Uno strano personaggio entra nella casa di Sam Lowry, impiegato del Ministero dell’informazione per riparargli illegalmente l’impianto di riscaldamento centralizzato. Non vuole essere pagato perché la sua è una missione, quella di libero professionista sovversivo, esercitata contro una società completamente burocratizzata e asservita al controllo totale di una casta di tecnocrati.
Tutto nasce quando una mosca morta produce un errore nella stampa di un nome: invece del sig Tuttle viene catturato, e subito condannato e giustiziato, il sig Buttle. L’affannoso scaricabarile con il quale gli uffici cercano di liberarsi della responsabilità dell’errore provoca una serie di reazioni a catena che sembrano mettere in difficoltà alcuni funzionari, con le conseguenze catastrofiche che ne derivano.
Quando infatti Sam (interpretato da uno smagliante Jonathan Pryce) va a visitare la vedova del signor Buttle viene a conoscenza di Jill, identica alla fanciulla che sogna. La storia di Sam che cerca la ragazza e quella di Tuttle che opera per disgregare il sistema si intrecciano strettamente finché Sam non viene catturato e portato nella camera di tortura per essere interrogato. Tuttle interviene e da qui si dipana un sogno che termina con la follia di Sam. Di Tuttle (un irriconoscibile De Niro con i baffi) non si sa più nulla, forse è finito inghiottito da un turbine di scartoffie.
La trama di quest’ultima parte è proprio il sogno, avvitato in più volute dentro sé stesso, al punto che non si capisce mai se Sam sta sognando o è il sogno che sta prendendo il sopravvento, se è il sogno che diventa incubo o l’incubo che sogna il volo nelle nuvole e l’amore.
Quel che è del tutto escluso è però che il sistema sia messo in crisi. Non c’è fuga dal sistema se non quella illusoria del sogno e per un brevissimo poetico istante d’amore, dal quale veniamo subito richiamati alla tragica realtà.
Terry Gilliam, unico americano del gruppo dei Monty Python, gira il suo capolavoro visionario e onirico nel 1985, un anno dopo il fatidico 1984, ma sembra passato un secolo dall’anno in cui è collocata la distopia di Orwell: non c’è più bisogno, infatti, come nel 1948, di spiegare il mondo nuovo, tanto è chiara a tutti la potenza del dominio che si sta dispiegando sulla società. Il mondo nuovo non ha bisogno di essere imposto, è già dentro di noi, tanto che ci si possono permettere l’ironia ed il grottesco ed i tocchi personali e delicati dell’amore e del sogno.
La messa in scena è sensoriale al massimo, con una corposità che mai si è più vista al cinema. L’ambientazione gioca magistralmente a creare un cortocircuito tra un futurismo barocco e abiti classici e retrò anni ’60, in una miscela che ricorda Arancia meccanica ma con più disinvoltura e potenza. A fronte della visionarietà totale dell’immagine, i dialoghi sono serratissimi e privi di sbavature e tengono lo spettatore con i piedi per terra, libero di sognare. Terry Gillian, in questo film, possiede completamente l’arte e con estrema totale sicurezza sforna un film senza accettare compromessi sulle potenzialità visive e narrative del cinema.
Una scena con una scalinata, un aspirapolvere che sobbalza scendendo i gradini ed un occhialino infranto da un colpo di fucile, le fila di soldati che scendono con passo cadenzato sparando disciplinati, dichiara scopertamente a quale mondo Gillian alludesse. Quattro anni dopo cadeva il Muro. Trentun anni dopo ci troviamo a pensare ad allora come ad un periodo di libertà.
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Gillian. Gilliam!