Fino agli anni ’80 inoltrati del secolo scorso, nessuna persona di buon senso, a domanda specifica, avrebbe risposto che la presenza di un apparecchio telefonico in ogni casa sarebbe stata concepibile senza una società di telecomunicazioni dello Stato.
Forse i più giovani non sanno che un utente SIP (cioè tutti) che avesse attaccato alla presa di casa un telefono non omologato (e se era omologato costava un botto), rischiava grosso.
Chi comprava un telefono combinato con memoria o funzione viva voce, chi acquistava una segreteria telefonica attivabile a distanza di marca xxx, non presente a catalogo SIP, e quindi non omologata, doveva nascondere il prodotto all’arrivo di un tecnico in caso di intervento sulla linea. Costui poteva (anche se non lo faceva) denunciare l’utente e la SIP aveva il potere di staccargli la linea, perchè le linee erano PROPRIETA’ DI UN ENTE PUBBLICO e ci si dovevano connettere SOLO i dispositivi certificati.
Quindi nella mente del popolo era marchiata a fuoco l’uguaglianza telefonia = stato. Meno male che non è più così. O forse è ancora così? Suggerisco qualche eguaglianza ancora vividamente marchiata nella cultura di massa partendo da quelle che nessuno oggi accetterebbe più.
TELEFONIA = STATO
VOLI AEREI DI LINEA = STATO
queste imposizioni non le accettiamo più, ma
STRADE = STATO
CURE MEDICHE = STATO
EDILIZIA LOW COST = STATO
ISTRUZIONE = STATO
TELEVISIONE = STATO
TRASPORTI URBANI = STATO
etc. etc. etc.
La logica dimostra che, così come si può telefonare senza Stato a costi più bassi e volare senza linea aeree di Stato a costi più bassi, si può fare TUTTO quello che la gente pensa necessiti della mano pubblica a costi più bassi e con maggiore efficienza.
Tutta colpa dello statalismo. Non solo quello marxista, non solo quello dei docenti ma dell’amministrazione in generale. La riforma di Gabrio Casati non era ispirata da Marx. Ma da Platone, Hobbes ed Hegel sì. E’ l’idea dell’obbligo in luogo del diritto a essere perniciosa. E’ il non voler raccontare la verità a costituire un atteggiamento volto alla dominazione degli altri, in modo tale da creare l’esercito di soldatini obbedienti pronti al sacrificio. E se questo sacrificio non è volontario per insufficiente propaganda, si passa alla coscrizione. Evidentemente gli orrori delle guerre mondiali non sono bastati per uscire dalla caverna statalistica. Si può essere rei confessi quando si afferma che una risposta la si temeva. La solita scarsa pratica all’onestà intellettuale, impone poi le rispostine tipiche di chi sentendosi criticato si dimostra intollerante all’esercizio di critica. Il problema non è l’atteggiamento infantile e tardosessantottino di chi si infastidisce alla peraltro legittima ma incompleta frase “tutta colpa dei comunisti”. Questi ultimi esercitano il loro dovere di tentare di impedire lo sviluppo del capitalismo. Sta ai sostenitori del capitalismo controbattere e quando non lo fanno sono molto più colpevoli dei marxisti. Me la prendo più con tanti ministri democristiani che hanno preferito barattare la verità con l’ora di religione. Me la prendo più con chi ha voluto e vuole un insegnamento confessionale all’interno di un’istituzione che dovrebbe essere super partes. Me la prendo di più con “Bettino” Musssolini e “Benito” Craxi che hanno firmato un cocncordato ciascuno. Me la prendo di più con chi ha voluto il concordato inserito nella carta costituzionale, Togliatti ma soprattutto Dossetti. Me la prendo enormemente di più con chi ha promesso una rivoluzione liberale per poi approvare finanziamenti a privati in luogo di una liberalizzazione completa dello studio. Devo riconoscere che l’autonomia degli istituti scolastici porta la firma dell’ex (ex?) marxista Berlinguer. Piena di italici errori anche quella ma con aspetti almeno intenzionalmente utili. Il catechismo marxista è stato più una conseguenza che una causa. E tutto sommato, prima che prendesse una deriva clericale, poteva anche avere qualche risvolto laicamente positivo sul piano del confronto interno tra le posizioni. Primo era tutto un piattume beghino con obbligo di preghiera iniziale e studenti di diversa confessione costretti a voltarsi. Prima ancora c’era l’inno al duce. Ora c’è un impasto di tutto e del contrario di tutto. E soprattutto di tutto inutile. Perché invece di accusare il presunto avversario politico di volere un popolo ignorante per meglio governarlo, qualcuno dovrebbe guardarsi dentro e chiedersi se non sia lui stesso a praticare questo nefasto esercizio e a non osservare meglio il proprio album di famiglia. Del resto, lo consigliava Luciana Castellina sul foglio marxista il Manifesto, non certo qualcuno che dà sempre tutte le colpe di tutto ai comunisti.
