Vorrei provare a fare un discorso serio, ben conscio che ciò non scalfirà minimamente le granitiche certezze dei più. Un quarto d’ora sì e uno no il sottoscritto si becca la qualifica di “utopista”.
Spesso, il che è spassoso, gli viene attribuita da persone con cui sono più le considerazioni che ci vedono concordi che i punti di disaccordo. Perchè?
Perchè parlare dello stato, e di una società senza stato (dico parlare, non vagheggiare) è considerato un tabù. E’ un atteggiamento umano, troppo umano, ragionare per tangenti: si considera la situazione attuale, quotidiana, non solo eterna e immutabile, ma anche ineluttabile. Esiste lo stato?
Automaticamente si è portati a pensare che sia sempre esistito. E potremmo andare oltre: esistono le tasse? Esiste la scuola pubblica? Esistono gli ospedali pubblici? Esiste la polizia di stato? Esiste la magistratura di stato? E’ sempre stato così. Questo, innanzitutto, è storicamente falso: non è affatto stato sempre così. In secondo luogo, lo stato moderno è una istituzione con precise e peculiari caratteristiche, il cui concepimento è sorto in Francia nel ‘700, e che (malauguratamente) si è poi imposta ovunque.
La principale caratteristica dello stato moderno è la concentrazione del potere politico in un unico punto. Ora, pensare che un libertario anarcocapitalista aspiri ad una società di selvaggi, senza regole e in cui ognuno possa fare ciò che gli pare e magari a scapito del suo prossimo è semplicemente stupido, e deriva dal semplicissimo fatto che si è ignoranti rispetto al pensiero liberale in primo luogo, e libertario (che è uno sviluppo logico e coerente del pensiero liberale classico: essere liberi DA, e non essere liberi DI).
Quello che un anarcocapitalista contesta è che debba esistere un qualcosa di “più importante” rispetto all’individuo, e che quindi sia necessaria la presenza di un monopolista dell’uso della forza che non tutela affatto la persona (e la persona E’ la sua proprietà), ma presunti quanto inesistenti interessi superiori, quelli della comunità (che retoricamente prende i nomi di patria, nazione, società, classe e astrazioni varie).
Il libertario pensa che le comunità di persone debbano essere volontarie, e che difendere l’individuo da qualsiasi aggressione (ad esempio dalla stessa comunità, falsamente identificata nello stato) sia difendere tutti. E’ la società stessa che crea le regole per una civile convivenza, spontaneamente e facendo riferimento agli usi e alle consuetudini. La legge e il Diritto non nascono storicamente nello stato, così come altre mille istituzioni (si pensi alla moneta): sono istituzioni sociali spontanee, come la lingua che si parla e si modifica continuamente e spontaneamente, non sono state create da un legislatore o da un pianificatore socio/economico.
Oggi tutto rientra nelle competenze e nella pianificazione dello stato. Il libertario pensa che ciò sia immorale e criminale.
Ora pongo una domanda: è più utopico pensare ad una società senza stato (aspirazione ideale), e quindi da un punto di vista pragmatico muoversi per togliere potere e competenze allo stato per restituirle alla società, e quindi alla libera iniziativa delle persone, o ritenere che ciò che è lo stato moderno dipenda esclusivamente dalla sfortuna di avere cattivi politici, e che sostituiti questi con persone migliori tutto quanto detto sopra non rimanga un problema enorme, grande quanto una montagna per la libertà individuale?
E’ più utopico pensare ad una società senza un monopolista dell’uso della forza, ma con una moltitudine di istituzioni liberamente scelte e in concorrenza fra loro, o vagheggiare di stato di diritto, una contraddizione in termini dalla via che credere che chi “fa” la legge (giuspositivismo) ne sia anche soggetto è un controsenso logico (ampiamente dimostrato dai fatti)?
Si potrebbero portare decine di altri esempi ed argomenti, ma si farebbe notte.
Per cui io pongo solo la semplice domanda: a fronte di un fallimento storico indiscutibile, chi è il vero utopista?
Nel dramma “Le roi s’amuse” (Il re si diverte) di Victor Hugo, il giullare di corte Triboullet viene descritto come uno sbeffeggiatore dei potenti, anche a costo di rischiare il licenziamento, la libertà o la vita. Potrebbe essere una fantasia storico – letteraria dell’autore ma non escludo che nel rinascimento ci fosse qualcuno che poteva godere maggiore libertà di quanta ne abbiano i cortigiani attuali. In questo caso gli intellettuali di oggi non potrebbero essere assimilabili ai buffoni del passato. Diciamo che sono buffoni senza avere la capacità poetica e scenica del giullare o anche semplicemente del pagliaccio da circo. Ho sempre preferito distinguere l’intellettuale dalla persona di cultura. Quest’ultima mette il suo sapere al servizio degli altri, il primo solo al proprio servizio. Cosa che sarebbe legittima in sé, salvo dover poi sopportare le loro tiritere sull’altrui egoismo, sulla mancanza di solidarietà, sul perduto concetto di onor di patria, sulle responsabilità che si hanno nei confronti del popolo, sulla necessità del coinvolgimento collettivo, sul diritto del collettivo alla supremazia verso l’individuale o l’individuo e altre cialtronate tardosessantottesche.
