DI RIVO CORTONESI*
Gli amici, con i quali mi relaziono quasi quotidianamente, a volte faccia a faccia, e più spesso su Facebook, alcuni dei quali, che ringrazio di cuore, sono oggi presenti qui a Lugano, sanno bene come il target principale della mia azione politica sia quello di recuperare ai valori libertari del Cristianesimo i Cattolici intrappolati ideologicamente nello statalismo di tutti i partiti.
Credo che il progressivo oblio dei valori civici del Cristianesimo, che sono valori libertari, e il conseguente scivolamento verso logiche costruttiviste, sia stato favorito dal più dannoso eufemismo della storia moderna: libera Chiesa in libero Stato, che, tradotto brutalmente, vuol dire: voi pensate alle cose dell’aldilà che a quelle dell’aldiquà ci pensiamo noi.
Con questa premessa, non c’è da stupirsi se i Cristiani siano oggi costretti a pescare nelle acque torbide della miserevole e accanitissima contesa politica tra tutti coloro che, dall’interno delle istituzioni statali, rivendicano il compito di occuparsi in esclusiva delle cose dell’aldiquà.
Ma davvero i Cristiani (e la cosa vale per tutti i Cristiani, non solo per i Cattolici) devono pensare solo alle cose dell’aldilà e comportarsi come la maggioranza dei cittadini vuole per quelle dell’aldiquà?
La fede in un Dio, che si è rivelato, può davvero essere scissa da ciò che lo stesso Dio ha raccomandato di osservare nelle relazioni civiche con i propri simili?
E infine, la più angosciosa delle domande. Ma i Cristiani hanno davvero compreso bene ciò che il loro Dio ha raccomandato di osservare? O il Decalogo ha ormai per loro lo stesso valore, o anche meno, delle Costituzioni degli Stati e delle leggi che, via, via, vengono inventate e votate, come si usa dire, democraticamente?
Sembrerebbe di sì, a giudicare dai comportamenti di molti partiti, che si dichiarano essere “di ispirazione cristiana”.
Quando mi capita di parlare con alcuni miei amici Cristiani e chiedo loro in cosa essi pensino di essere diversi dagli agnostici o dagli atei, mi sento rispondere che loro “credono in un Dio creatore del mondo”, mentre gli agnostici sospendono il loro giudizio e gli atei non ci credono proprio.
Tutto qui? Davvero la differenza tra credenti e non credenti consisterebbe solo in questo atto di fede, che potremmo definire, primario?
A ben vedere, anche gli atei, quando si interrogano sull’origine dell’universo, sono capaci di un atto di fede primario.
Cito, come esempio, il crollo dell’idea di “universo stazionario”, cioè eterno e immutabile, che ha goduto di un certo consenso scientifico fino al 1964, anno della scoperta della “radiazione cosmica di fondo” da parte di Arno Penzias e Robert Wilson, per la quale i due scienziati furono insigniti del premio Nobel nel 1978.
La conferma dell’esistenza di una radiazione cosmica di fondo ha avvalorato la teoria del Big Bang, già ipotizzata precedentemente da alcuni fisici, che consente di fissare l’inizio del nostro universo con una precisione micidiale: 13.82 miliardi di anni fa. L’universo, intendo, così come riusciamo a coglierlo con i nostri sensi e la nostra intelligenza, teorica e applicata: strumenti scientifici, telescopi, satelliti eccetera, ha, come tutti noi, un’età ben definita.
Credere allora in un Dio creatore o in un evento fisico singolare, che sfugge alla nostra comprensione di causa-effetto, costituisce, in entrambi i casi, un atto di fede primario. Aggiungerei anche di pari legittimità.
A volte mi sento rispondere: ma il nostro atto di fede è supportato dal fatto che Dio si è rivelato attraverso Gesù, la cui esistenza storica, così come i suoi miracoli, sono ampiamente documentati!
Narra Giovanni nel suo Vangelo, a proposito della resurrezione di Lazzaro:
“Il morto uscì, con i piedi e le mani avvolti in bende, e il volto coperto da un sudario. Gesù disse loro: «Scioglietelo e lasciatelo andare». Molti dei Giudei, che erano venuti da Maria, alla vista di quello che egli aveva compiuto, credettero in lui”.
Molti, dice Giovanni, credettero in lui. Molti, ma non tutti, come sarebbe stato invece naturale attendersi quale conseguenza di questo evento spettacolare.
Questo la dice lunga su quanto poco possano i miracoli nell’evocazione della superiorità della propria fede.
E forse spiega anche il perché Gesù li abbia fatti solo quando si è trovato difronte ad atti di fede esemplari, e sempre per compassione, cioè per compartecipazione al dolore altrui, mai con l’intento di fare proseliti.
