DI MAURO GARGAGLIONE
Come può una persona che possiede qualcosa, stabilire se chi l’ha derubata è in stato di bisogno, o semplicemente è un ladro farabutto che campa sulle spalle del prossimo?
Il problema sarebbe assai marginale, se fosse condivisa da tutti la regola morale che niente può giustificare l’aggressione alla proprietà privata altrui, neanche avere un bimbo che muore di fame, e che per mangiare devi guadagnarti il pane onestamente.
Ma la natura umana non è così spietata.
Nelle culture in cui questi obblighi morali erano patrimonio generale, si sviluppò una grande solidarietà caritatevole e volontaria, che permetteva di aiutare coloro i quali erano veramente impossibilitati, temporaneamente o definitivamente, a far fronte a una crisi lavorativa.
Le casse mutue dei lavoratori del XIX e XX secolo, prima che lo Stato avocasse a sè il monopolio della sicurezza sociale, fungevano proprio da rete di sicurezza per i bisognosi e praticamente nessuno restava solo. Ad esse si aggiungeva una grossa fetta di solidarietà dei ricchi e dei mecenati.
Se vi capita di aggirarvi per qualche vecchio padiglione di ospedale, troverete interi reparti intitolati a munifici benefattori, che ne hanno finanziato la costruzione, quando la sanità di stato non esisteva. Liste di nomi incisi su marmo di antichi industriali, aristocratici possidenti, insomma, i ricchi di allora che facevano della beneficenza volontaria un punto d’onore e un dovere morale.
In quelle circostanze è perfettamente sensato parlare di “bene comune”. Esso è un concetto che l’individuo deve sentire in assoluta libertà, e quando è lasciato libero e la sua proprietà viene tutelata e garantita, il concetto di bene comune, emerge necessariamente come la storia dimostra.
Poi arriva lo Stato, predone e totalizzante, che santifica il concetto di bene comune per giustificare l’esproprio fiscale. E così, mentre tutti ne parlano, l’egoismo e la diffidenza trionfano di pari passo al diffondersi del parassitismo di chi, coi soldi dell’esproprio fiscale, nel nome del bene comune, percepisce il salario o il sussidio.
Siamo alle solite (Rothbard insegna).
Se dei manigoldi ti sequestrano e poi ti obbligano ad uccidere qualcuno, a rischio di rimetterci la vita, compiono parecchi reati. Se lo fa lo Stato, la cosa è perfettamente legale e si chiama guerra.
Se dei manigoldi ti rubano la maggior parte di quello che guadagni sono dei ladri, anche se potessero dimostrare di avere speso una parte della refurtiva in beneficenza. Se lo fa lo Stato, la cosa è perfettamente legale e si chiama tassazione.
Ogni legge che lo stato introduce è un’infame giustificazione della predazione che impone ai sudditi.
Più attività legislativa, più predazione.
E lo stato non ha neanche l’attenuante del figlio che sta morendo di fame. Anzi, i predatori di stato hanno spesso figli ipernutriti e superviziati. Celebre la frase di una “minestra” (non correggete, ho scritto volutamente così per associarla alla brodaglia) che sosteneva che non è vero che non si trovi lavoro perché la figlia lo ha trovato. E siccome di lavoro ce n’è tanto, ha imbrogliato chi aveva già versato quarant’anni di contributi cambiando le regole in corso d’opera. Se avesse agito in tal modo un’assicurazione privata, i suoi dirigenti sarebbero finiti davanti al giudice al massimo ventinove giorni dopo.