Purtroppo no. I professori marxisti/comunisti/socialisti/collettivisti (o con qualsiasi epiteto si vogliano chiamare) sono solo il mezzo non la causa. La causa è lo Stato.
Senza lo stato professori che decidessero di raccontare le corbellerie sopra descritte verrebbero cacciati a calci dalle scuole prima (tutte private) e presi a calci dai genitori poi (che non si troverebbero ad essere stati lobotomizzati a lo volta da piccoli dai suddetti figuri).
Grazie. Ho avuto la risposta che temevo e aspettavo: tutta colpa dei professori marxisti.
Quando ho studiato erano gli anni ’70 del ventesimo secolo, i peggiori sotto l’aspetto culturale e della tolleranza politica. Un esempio eloquente è quello dei racconti fantascientifici sulle cause della crisi del 1929. Insegnanti e libri di testo si ostinano a ripetere il mantra della crisi del capitalismo, del “mancato intervento pubblico”, delle tasse troppo basse ed altre sciocchezze. Nessuno che dica la verità sul ruolo interventista della banca federale statunitense, dell’altrettanto interventista atteggiamento di Wilson e dei suoi successori (anche repubblicani), dell’ingerenza delle banche centrali europee e via dicendo. Altri esempi si potrebbero portare sulla guerra civile spagnola, sulla Nuova Politica Economica di Lenin, sulle dittature europee che vengono chiamate fascismo, nazismo e “stalinismo” perché è vietato considerare il comunismo come una dittatura. Per poter fingere che con Lenin e i successori di Stalin, la Russia fosse libera. Non mi pare che i libri di storia riportino le stragi compiute da Nino Bixio e da altri cialtroni come lui nell’Italia del sud e non solo del sud. La dichiarazione Balfour viene ignorata, sul nome del partito di Lincoln si sorvola, le foibe le hanno scoperte a Unione Sovietica implosa. Per non parlare dei comizi ai quali i nostri studenti assistono in lezioni che dovrebbero essere super partes. Quando poi si spacciano Rousseau e Hegel come filosofi della libertà, si passa il segno. Ma forse lo si passa semplicemente considerando Hegel filosofo, così come Kelsen giurista e soprattutto Keynes economista.
Caro Colla non Ti preoccupare. Non sei affatto logorroico. Hai fornito degli spunti di discussione piuttosto interessanti. Non vederla come una scortesia: ti chiedo quando Tu hai studiato. Io che, ho quarant’anni, e che ho sempre studiato alla scuola pubblica dalla materna fino all’università non sono mai stato indottrinato all’unità d’Italia e penso anzi che non di unità si possa parlare ma di annessione delle regioni meridionali ad uno staterello posto al confine con la Francia ( i manuali su cui ho studiato erano estremamente critici, non mi è stata mai letta una pagina di “Cuore) . Solo un esempio per provare a mettere in discussione il presunto indottrinamento che si pratica nella scuola pubblica.
