“Andreotti disse che a pensar male si fa peccato ma ‘spesso’ ci si azzecca. Lei usa dello stesso concetto con parole più forti, ma chiude dicendo che ci si azzecca ‘quasi’ sempre. Io sto risolutamente dalla parte lasciata libera dallo ‘spesso’ e dal ‘quasi sempre’. L’idea che dopo qualche decennio in cui il risparmiatore abbia ottenuto magrissimi frutti dai suoi risparmi, il destino cinico e baro faccia balzare l’inflazione a due cifre, decimando così il potere d’acquisto del gruzzolo investito, non mi sembra realistica. Forse la determinante principale del tasso di inflazione sono le aspettative, e, una volta che queste aspettative, dopo numerosi lustri di bassa inflazione, siano saldamente ancorate verso il basso, non credo sia possibile che i prezzi ricomincino a salire a due cifre. E se questo, per qualche incidente, dovesse principiare a succedere, le Banche centrali sarebbero leste a spingere l’inflazione di nuovo verso il basso. Insomma, a pensar male si fa peccato, ma qualche volta ‘non’ ci si azzecca”. (F. Galimberti)
Un lettore del Sole 24 Ore ha scritto a Fabrizio Galimberti, avendo il sospetto che tutta questa storia sulla mancanza di inflazione (intesa come crescita di un indice di prezzi al consumo, che in realtà è una conseguenza dell’inflazione, ossia dell’espansione monetaria) di cui tanto si sente parlare rischi di rivelarsi una fregatura per coloro che investissero oggi il loro denaro in titoli di Stato a lungo termine. Basterebbe un aumento dell’inflazione per ridurre il valore reale del debito pubblico, ma anche dell’investimento fatto oggi. Il lettore paventa un ritorno a crescite dei prezzi al consumo a doppia cifra, ma per rendere negativo il rendimento reale basterebbe molto meno.
Galimberti parte citando Andreotti, e qui devo precisare che, ancorché quelle parole siano comunemente attribuite ad Andreotti, a me è capitato di leggerle in un articolo di Henry Louis Mencken scritto nel 1916, ossia tre anni prima che Andreotti nascesse.
Ciò premesso, Galimberti cerca di rassicurare il lettore che i prezzi non torneranno a crescere a doppia cifra, anche perché le banche centrali lo impedirebbero con politiche monetarie restrittive. Posso anche concordare che oggi lo scenario di crescite dei prezzi simili a quelle di 30-40 anni fa appaia poco probabile, ma per far perdere soldi a chi investe in titoli di Stato a 10-30 anni basta molto meno.
Oggi un BTP a 10 anni rende meno dell’1.5% lordo, mentre un BTP a 30 anni rende circa il 2.6% lordo. In base alle attuali aspettative sull’andamento dei prezzi al consumo, i rendimenti reali lordi sono pari a 0.7% per il decennale e 1.1% per il trentennale. Ciò significa che le aspettative di inflazione sono ben sotto l’obiettivo del 2% annuo che persegue per statuto la BCE.
Ma con rendimenti nominali lordi come quelli correnti, basta in realtà che la BCE riporti l’inflazione al suo obiettivo statutario per far perdere soldi a chi investe in un decennale, erodendo anche significativamente il rendimento reale di chi investe in un trentennale. Ovviamente se l’inflazione attesa (non necessariamente quella corrente) si riportasse ai livelli target della BCE, i prezzi di mercato dei BTP ne risentirebbero.
Se poi, come molti keynesiani auspicano (lo stesso Galimberti flirta con l’idea) per qualche tempo la BCE “tollerasse” una crescita dei prezzi al consumo anche del 3-4% annuo, allora la perdita per chi investe oggi sarebbe consistente.
Il tutto senza considerare che i livelli di rendimento attuali sono notevolmente distorti dalla politica monetaria della BCE stessa. Quando lo spread tra BTP e Bund tedeschi, a cavallo tra fine 2011 e metà 2012, era oltre 500 punti base, i conti pubblici italiani non erano messi peggio di oggi. Il deficit era attorno al 3.5% del Pil, e oggi è migliorato di meno di un punto; il debito, invece, era al 116% del Pil, mentre oggi supera il 133%.
Considerando che tagli di spesa pubblica non ne vengono fatti, se non in misura risibile, che le dismissioni di patrimonio pubblico vanno altrettanto a rilento, e che aumentare ulteriormente la pressione fiscale farebbe stramazzare ciò che resta del sistema produttivo italiano, l’unico modo per ridurre il debito, quanto meno in rapporto al Pil, consiste nell’avere una crescita nominale del Pil superiore alla crescita del debito stesso.
La compressione artificiale dei tassi di interesse aiuta lo Stato (penalizzando il risparmio, ovviamente), ma non può essere eterna, mentre la crescita reale del Pil è frenata sia da un mix di statalismo e fiscalità opprimente, sia da una demografia in calo.
Per aumentare la crescita nominale del Pil non resta quindi che una maggiore inflazione. Ovviamente chi governa si limita ad auspicare che torni al 2%, ma in cuor suo suppongo non si straccerebbe le vesti se andasse anche qualche punto oltre. Qualche punto che verrebbe spacciato come non problematico, ma che danneggerebbe e non poco chi oggi investe in BTP a lunga scadenza.
In conclusione, i sospetti del lettore sono più che giustificati.
Una disamina perfetta.
Gli inflazionisti tentano il colpo, ma mi pare di notare che i loro programmi non andranno a buon fine.
Si sono incartati senza rimedio.
E’ un mondo fragile in attesa dell’evento scatenante.