DI AURELIO MUSTACCIUOLI
Vediamo ora di capire come è composta l’attuale offerta politica nel nostro paese.
I partiti politici italiani del dopoguerra hanno sviluppato, per motivi storici, una dialettica tutta basata sulla contrapposizione ideologica tra destra e sinistra, tra conservatori e progressisti ( liberal).
Il risultato è che la nostra repubblica ha visto infinite declinazioni di forze politiche socialdemocratiche di destra e socialdemocratiche di sinistra, che si sono succedute con il comune denominatore di essere sociali e di estendere sempre di più il loro potere attraverso una statalizzazione di fette sempre più ampie di economia di mercato.
La contrapposizione tra conservatori e progressisti individua uno schema arcaico che oggi ha perso significato, in quanto non rappresentativo di chiare distinte classi di valori. Alla fine sembra solo una questione di gestione del potere; i progressisti sono quelli che vogliono comandare con una struttura più collegiale e i conservatori quelli che lo vogliono fare con una più personalistica.
Inoltre, va considerato che l’economia che viene insegnata nel nostro paese, e a cui fanno riferimento tutti i partiti, pur con gradazioni diverse, è di matrice Keynesiana, che teorizza la spesa pubblica come motore di sviluppo, mentre è totalmente sconosciuta la scuola austriaca di economia, che introduce una solida teoria del capitale, esalta l’imprenditorialità, evidenzia l’inefficacia della leva monetaria[1], mettendo in guardia dai danni di lungo periodo delle politiche espansive, e, in definitiva, delinea una prospettiva liberale, difendendo l’autonomia della vita economica di fronte alle pretese del potere e alle interferenze di governi e burocrazie.
La seguente figura riportata una tassonomia dei partiti italiani prima delle elezioni europee del 2019 effettuata da un gruppo di ricercatori dell’Università di Pisa (europa.navigatoreelettorale.it).
Emerge in modo sconfortante come tutti i partiti politici siano statalisti. Ciò spiega perché nonostante tutti dicano a parole di voler ridurre la spesa pubblica, questa invece continui sempre ad aumentare, insieme a tassazione e debito pubblico. Il liberalismo da noi non esiste e non è mai esistito, il vuoto dei quadranti a destra lo dimostra. Ne consegue che quando i nostri politici usano il termine “liberale”, lo usano quasi sempre a sproposito, a volte come sinonimo di “tollerante”.
Un altro dato interessante è il modo in cui si pongono i vari partiti in relazione al progetto europeo. È curioso come venga data per scontata l’associazione progressisti = europeisti e conservatori = sovranisti. Tale associazione automatica è probabilmente vera per la particolare offerta politica italiana, ma non lo è se si parla di valori. Perché un progressista dovrebbe essere più europeista di un conservatore? Perché un conservatore dovrebbe essere sovranista? Tale associazione riflette la mancanza di una teoria politica coerente di riferimento e una posizione ambigua e confusa della nostra politica nei confronti dell’Europa. Una posizione che comunque nega la possibilità di un’Europa federale e considera invece l’Europa o superstato o niente. Ciò che emerge è che tutti i partiti vogliono più o meno Europa nel modo sbagliato e per i motivi sbagliati. In particolare, gli europeisti vogliono il superstato e i sovranisti l’autonomia economica e monetaria; la prima per pilotare l’economia con politiche interventiste, la seconda da usare per inflazionare la moneta, non certo per renderla solida.
La tecnocrazia europea, che ha fatto deragliare il progetto europeo verso quello di superstato, è figlia delle socialdemocrazie nazionali che sono funzionali all’espansione del dominio dello Stato e della sua burocrazia nei confronti degli individui, invece di rappresentare, come dovrebbero, un argine di protezione delle persone dalla supremazia del potere politico.
Vedo pertanto possibili solo due strategie politiche in ambito europeo: 1) battersi per la riduzione del peso dello stato internamente e per la riduzione del peso del sovrastato in Europa; 2) battersi per la riduzione dello stato internamente e, se si diventa un paese virtuoso e l’Europa continua nell’attuale progetto di superstato, uscire dall’Europa.
Concludendo, si può dire che in Italia manchino partiti che si rifanno ad una solida teoria liberale (e anche in Europa la situazione non è tanto migliore). Ciò in parte è comprensibile. I liberali dovrebbero ambire ad un’economia di mercato con minime interferenze statali. Dovrebbero pertanto volere uno stato leggero, e ciò implica che hanno meno da offrire in cambio del voto. E meno ottengono, a meno che non si trasformino in partiti socialdemocratici.
Inoltre, la scarsa conoscenza della scienza economica da parte delle masse non consente di valutare concrete proposte politiche con la dovuta consapevolezza circa le conseguenze socio-economiche, e quindi le rende indifese di fronte alle false promesse della politica.
Accade quindi che tutti i partiti si professino liberali senza in realtà esserlo.