Davvero non c’è allora niente altro che distingua i Cristiani, qui, su questa terra, da chi non crede nel loro Dio?
Solo la diversità dell’atto di fede fondamentale, cioè quello che riguarda la Causa prima dell’inizio dell’universo, distingue i Cristiani dai non credenti?
No, non solo questa. C’è una differenza abissale che investe in pieno il modo dello stare insieme nella società civile.
Mentre i non credenti fondano il loro modo di relazionarsi su convenzioni frutto di un pensiero non confessionale, i Cristiani ottemperano, o dovrebbero ottemperare, a regole di vita terrena, dettate da un Dio creatore, che si è rivelato.
Se queste regole di vita terrena non sono state abbastanza bene indagate o sono state trasmesse con grossolana approssimazione, il rischio di confonderle con quelle votate estemporaneamente a maggioranza democratica (istituzionale o popolare che sia, non ha alcuna importanza) è grande.
E gravi sono le conseguenze di questa “conoscenza superficiale”, foriera di un’altrettanto grande “confusione ideologica”.
Per un cristiano queste regole di relazione con gli altri, sono da ricercare nel Decalogo, dove è elencato ciò che non si deve fare, e nel nuovo Testamento, dove viene invece indicato ciò che si deve fare.
Ma c’è di più. Poiché Gesù ha detto di essere venuto a completare la Legge, ma non a modificarla, deve essere preso molto sul serio in questa sua affermazione: ciò che si deve fare, per quanto nobile esso possa apparire, non può mai essere compiuto attraverso azioni che non si devono fare.
C’è dunque una diversità profonda sul modo di rapportarsi difronte alle leggi.
Per i laici la loro legittimazione proviene dalla volontà della maggioranza dei cittadini, anche quando questa autorizza il perseguimento di un fine nobile attraverso azioni ignobili. Casi esemplari sono la fiscalità e i servizi imposti: a fronte di obbiettivi, magari condivisibili, la proprietà privata, le libere scelte individuali e la volontarietà degli atti, la mutua assistenza, l’associazionismo, la ricerca di soluzioni concordate e finanziate con strumenti di azionariato diffuso, la decentralizzazione decisionale ecc. diventano vittime sacrificali di leggi non condivisibili, e ostaggio oggi di un voto e domani di un altro.
Per i Cristiani, la legittimazione delle leggi proviene dal loro rispetto integrale dei Comandamenti di Dio, che non possono essere mai violati, qualunque sia il fine, magari seducente, che esse cercano di perseguire.
Allo stesso modo esse devono garantire la libertà dei cittadini nel relazionarsi, nel sostenersi vicendevolmente e nell’intraprendere.
Esattamente come Gesù ha loro insegnato dal giorno in cui è venuto in questo mondo a completare ciò che non si deve fare agli altri con ciò che si deve fare agli altri.
In questo modo di procedere nella valutazione della legittimità delle leggi i libertari (quelli laici, intendo) sono un’eccezione mirabile rispetto a tutti gli altri laici.
Pur non avendo fede in un Dio Creatore, hanno però fede nell’esistenza di principi fondamentali (anche in quelli che magari devono essere ancora scoperti e catalogati), dal rispetto assoluto dei quali le leggi devono trarre la loro legittimità.
Per questo io amo dire che sono cristiano perché sono libertario e libertario perché sono cristiano.
Ma è proprio da qui che nasce quella conflittualità dei cristiani e dei libertari con i paladini del cosiddetto “diritto positivo”. Per i cristiani e per i libertari insieme, la democrazia, non solo quella rappresentativa, ma anche quella diretta, per quanto resa efficiente, non può essere l’ultimo sigillo ad ogni decisione, senza eccezioni.
Il problema c’è ed è, inutile nascondercelo, molto serio.
A riprova di questa difficoltà nello stabilire una convivenza pacifica tra cristiani e autorità statali, lo stesso San Paolo, siamo negli anni 57-58 dopo Cristo, in procinto di partire da Corinto per Gerusalemme, da dove spera di partire per Roma e di lì per la Spagna, si preoccupa, nella sua Lettera ai Romani, di non apparire come un sovvertitore delle leggi dello Stato e delle sue istituzioni. Invita a sottomettersi ai poteri civili, perché, scrive, non c’è autorità se non proveniente da Dio, e a pagare i tributi. Ma il tipo di “autorità voluta da Dio” a cui pensa Paolo ha una somiglianza sorprendente con la Forza comune a cui penserà Frédéric Bastiat 1’800 anni dopo: è un “autorità necessaria”, e per questo necessariamente “armata”, che opera entro i confini della difesa da ciò che non si deve fare, dunque della difesa da ciò che San Paolo chiama il male, quello che il Decalogo dice di “non fare”.
