato, in quanto non c’è un’azione di rinuncia, cioè di scelta. Come dice Mises «L’uomo che agisce [«acting man»] SCEGLIE fra varie opportunità disponibili [quindi l’azione umana è inseparabile dalla scelta, n.d.r.]. Preferisce un’alternativa a un’altra … La scala dei valori o i bisogni si manifestano solo nella realtà dell’azione umana. Queste scale di valori non hanno nessuna esistenza indipendente al di là dell’effettivo comportamento degli individui» e cioè, visto che agire vuol dire scegliere, al di là delle scelte effettuate dall’individuo. Nel momento in cui un individuo per avere un bene o un servizio non deve fare una scelta, non deve rinunciare a qualcosa di sua proprietà, quindi, quel bene o servizio non occupa nessun posto nelle sue scalE di valori, cioè quel bene o servizio ha valore nullo.
Poi è vero che per alcuni beni e servizi che offre lo stato (generalmente molto pochi: pensiamo ai musei), se lo stato smettesse di offrirli le persone compirebbero azioni di rinuncia per usufruirne (ma non per i musei in generale bensì per quelli di loro interesse, nei posti di loro interesse, al tempo di loro interesse) e quindi essi acquisterebbero valore. Ma questo non vuol dire che quei beni e servizi avevano valore anche prima: è solo nel momento in cui è conoscibile (cioè in cui è espresso da un’azione volontaria di scambio) che il valore economico nasce.
Sulla distinzione fra merito e valore rimando a quello che ho scritto nell’articolo.
un articolo cosi’ bello dovrebbe essere letto ed insegnato in tutte le scuole.
Davvero grazie
“Il vero nemico della libertà non è lo Stato, sono le persone perbene che si servono di esso per realizzare ciò che secondo loro è “meritevole”.”
la sintesi è asciutta e precisa come un dardo che centra il cerchio.
il fondo della questione riposa in maniera non vista ed indisturbata, in quella dissonanza che si annida nelle menti dei più illuminati:
desiderare una armonia un ordine e una prosperità tentando di costruirle deliberatamente.
la meritocrazia è uno dei tanti aspetti che affligge il pianificatore, che nell’atto di costruire gli mancano i materiali e la sua costruzione e sempre instabile e goffa, e nel mentre procede, sbirciando l’armonia naturale del libero mercato, non s’accorge che creare non è la stessa cosa che copiare.
bello
Non c’è niente da fare,
Birindelli è come un faro nella notte, illumina, da contesto e direzione alle idee vaganti che con buona volontà incrociano il gentile radiare. :-)
Splendido articolo, dovrebbe essere letto da tutti i liberali.
Allora forse si potrebbe dire anche così, ma correggetemi se sbaglio.
Perchè la scelta non sia statalista, occorre che l’autore della decisione paghi in positivo o in negativo per la scelta compiuta.
Intendo dire che occorre spostare il giudizio dall’oggetto (anche persona) della decisione, al soggetto che decide.
Se chi decide ci rimette la sedia in caso di assunzione di un incapace, oppure viene premiato in caso di persona adatta al compito, avremmo un maggiore probabilità di compiere una scelta produttiva.
Il che è esattamente la logica dell’azienda privata in regime di libero mercato, quindi agli antipodi dello statalismo.
Attenzione a non confondere il valore economico con un meccanismo di incentivi. In entrambi i casi chi compie una scelta ne subisce le conseguenze, ma i due concetti sono completamente diversi.
Per esempio, supponiamo che Marco sia il direttore di un ufficio postale (pubblico) e che abbia la facoltà di assumere una delle seguenti due persone: Chiara (una bellissima ragazza ma nota nullafacente e incapace) e Nicola (uno che lavora sodo e in modo efficiente). Un efficace meccanismo di incentivi (per esempio la possibilità di essere licenziato) aumenterebbe le possibilità che Marco assuma Nicola e non Chiara, anche se questo per lui significa rinunciare alla piacevolezza di vedere una bella ragazza tutti i giorni nel suo ufficio (possiamo ipotizzare, ai fini del discorso, che in assenza di questo meccanismo di incentivi Marco avrebbe assunto Chiara al posto di Nicola). Tuttavia la scelta di Nicola non sarebbe stata una scelta economica e quindi il valore economico del lavoro di Nicola sarebbe comunque nullo. Infatti Marco non ha dovuto rinunciare a un bene di sua proprietà per assumere Nicola. Se avesse assunto Chiara al suo posto forse avrebbe perso il suo lavoro, ma il suo lavoro non è la sua proprietà (solo il denaro guadagnato fino a un determinato momento lo sarebbe, se non fosse stato estorto con la forza ai cittadini, ma non il suo lavoro).
Se Marco fosse stato proprietario di un’azienda privata, invece, qualunque scelta avrebbe avuto un valore economico (anche se avrebbe avuto conseguenze economiche differenti). Assumendo per semplicità che il salario per il lavoro offerto a Chiara e Nicola fosse lo stesso (poniamo X bitcoin), se Marco avesse assunto Chiara questo avrebbe voluto dire che per lui il valore economico del lavoro di Nicola sarebbe stato inferiore alla piacevolezza di guardare in ufficio una bella ragazza. Noi possiamo essere d’accordo sul fatto che, in base ai nostri personali parametri, Nicola avrebbe meritato quel lavoro più di Chiara e che la scelta di Chiara avrà conseguenze economiche negative sull’azienda (che magari perderà clienti) ma ciò non toglie che per Marco il valore economico della piacevolezza di avere Chiara in ufficio era superiore a quello del lavoro di Nicola e che nell’assumere Chiara al posto di Nicola egli ha esercitato un suo legittimo diritto di proprietà (ha rinunciato a qualcosa che era suo: gli X bitcoin).
Chiarissimo.
Quindi resta da concludere che l’impossibilità di identificare un vaolore economico nelle decisioni è intrinseca a ogni Stato perchè il decisore statale non è il possessore dei soldi che spende.
Nella migliore delle ipotesi si può ipotizzare qualche meccanismo che responsabilizzi i decisori. Anche in questo caso è impossibile evitare l’arbitrarietà dei parametri di giudizio che informano tali meccanismi. Quindi all’interno dello Stato non c’è soluzione alla questione.
Entre certi limiti è vero anche per le aziende private non padronali. I manager, prima che vengano fatti fuori dal CdA su pressione degli azionisti insoddisfatti, spendono soldi non loro r hanno le stesse prerogative di irresponsabilità del decisore pubblico, solo che le hanno per un tempo più ristretto.
Mi viene in mente ‘padron’ Steve Jobs, fatto fuori dalla prima Apple per l’incapacità di vincere contro Microsoft e richiamato all’unanimità dopo che il successore aveva ridotto l’azienda al lumicino.
Ottimo e sempre istruttivo!!! I libertari hanno una coerenza e un rigore teorico intrinseco!!!
Ottimo!