Non avendo una teoria economica e una chiara filosofia politica di riferimento, ecco che i partiti italiani adottano una tattica politica opportunista basata prevalentemente sul fare propri quei temi sociali ed economici cui sono sensibili il maggior numero di persone, anche se questi temi non sono coerenti fra di loro.
Emblematico è il caso recente di +europa, un partito che dichiara di essere liberale e socialista contemporaneamente.
Alcuni partiti poi individuano temi specifici che diventano bandiere per identificare una appartenenza. L’ecosostenibilità per i verdi, lo spauracchio della destra fascista per il PD, la sicurezza per la Lega, il radical-liberal-socialismo per +europa, Dio patria e famiglia per FdI, una spruzzatina di liberalismo in salsa socialista per FI.
Ma alla fine, il comune denominatore è dirigismo economico, assistenzialismo, e spesa pubblica, quest’ultima utilizzata come mezzo di scambio per attrarre consenso elargendo prebende ora a questo, ora a quel gruppo.
La Fig 3 illustra qualitativamente la situazione dell’offerta politica in Italia.
Il quadrato esterno rappresenta la domanda politica, le aree interne (rosso chiaro, verde chiaro e bianca) la ripartizione della domanda tra gli elettori secondo i tre gruppi analizzati in Fig 1, quelli che auspicano una espansione dello stato, quelli che auspicano una riduzione dello stato e quelli per i quali l’espansione o la riduzione dello stato non fa sostanziale differenza.
I rettangoli rosso scuro (P1,P2,P3..) rappresentano le singole proposte politiche che comportano aumento di spesa effettuate dalle diverse forze politiche. Le dimensioni dei rettangoli rappresentano la quantità di domanda politica intercettata tra i diversi gruppi di elettori. Evidentemente elettori che auspicano un aumento delle dimensioni dello stato saranno più ricettivi a dare il loro consenso a proposte politiche che prevedono aumento di spesa. Tuttavia, essendo tali proposte costruite ad hoc per intercettare consenso trasversalmente, avranno riscontro, probabilmente in misura minore, anche su gruppi di elettori che auspicano una riduzione delle dimensioni dello stato o sono indifferenti rispetto a questo tema.
Chiariamo con un esempio. Supponiamo che P1 sia la proposta politica portata avanti da +europa di libera immigrazione (proposta che prevede aumento di spesa per welfare, per la gestione degli immigrati nonché per altri costi sociali di integrazione), sicuramente tale proposta troverà un certo consenso (probabilmente minore) anche tra coloro che auspicano una riduzione dello stato o sono indifferenti al tema. Questo perché questa specifica proposta tocca diritti umani (libera circolazione di individui, uguali opportunità per tutti,…) sulla cui salvaguardia c’è consenso trasversale.
Discorso analogo si può fare per i rettangoli verde scuro (P1,..), che rappresentano le singole proposte politiche che comportano riduzione di spesa e per i rettangoli bianchi (P1,P2,..), che rappresentano le singole proposte politiche che non comportano cambiamenti di spesa.
La prima considerazione da fare è che poiché, come abbiamo detto, le forze politiche sono tutte complessivamente stataliste e pro spesa, le proposte politiche che prevedono aumento di spesa sono nettamente superiori alle altre.
La seconda è che poiché le proposte politiche che prevedono riduzione di spesa sono molto poche, una significativa parte di domanda politica da parte di chi auspica una riduzione delle dimensioni dello stato resta insoddisfatta.
I risultati delle elezioni europee del 2019, con un livello di astensione del 44%, confermano quanto sia dimensionalmente importante la domanda politica insoddisfatta.
NOTE
[1] La teoria Keynesiana ritiene che si possa stimolare l’economia con la leva monetaria (politiche monetarie espansive) senza pagarne le conseguenze. Gli economisti austriaci hanno dimostrato che si tratta di una fallacia teorica. Utilizzare la leva monetaria per stimolare l’economia vuol dire in sostanza stampare moneta; ciò ne diluisce il valore e genera solo redistribuzione di ricchezza, da coloro che ricevono la moneta per ultimi a coloro che la ricevono per primi, e dai risparmiatori verso i soggetti indebitati. Inoltre, l’artificiale abbassamento del tasso di interesse che ne consegue determina i cicli economici che a fronte di un temporaneo stimolo economico nel breve termine creano recessioni nel medio termine, oltre ad un appiattimento della struttura produttiva e una distruzione di beni capitali. Insomma, aumentare l’offerta monetaria (stampare moneta) è una forma di tassazione occulta, di discriminazione sociale, di impoverimento complessivo e genera grave disagio nel futuro.
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A volte i problemi non hanno soluzioni. Come si può rendere l’Italia un paese liberale/libertario? Oggi come oggi non si può. Non c’è alcuna particolare strategia politica che possa funzionare. In my humble opinion.