I governanti, scrive San Paolo, non sono da temere quando si fa del bene, ma quando si fa del male. Se fai il male, continua Paolo, allora temi, perché non invano essa (l’autorità) porta la spada (un’arma); è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male.
Quando l’Autorità, lo Stato, o la Forza comune che dir si voglia esonda dal solo compito di difendere i cittadini da coloro che fanno quello che non si deve fare cioè da quel male evocato da San Paolo, ed entra nella sfera del quello che si deve fare, la conflittualità tra lo Stato e i Cristiani, quelli, intendo, non disarmati ideologicamente, aumenta, perché ciò che si deve fare viene sottratto alla volontarietà degli atti e trasferito al costruttivismo impositivo di illusionisti e demagoghi di ogni genere e specie.
Il problema dei rapporti tra gli Stati e i Cristiani appare dunque ancora irrisolto (anche Cristo, non dimentichiamolo, fu ucciso dallo Stato di allora), per quanto la Chiesa cattolica, come istituzione, eviti oggi in ogni modo di collidere con gli Stati, anche a rischio di lasciare i Cristiani in balia degli statalisti di ogni partito, e fino a dare l’impressione di esserne lei stessa contaminata.
Una Chiesa cattolica, come dire, un po’ acquattata nella riserva delle religioni, dove lo Stato l’ha confinata, assieme ad altre chiese, che rischia di disperdersi intellettualmente e di far dimenticare quelli che furono, nonostante periodi obiettivamente oscuri della sua storia, i suoi innegabili meriti nel salvataggio prima e nello sviluppo poi della cosiddetta civiltà occidentale.
Occorre dunque che la Chiesa sappia affrontare con rinnovata energia i “cultori dello Stato tuttofare”, i quali sono abilissimi nella manipolazione e interpretazione dei testi evangelici allo scopo di etichettare Cristo come fa a loro comodo.
Esemplare, a questo proposito, la nota questione sulla legittimità o no del pagare il tributo a Cesare.
Prima di rispondere, Gesù volle essere certo dell’identità del proprietario della moneta che gli veniva mostrata. Cito brevemente il vangelo di Matteo. Egli domandò loro: di chi è questa immagine e l’iscrizione? (immagine e iscrizione).
Gli risposero: Di Cesare. Allora disse loro: Rendete (non date, rendete!) dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio. A queste parole rimasero sorpresi e, lasciatolo, se ne andarono.
Questa essenziale risposta di Gesù, coerentissima con il decimo comandamento: “non desiderare cosa alcuna del tuo prossimo”, è stata contrabbandata come il lasciapassare “sine die” per gli esattori di tutta la Terra, quando invece Gesù esortava semplicemente a rendere a Cesare quella moneta, che era di sua esclusiva proprietà (come inequivocabilmente dimostravano il sigillo e l’iscrizione) e che gli ebrei, in quanto sottomessi a Cesare, avevano solo in una specie di comodato d’uso.
Se la proprietà privata altrui è blindata dal decimo comandamento fino al punto che non la si deve, non dico violare, ma addirittura neppure desiderare, come si concilia allora il presunto diritto di tassazione, rivendicato da tutti gli Stati, con l’osservanza della volontà del Dio dei cristiani?
Ho coltivato la presunzione di poter rispondere a questo interrogativo con le mie sole risorse culturali e intellettuali.
Ma alla fine ho capito che l’impresa era per me assai temeraria.
A questo punto ho invitato a prendere la parola un amico teologo presente in sala, che ha sviluppato il tema dell’analisi della legittimità o meno della fiscalità, passandola alla lente dei testi biblici ed evangelici e raccogliendo alla fine l’ovazione del pubblico presente in sala.
*Introduzione all’intervento di un amico a INTERLIBERTARIANS 2016
Ho letto l’intervento del teologo.
Lo trovo molto interessante e molto ben articolato.
Un teologo libertario che denuncia le carenze della dottrina della chiesa cattolica fa un ottimo effetto.
Ma l’amico teologo ha un nome e un cognome?
Se i cristiani sono autorizzati ad usare la forza per far rispettare i comandamenti, perché solo alcuni, come non rubare, non uccidere? Seguendo il ragionamento sono autorizzati a farli rispettare tutti con la forza, per esempio non avrai altro dio, o non commettere atti impuri, o non bestemmiare o non desiderare la donna d’altri.. se l’autorità ha il compito di difendere i cittadini da chi fa quello che non si deve fare e questo è definito dai dieci comandamenti siamo lontanissimi da uno stato libertario..