Non capisco se quel “vi saranno” dei criteri oggettivi sulla valutazione, sia un auspicio per il futuro oppure una certezza per il presente. Il criterio è quello di rivolgere domande alle persone. L’istruzione è bassa, ciò risulta evidente nei colloqui di lavoro così come nelle conversazioni senza altro fine che il dialogo stesso. Dai racconti degli studenti come dalla visione di libri di testo scelti dagli insegnanti, si evince che non si produce istruzione ma catechismo. Per formare schiere di soldati obbedienti, disciplinati e fieri avversari degli evasori fiscali. Chi ama il livello di istruzione attuale è logico che non gradisca la rottamazione. Sul suggerimento di modelli alternativi, conoscendo quanto il sottoscritto sia logorroico, si rischia di abusare della pazienza dei lettori. Considerando anche che un tema del genere richiederebbe un testo di centinaia di pagine. Il problema non è il modello migliore di quello italiano andandolo a cercare all’estero. Ci sono modelli leggermente migliori, quasi tutti. Ad esempio nel tanto odiato mondo anglosassone, ma non solo. In campo accademico sceglierei la Lituania. Il problema è proprio tra pubblica e privata, altro che “pubblica o meno”. La vera questione è nei contenuti. Il modello di chi sogna un’istruzione autentica si basa sull’abolizione di pormozioni e bocciature; di valori legali dei titoli; di obbligatorietà alla frequenza. Siano le università a stabilire i loro criteri di ammissione ai loro corsi. Separazioni delle carriere e delle funzioni, non solo in magistratura. Non è la stessa persona che mi ha istruito a dovermi valutare, l’allenatore non può essere arbitro. La lettura può e dovrebbe essere appresa a tre anni di età. Più brevità nei corsi, basta far perdere tempo agli studenti che inizieranno a lavorare sempre più tardi e non potranno così andare mai in pensione. Considerazione di ciò che serve veramente per un’istruzione di base. Basta con i corsi obbligatori di tutto, dalla musica al teatro, dalla danza alla fotografia, dallo sport al non si sa che altro perché “tutto è cultura”. In realtà è perché tutto è cattedra e così lo studente sta sedici ore a scuola. Quando trova il tempo per studiare e per avere una sua vita personale? Il cretino risponde “basta organizzarsi”. Ma soprattutto il modello da suggerire è quello della verità storica e filosofica. Affermare che il revisionismo sia un fenomeno negativo significa sostenere il negazionismo. Senza i revisionisti non avremmo conosciuto la verità su Bronte, su Nino Bixio e altri “patrioti” alla Bava Beccaris. La censura sull’esistenza di personaggi come Aleksander Helphand detto Parvus o come Jacob Schiff, finanziatori di Lenin e della restaurazione d’ottobre (sì, restaurazione; la rivoluzione ci fu a febbraio e con Lenin tornò la tirannia) non è certo un modello ispirabile. Attribuire a una certa area la difesa degli oppressi, significa negare che Lincoln era repubblicano e i razzisti democratici. E non solo allora se ci si ricorda di un certo Wallace. L’enfatizzare l’autodeterminazione dei popoli e poi negare il diritto alla secessione in nome dell’unità d’Italia “per la quale ci siamo battuti” (ci siamo? io no.) vuol dire disprezzare sfacciatamente la logica. E soprattutto la coerenza, nonché quel senso critico che dovrebbe essere alla base di ogni istruzione e che solo agendo come i cardinali con Galileo si può non ammettere che stia mancando sempre di più all’interno dell’opinione pubblica. L’ignorare Bastiat, Say, Turgot e tanti altri a vantaggio di Hegel, significa ignorare Gorgia, Democrito, Antistene, Zenone ed Epicuro a vantaggio di Platone o tutt’al più di Aristotele. Far credere che le cause della crisi del 1929 siano da imputare alla riduzione del peso fiscale, sginifica disinformare consapevolmente. Nascondere autori e scuole di pensiero alternative alla sciocchezza appena citata, non è certo un contributo alla divulgazione culturale. Se si crede che esista solo Kelsen e non anche Bruno Leoni, significa voler giustificare le peggiori abiezioni “legali”. Non si tratta di contropropaganda. Si tratta di mettere a confronto tutte le scuole di pensiero. Chi leggerà e ascolterà sarà poi in grado di valutare, di scegliere. Ed è forse questo che preoccupa molti. Quando presiedo un seggio elettorale non pubblicizzo una lista; se un elettore mi chiede lumi, gliele mostro tutte. A qualcuno il paragone potrebbe sembrare banale: vuol dire che questo qualcuno non conosce il modus operandi di un ruolo super partes. Ruolo che non può essere svolto da tutti, certo. Ma il motivo risiede nella diversità fortunatamente insita in ognuno di noi. Diversità che sicuramente provocherà fastidio a chi ritiene che ogni “homo” sia “aequalis”.
