Giuseppe Prezzolini morì nell’estate del 1982. Aveva cent’anni, e in coloro che di anni ne avevano meno di venti il suo nome evocava echi vaghi e confusi. L’amico di Papini – “quando si cita Prezzolini occorre metterci vicino Papini”, si direbbe parafrasando lo stupidario celebre di Flaubert – “complice del Fascismo”, “intellettuale di destra”, “vegliardo snob”, “bell’uomo anche a cent’anni”. E poi giornalista, scrittore, “cattedratico” alla Columbia, “cosmopolita”, “anti-italiano”, tanto che come Carlo Cattaneo l’Italia preferiva guardarla da (non troppo) lontano: la Svizzera libera e federale. Assai opportunamente negli ultimi anni la letteratura ha chiarito molto della sua biografia, e opere agili come la “biografia esistenziale” di Beppe Benvenuto (Sellerio, 2003) ne hanno dato una sintesi viva e bella, contribuendo a dissipare ombre e distruggere pregiudizi. Ancora molto certo resta da fare: ad esempio una bibliografia dei suoi scritti, e forse, lanciamo questo sasso (non nascondendo subito la mano) una edizione degli opera omnia nei Meridiani. Escludendo certo il fondamentale carteggio con Papini, che pubblica meritoriamente Storia e Letteratura di Roma.
Un libretto edito da Sellerio nel 2004, Cristo e/o Machiavelli, riedizione a cura di Benvenuto di una serie eterogenea di scritti già pubblicati insieme da Rusconi nel 1971, con una introduzione di Quirino Principe, apre una serie di interessanti questioni. Prezzolini entrò in contatto con il pensiero libertarian, e in particolare con Rothbard? Forse con Rothbard, che nasce nel 1926, e scrive le sue opere maggiori solo dopo il ritorno di Prezzolini in Italia, il nostro non entrò mai in contatto. Ma certamente poté leggere gli scritti americani di Mises, e temperare certo il suo anarchismo vagamente ottocentesco ed “europeo” con tendenze libertarian che poteva respirare nell’America in cui visse trent’anni. Il volume raccoglie scritti che vanno dal 1955 al 1970, a ridosso del ritorno in Italia del loro autore, ricco delle letture e dell’esperienza americane.
Peraltro, il confronto tra Cristianesimo e pensiero di Machiavelli è tema a lui caro: tanto è vero che nel 1954 aveva pubblicato un volume notevole, presso la Casini di Roma, dal titolo eloquente: Machiavelli, anticristo. Insomma, quel che per Renan era Nerone, per Prezzolini fu Machiavelli. Leggere i testi di Prezzolini, che interpretano la lettera e lo spirito della doppia morale machiavelliana senza sconti, mette in guardia contro tutti i tentativi di lettura “teologica” di Machiavelli, da quelli di Sebastian de Grazia (Machiavelli in Hell, 1989), a quelli, patetici, di Maurizio Viroli (Il Dio di Machiavelli e il problema morale dell’Italia, 2005), che legge Machiavelli come il corifeo della religione civile della virtù, del “cristianesimo repubblicano”. Vedendovi dunque l’origine di quella (sciagurata ma non per lui) “religione civica” che arriverà fino al Settecento di Filangieri, per poi divenire ideologia della moralità dello Stato laico, e maturare pienamente, nel mainstream del pensiero ottocentesco italiano. Passando attraverso stragi, guerre, al ritmo del levarsi, e del rapido calare, delle lame della ghigliottina: il vero basso continuo di questa “religione senza Dio” che è lo Stato. Nel suo stile, Prezzolini non fa sconti: “Lo Stato non può essere cristiano perché è fondato sul principio dell’utile e della nazione, e il cristianesimo sul sentimento dell’amore e dell’universalità”.
Ecco l’incipit del primo saggio.
