“La timidezza delle banche centrali – quelle grandi, perché le piccole non hanno esitato a tagliare in modo aggressivo – è legata al fatto che gli effetti collaterali possono essere tanti e potenti. Con una politica ultraespansiva, ha recentemente spiegato la Banca dei regolamenti internazionali (da sempre poco convinta da quantitative easing e tassi negativi), i mercati finanziari si concentrano più sulla politica monetaria che sull’economia reale, le quotazioni vengono distorte, le compagnie finanziarie vedono erodere il loro modello di business – anche se si stanno immaginando nuovi prodotti – i governi sono disincentivati nel risanamento fiscale e, soprattutto, si alimenta la disillusione sul potere della politica monetaria”. (R. Sorrentino)
Commentando la mossa a sorpresa, e abbastanza disperata, da parte della Banca del Giappone di introdurre tassi di interesse negativi, Riccardo Sorrentino sostiene che le grandi banche centrali abbiano finora agito con timidezza. In effetti alcune banche centrali, per esempio in Svizzera, Danimarca e Svezia, hanno portato i tassi in territorio negativo più aggressivamente della BCE, ma giudicare timide le grandi banche centrali (Fed, Bce e BoJ) mi pare davvero fuori luogo, considerando la enorme quantità di base monetaria creata dal nulla dal 2008 a oggi.
E sono indubbiamente condivisibili le osservazioni della BRI, che in effetti ha un atteggiamento critico nei confronti di una politica monetaria così espansiva già da diversi anni.
Lo stesso Sorrentino riconosce che la politica monetaria ha “rendimenti decrescenti”. In altre parole, come qualsiasi droga finisce per dover essere somministrata in dosi sempre maggiori e per avere effetti di “sollievo” sempre meno durature. Ovviamente danneggiando in misura crescente la salute di chi la assume.
Tuttavia sostiene che probabilmente bisognerebbe fare di più.
“Per ottenere risultati occorrerebbe probabilmente fare molto di più, con un occhio agli effetti indesiderati ma un altro fisso sulle aspettative. Da un punto di vista astratto – ricorda una recente ricerca di Harriet Jackson per la Bank of Canada – i tassi d’interesse di mercato, e quindi non solo quelli ufficiali che coinvolgono le banche e poche altre compagnie finanziarie, possono arrivare fino a un limite del -2%, anche se la stima è circondata da molta incertezza. Un -1% è forse un livello più sicuro: è difficile infatti che i costi, e il rischio, di detenere banconote al posto dei conti correnti siano più bassi (anche se molto dipende dal taglio massimo dei biglietti). In Eurolandia, per esempio, è stato calcolato che il costo sociale delle banconote è del 2,3%, in Danimarca del 3,8%. Due numeri che forniscono in astratto un limite minimo.”
Trovo sempre stupefacente con quanta disinvoltura si parli di tassi di interesse di mercato in un contesto nel quale il mercato stesso è pesantemente condizionato e distorto dalla politica monetaria. Senza l’intervento delle banche centrali è assai improbabile che avremmo visto tassi di interesse negativi, eppure da un paio di anni sono sempre più numerosi gli studi che cercano di quantificare quale sia il limite minimo al quale possono essere spinti i tassi di interesse. Credo che spesso si finisca per perdere di vista il concetto stesso di tasso di interesse.
Ma perché, poi, dover accettare un limite al ribasso? Ecco cosa ripescano i manipolatori del denaro dal passato:
“Oltre quel livello non è inoltre impossibile andare: ma potrebbe essere necessario vietare l’uso dei contanti – una tendenza comunque in corso, all’estero – oppure tassarne il possesso, non diversamente da quanto proponeva cento anni fa l’economista anarchico Silvio Gesell, lodato da Irving Fisher e John Maynard Keynes… Non sono, queste ipotesi, fughe in avanti: i tassi negativi non sono più un esperimento. La Nippon Ginko ha appena iniziato la sua esplorazione, la Bce ha lasciato intendere che potrebbe tagliare ancora. È un processo che potrebbe richiedere molti cambiamenti strutturali delle economie e forse l’adozione di nuovi regimi monetari. È – per esempio – ancora adeguato in questa situazione l’obiettivo di inflazione (non il suo livello, che non può essere modificato senza danneggiare la credibilità della politiche monetaria, ma proprio lo stesso aggregato)? L’economia ha bisogno di prezzi più alti o piuttosto di domanda nominale (e quindi un pil nominale) più elevato?”
Addirittura Silvio Gesell, che fino a qualche tempo fa era preso in considerazione solo dai più grossolani fautori della velocizzazione forzata della circolazione della moneta.
Quanto alla distinzione tra inflation targeting e obiettivo sul Pil nominale, se l’indice di prezzi utilizzato per calcolare l’inflazione fosse sufficientemente ampio (in realtà è sempre e comunque arbitrario), non vi sarebbero sostanziali differenze tra i due obiettivi.
Ma se il Pil nominale crescesse in virtù di un aumento dei prezzi, come è possibile sostenere che si tratterebbe di ricchezza reale? Dovrebbe essere evidente a chiunque che si tratterebbe solo di una variazione nominale, con annessi effetti redistributivi sulla ricchezza reale.
Se l’ossessione è davvero quella di ottenere i prezzi al livello desiderato, non mi meraviglierei, uno di questi giorni, di sentire qualcuno proporre che lo Stato fissi direttamente per decreto i prezzi di tutti i beni compresi negli indici di riferimento. Ovviamente il sistema economico imploderebbe, ma suppongo che anche in quel caso sentiremmo dire che “occorre fare di più”.
Siamo sicuri che Irving Fisher fosse di quel parere?
Che strano anarchico Silvio Gesell che voleva tassare il contante. Un anarchico che vuole le imposte. Quand’è che avremo sacerdoti che predicano l’ateismo? O cattolici che contestano il primato di Pietro?