Vi saranno dei criteri oggettivi per valutare la qualità del lavoro degli insegnanti e dei parametri che consentono di giustificare un’ affermazione così drastica. Non credo che la scuola italiana sia da rottamare ma poniamo che sia vero. Colla potrebbe suggerire dei modelli di scuola, pubblica o meno, migliori di quella italiana.
Ovviamente, per vittime della scuola pubblica si intendono in primo luogo gli studenti che la frequentano e le loro famiglie. In parte anche alcuni inseganti, pochi in verità, che si trovano lì solo perché in Italia non esiste un mercato autentico dove potrebbero svolgere mansioni più qualificate. E anche più interessanti oltre che meglio retribuite. Gli studenti sono vittime perché pagano senza avere un autentico sapere in cambio. I pochissimi docenti preparati, lo sono perché il divieto loro imposto de facto (ma a volte anche de jure) a trasmettere il sapere finisce per alienarli e mortificarli. Per poi vedere che diversi peggiori di loro intraprendono carriere dirigenziali o in alcuni casi, penso al settore artistico, accademiche.
Cosa si intende per vittime della scuola pubblica?
In senso altrettanto scherzoso si è risposto sulla sacralità, come testimoniano anche le virgolette usate. Più che pensare che dei testi siano sacri, si può ritenere che siano i libertari a dare un’aurea di sacralità ai testi in questione. Per noi di sacro c’è solo la libertà, i testi sono un utile medium. Dove non c’è concorrenza perché esiste un regime di concessioni vuol dire che il mercato è falsato. Se si hanno concessioni pubbliche in esclusiva, si spiega il motivo del cattivo servizio. Si ammette, dunque, che le carenze erano causate da mancanza di concorrenza ma le suddette carenze non vengono certo eliminate con la creazione di un gestore unico obbligatorio e di proprietà pubblica. Quest’ultimo è utile a chi vuole ricattare la popolazione: o ti assoggetti o ti taglio le fonti energetiche. Il tiranno non si smentisce.
Testi sacri è un’epressione che si usa anche, in senso scherzoso.
Pensate davvero che io pensi che i vosti testi di riferimento siano sacri? Suvvia?
Prima dell’ENEL e dalla SIP non c’era concorrenza. Ogni operatore godeva di una concessione in esclusiva in ambito locale.
Anche sulla domanda relativa a come sia avvenuto il processo di liberalizzazione della telefonia mi sembra che manchi la coerenza. Giustamente si parla di “cosiddetta” liberalizzazione. Ma è proprio perché è incompleta che non tutto funziona a meraviglia. Proprio per direttive nazionali e comunitarie il gruppo Telecom, formato da amici dei governanti, ha avuto una posizione di privilegio. O come direbbero quelli che negano di aver attuato favoritismi, una “posizione dominante”. Se queste direttive continuano anche a favorire operatori statali, che c’entra il mercato? Come ci si può lamentare del mercato se poi si riconosce che la colpa delle distorsioni è dell’intervento pubblico?