E poi “se guardate al sorgere degli stati ci trovate sempre la violenza o la minaccia di violenza”. “Non meno importante è il passo della stessa opera dove Sant’Agostino si domanda: ‘Quid sunt imperia, detracta justitia, nisi magna latrocinia?’ “. Insomma, gli stati sono “associazioni di ladri”. Ed io mi ostino a tradurre quell’ablativo assoluto assolutamente in un solo modo: “essendo venuta meno la giustizia”.
Sant’Agostino, non tanto nel suo pessimismo, non così radicale come lo intendeva Prezzolini, quanto nella sua critica radicale agli Stati e agli Imperi, è affatto da ascriversi tra i padri del pensiero liberale classico: “se una di queste bande funeste – prosegue la citazione di Agostino del nostro – si accresce con altri briganti fin al punto di occupare tutta una regione, di stabilir sedi fisse, di dominare delle città, ecco che si arroga il nome di Stato, che le viene conferito non già dalla rinunzia alla cupidigia, ma dalla sicurezza dell’impunità”. Lo Stato dunque, secondo Prezzolini lettore di Agostino, “non riposa sopra un principio di amore, e nemmeno di giustizia”. Tuttavia Prezzolini condivide con Agostino, e soprattutto con Machiavelli, un pessimismo radicale nei confronti della natura umana, “natura corrotta” per il primo, “natura ferina” per il secondo, vero maestro di Hobbes.
E conclude: “Se fossimo tutti buoni, non ci sarebbe bisogno dello Stato”. Conclusione che lo allontana dal pensiero libertario, nella misura in cui le premesse invece lo apparentano ad esso.
Lo Stato è certo un male, ma un male necessario, secondo Prezzolini: dunque, viviamo in una condizione d’immoralità: “Se si va a vedere in fondo, tutte le società organizzate in forma di Stato sono per forza immorali, e di società morali veramente non esiste che il coro degli angeli dove le volontà di ciascuno convergono in quella di Dio”. Il pessimismo, l’incapacità di pensare una forma di società senza Stato, che Rothbard stava coraggiosamente elaborando negli anni in cui Prezzolini si accingeva, ormai anziano, a lasciare l’America, caratterizzano negativamente questi scritti brillanti e sagaci: “Ma certamente questo Stato, biscazziere, ladro, ruffiano e carnefice, è inevitabile, e son sempre vani i tentativi di farne a meno”. E qui Prezzolini mostra di conoscere ben poco del pensiero libertario, cita appena, e con disprezzo, “le colonie libertarie americane così bene studiate dallo Huxley”.
Non vi è alcun riferimento all’idea di difesa di proprietà privata, l’anarchismo che ha in mente Prezzolini è ancora quello socialisteggiante dell’Italia a cavaliere dei due secoli, così ideologicamente vago, così disperatamente condannato al suicidio. Tuttavia, questo riconoscimento dell’inevitabilità metafisica quasi dello Stato – e non per nulla viene citato Giovanni Gentile – viene vista in modo tormentato da Prezzolini, uno spirito libero, selvaggiamente, anche se gli mancavano quegli strumenti teorici libertari che gli avrebbero consentito una messa a punto di vie di fuga dall’“inevitabile”.
Questo grande anti-italiano alla fine è così “italiano” nelle sue fonti (Vico, Machiavelli, Croce, Galileo, Gentile), e nelle sue conclusioni, che non vede oltre un esito, che sia ingenuamente e/o astutamente statalistico, o altrimenti tragicamente pessimistico. E si dibatte come un pesce fuor d’acqua quando tenta di non sottoscriverne alcuno dei due. Alla fine, dice che di nostro, sottratto all’onnipresenza dello Stato, ci rimane solo l’“amore”. “Ciò non ci salva dalla disperazione, ma ci consola; e secondo Leopardi, perfino gli dèi ce lo invidiano”.
Non c’era da aspettarsi di più. Eppure, gli aneliti alla libertà di Prezzolini, vagiti di una creatura cresciuta troppo esposta a statalismi ideologici e reali, qualcosa ancora ci dicono.
* Brano tratto dall’Antologia MINIMA LIBERTARIA, libro edito dalla Leonardo Facco Editore