A certi soggetti basta chiedere cosa è più utile ad una società civile per il suo pacifico funzionamento: i princìpi che quella società ha selezionato, o lo stato che annulla quei princìpi?
gli intellettuali possono fare un lavoro egregio nella emancipazione del popolo, e nel conseguimento della sua liberta’, che sono poi il portato della civiltà e del progresso,
sfortunatamente oggi costoro sono assimilati molto più ai giullari medioevali che intrattenevano i signori a corte, al soldo di una committenza che spesso non gli lasciava come alternativa che la propria testa,
con l’unica differenza che gli intelletuali di oggi la cui committenza è rappresentata dallo stato che gira l’onere del guiderdone al popolo, non corrono il rischio della perdita della loro testa.
Infatti. Comunanza forzata, non per libera scelta. E’ come se mi dicessero che la “piccola libertà” di mantenere certe mie abitudini “non compensa” le mancate gioie del matrimonio e che per questo devo accettare una moglie scelta da altri. Se poi questi altri sono i Savoia… lasciamo perdere.
Purtroppo l’utopia statale continua anche grazie all’apporto degli intellettuali. Nel suo ultimo lavoro, Lettera agli Italiani, Marcello Veneziani scrive che “una piccola libertà individuale non potrà mai compensare la perdita di un futuro comune”. Intanto dovrebbe parlare per lui e solo per lui. Chi gli dice che un non meglio precisato “futuro comune” sia una perdita per chi decide di non averlo? Fosse anche un eremita? Ci si chiede, poi, per quale ragione al sostantivo “libertà” debba essere prefissato quell’inutile aggettivo “piccola”. Forse perché per l’apologeta del nazionalismo la libertà è piccola cosa mentre il termine “comune”, dal quale deriva comunismo, gli riempie chissà quanto l’animo. L’autore non si chiede, però, se nell’animo altrui la libertà non possa essere più importante di un astratto vivere comune. E soprattutto non si chiede come sia possibile un ordinato, sano e civile vivere comune in assenza di libertà. Che specie di comunanza sarebbe quella dove le persone, non potendo esprimere la propria individualità senza condizionamenti “societari”, non avrebbero opportunità di godere di un’autentica socializzazione? E questi sarebbero gli scrittori anticollettivisti?
ma comune con chi? con gente a cui mi trovo accomunato dopo una serie di guerre, di compravendite di territori, e contro la mia volontà? è questo che deve chiedersi Veneziani
la vera utopia è quella che insegue lo stato attraverso il desiderio di pianificare ogni ambito della vita sociale e ogni aspetto della vita degli individui, indagandone i recessi morali e gli aspetti più nascosti della psicologia che muove le loro azioni per, per cavarne motivo di controllo e di profitto, mancando di vedere che gli obbiettivi che si pone a soddisfazione dei propri desideri, vanno oltre ogni umana possibilità, in quanto richiedono una informazione totale così complessa e pervasiva, che l’intera società non ne dispone che nel suo insieme.
la differenza sostanziale che corre tra la società intera che dispone della più completa informazione, e lo stato che ambisce ad averla, è che la società non esiste se non nell’addizione di milioni di individui, ciascuno dei quali è depositario di una piccola parte di informazione, unita alla capacità di poterla condividere in maniera automatica e involontaria, laddove lo stato incarna la volontà unitaria di detenerla tentando di surrogare i meccanismi che caratterizzano gli insiemi e i suoi funzionamenti irriflessi del tutto impersonali.
chi è realmente l’utopista?
nonostante l’uso sapiente di una semantica retorica e ridondante che confonde il rifiuto dello stato con la mancanza di una archia o forma ordinata di organizzazione, lo stato fà, ad una analisi più attenta, la figura di colui che, infatuato di una fatale utopia, pur di raggiungerla, attraverso l’uso della forza, trascina tutti dentro al suo incubo, che svanirà di fronte alla potenza delle forze della natura che restaurano di tanto in tanto equilibrio e armonia.
Risposta ovviamente semplicissima per chi non è geocentrico e non voglia negare che tutte le crisi abbiano origini statali. Il libertario sarebbe utopista solo se pensasse che giungere a una società senza stato sia una questione di minuti e che sia sufficiente una tornata elettorale con un partito sedicente liberale che vince le elezioni. Può anche capitare, in teoria, un felice incidente di percorso di questo tipo, ma chi non è utopista sa che attualmente non esistono le condizioni perché tale incidente si verifichi. E sa anche che gli stati si stanno mangiando sempre di più settori importanti di libertà e vita privata. Ma sa soprattutto che è proprio quest’invadenza a provocare altri danni. E che la pretesa di cercare soluzioni di ripristino della libertà mantenedo il sistema statale, è il reale esercizio di pura utopia. Per l’evidente contraddizione teorica tra stato e libertà e per l’altrettanto evidente fallimento della convivenza tra le due situazioni.