Nel mondo libertario i “testi” somo sempre rivedibili e “revisionistici”, non c’è nulla di sacro. E’ dal 1976, anno nel conseguimento della mia maggiore età, che mi occupo di ironia a scopo di pubblico pagante. Che quel “ricca” fosse di facile comprensione non mi ero accorto. E’ probabile che stia invecchiando, non escludo che a causa di insulsaggini spacciate per spettacolo (dalla radiofonica “Alto Gradimento” in poi, per intenderci), l’abbassamento complessivo del senso critico possa portare a dare per scontata la presenza di un elemento ironico senza adeguato contesto scenico – letterario. Ma non è il problema principale: quest’ultimo è costituito da due condizioni: la logica e la coerenza. Partiamo dalla prima. Se viene utilizzata in compagnia di dati statistici in campo storico – economico, il risultato che ne consegue è la scoperta della difficoltà di trovare una zona in perdita se non per cause fiscali o di intervento pubblico inficiante l’operatore zonale. Mi è un po’ oscuro l’italiano del “si compensi la perdita l’operatore A”. Ma non esiste il “se altre aziende non investono in zone povere”. A parte il fatto che se ci sono le zone povere è sempre colpa di chi rende povero, cioè lo stato con la sua burocrazia fiscale e amministrativa; non c’è motivo per un’azienda di non investire dove nessuno è arrivato prima. Non c’è perdita senza l’interventismo pubblico. Altrimenti il probelma non è quello di nuovi investitori ma dell’operatore A. Perché ha investito se la zona è povera? Se va in perdita per motivi non legati alla tassazione ma per incapacità imprenditoriale, fallirebbe anche nelle aree più remunerative. Ammesso che lì non trovi già operatori che sono riusciti a soddisfare la domanda. E se uno perde mercato nelle zone remunerative a causa delle tariffe più basse degli altri, non so quanto gli convenga abbandonare la zona povera dove potrebbe esercitare un monopolio naturale. Quando si dice “se altre aziende non investono” è come dire “se nessuno apre un negozio di abbigliamento”. Senza ostacoli nessuno “non aprirebbe” per scelta. E se proprio non succede, qual’è la conclusione? Aprire l’abbigliamento di stato? Certo: se nessuno intraprende guerre, lo stato non ha alternativa che intraprendere lui questa nobile attività. Ma è uno dei motivi che porta l’aspirante esercente a non diventare tale. In ogni caso, la presenza del fisco rende povero anche il consumatore. Quindi il problema della scarsità di clientela è legato alla spoliazione delle rendite, non alla povertà in senso astratto. Sulla seconda convinzione, la coerenza, mi sembra che ci si dia facilmente quanto involontariamente torto. Intere frazioni senza corrente elettrica dieci anni dopo la nazionalizzazione. Quindi, il fallimento delle nazionalizzazioni. Se non si fosse creato un ente monopolistico con il danaro dei contribuenti per dare poltrone e laute prebende agli amici, non ci sarebbe stato il fallimento dei piccoli fornitori. Fallimento avvenuto a causa dell’unica possibile concorrenza sleale. Quella dello stato che non ha rischiato capitali propri, a differenza dei titolari o degli azionisti delle citate aziende. E senza quella serie di fallimenti indotti, dallo stato e non dal mercato, quelle frazioni avrebbero aspettato solo dieci mesi. Non dieci anni.
Com’è avvenuto il processo di cosiddetta liberalizzazione della telefonia? Dal basso? O attraverso direttive comunitarie che hanno favorito operatori statali di Paesi leggermente più potenti di altri?
Ricca era in senso ironico, e anche di facile comprensione.
Senza fisco, non esisterebbero zone non redditizie? Certo! Se una zona è in perdita, come pensi che si compensi la perdita l’oparatore A? Dalle aree più remunerative. Però, se altre aziende non investono in zone povere, non avranno bisogno di compensare e praticheranno tariffe più basse, costingendo A a un bivio: o perde mercato nelle zone remunerative o abbandona la zona povera.
Quando non c’era il monopolio ENEL, esistevano piccole società che fornivano il servizio elettrico anche in zone poco appetibili. E’ vero, al nord sono arrivate prima che al sud ma anche le mercerie hanno avuto precedente sviluppo in settentrione rispetto al meridione
Non c’erano le mercerie, ma altri tipi di negozi.
Fino agli anni ’70, dieci anni dopo la nazionalizzazione, c’erano intere frazioni in Provincia di Napoli, quindi zone abitate, in cui la corrente elettrica non arrivava.
La soluzione non sta nel condominio tra operatori, che può anche esserci se avviene spontaneamente e non per obbligo di legge. Giustizia vorrebbe che proprietari e usufruttuari di abitazioni e terreni fossero anche di diritto proprietari del sottosuolo, delle linee di trasmissione aerea e di tutto quanto concerne la logistica per la funzionalità del servizio
Il condominio è una delle soluzioni, non l’unica. Però, mi sembra la più probabile: due o più operatori che decidono di suddividere le spese per la costruzione e la manutenzione.
@Vincenzo
Tanto per capire, lei è sempre quello delle scarpe celesti che il mercato non offre? Cioè la stessa persona parla di scarpe ‘celesti’ e di ‘ricca offerta sip’? Ma la coerenza nel sostenere i propri argomenti è forse diventato un optional?
Evidentemente, non ho letto nei vostri sacri testi il divieto di ironia. E dire che era anche banalissima.
“Ricca” offerta SIP? Ma quale? Gli apparecchi erano quasi tutti uguali. E poi perché deve esserci un monopolista dell’offerta? Sì, un privato potrebbe impiantare reti in zone poco redditizie e senza aiuti pubblici. Se non lo fa non è perché manchino “gli aiuti” ma perché quello che potrebbe guadagnare se lo intasca il fisco. Senza quest’ultimo le zone poco redditizie non esisterebbero. Come non è mai esistita da nessuna parte del mondo, non esiste tuttora e mai esisterà una mancanza di concorrenza “in nome del mercato”. E’ come sostenere una mancanza di respirazione in nome dell’ossigeno. Se non respiro è perché lo stato l’ossigeno me lo toglie, non perché me lo offre. Dove la concorrenza del fisso non esiste, evidentemente lo stato o continua a gestire la rete o favorisce rete e servizio alla Telecom in nome di una politica mercantilistica e favoritistica; cioè la negazione del mercato. La soluzione non sta nel condominio tra operatori, che può anche esserci se avviene spontaneamente e non per obbligo di legge. Giustizia vorrebbe che proprietari e usufruttuari di abitazioni e terreni fossero anche di diritto proprietari del sottosuolo, delle linee di trasmissione aerea e di tutto quanto concerne la logistica per la funzionalità del servizio. Se non c’è il servizio telematico è perché ci sono disincentivi legislativi di tipo fiscale, burocratico, amministrativo e giuridico che impediscono a qualcuno di guadagnare e conseguenzialmente di intraprendere le attività che potrebbero fornire il servizio. Quando non c’era il monopolio ENEL, esistevano piccole società che fornivano il servizio elettrico anche in zone poco appetibili. E’ vero, al nord sono arrivate prima che al sud ma anche le mercerie hanno avuto precedente sviluppo in settentrione rispetto al meridione. “Qualcuno”, non il mercato, ha portato quelle società al fallimento grazie a politiche interventiste volutamente disincentivanti. Quel “qualcuno” spacciò l’operazione come un intervento a favore delle zone prive di elettricità, dove invece il servizio c’era. E se qualcuno notava l’incongruenza si rispondeva che comunque quelle società erano destinate al fallimento perché operavano in zone “poco redditizie”. Non perché i governi interferivano per poter creare un carrozzone clientelare! Quel qualcuno ha anche un nome, anzi due: Pietro Nenni e Amintore Fanfani. Di bufale storiografiche ne conosciamo abbastanza. Su questa è stata prodotta, purtroppo, scarsa letteratura.
Il telefono non lo compravi ma dovevi noleggiarlo, scegliendo tra la ricca offerta SIP.
In nome del monopolio, sono stati commessi parecchi abusi, non c’è dubbio, come tariffe interurbane astruse, che scattavano tra comuni confinanti o la famigerata TUT.
Però, chiedetevi, un privato avrebbe impiantato reti in zone poco redditizie, senza aiuti pubblici?
Ci sono zone d’Italia, in cui la concorrenza nel fisso non esiste, non per qualche legge dell’odiato Stato, ma in nome del mercato. C’è da dire che non hanno neanche l’ADSL.
Per la privatizzazione, sarebbe stata auspicabile, come minimo, una separazione tra reti (pubblica, o, quanto meno, in condominio tra gli operatori) e servizi.
Si può fare tutto? Con l’istruzione si deve. E’ il lucchetto ancora presente che impedisce la selezione cerebrale delle vittime della scuola pubblica. E’ vero che con la privatizzazione telefonica è stato volutamente favorito il gruppo Telecom. Ma comandavano i… Prodi – toriamente nemici delle privatizzazioni. Anche questo gli studenti non lo sanno. Molti insegnanti nemmeno e quelli che lo sanno non lo dicono agli studenti.
Dr. Gargaglione quella foto non è rappresentativa degli anni ’80. Ha dimenticato il lucchetto! Il lucchetto sul disco selettore chi se lo ricorda? E la terribile teleselezione…
E’ l’esempio che faccio sempre quando mi dicono che certi servizi tolti allo stato e affidati al mercato costerebbero troppo e potrebbero permetterseli soltanto i ricchi e i privilegiati. Rispondo: ma voi li ricordate i lucchetti ai telefoni?