“In economia abbiamo sbagliato tutto: l’uomo non è homo economicus ma cercatore di senso”. (L. Becchetti)
Con questo titolo Leonardo Becchetti ha scritto un articolo pubblicato su Avvenire nel quale critica l’economia mainstream. Non è certo il primo a criticare il concetto di homo economicus, una sorta di automa effettivamente usato dalla maggior parte degli economisti mainstream per elaborare teorie e, soprattutto costruire modelli che “girino” bene in termini matematici.
Sono meno d’accordo sul contenuto dell’articolo, del quale vorrei qui commentare due passaggi che ritengo significativi.
“Vendere un’unità in più di prodotto della tua azienda non è di per sé qualcosa che può esaurire la ricerca di senso della tua vita. Farlo per una società che lavora per la sostenibilità sociale ed ambientale del pianeta lo è di più. In questo senso la responsabilità sociale d’impresa diventa strumento fondamentale per colmare la carenza di senso di un’attività che spesso diventa totalizzante e richiede adesione assoluta da parte dei propri membri.”
Qui Becchetti tende a considerare il proprio punto di vista come l’unico ad aver ragione di esistere. In ciò dimostra un’arroganza che a mio parere è peggiore della superficialità con la quale gli economisti mainstream hanno utilizzato l’automa homo economicus per descrivere i comportamenti umani.
Per lui la “sostenibilità sociale ed ambientale del pianeta” (qualsiasi cosa intenda con questi concetti piuttosto vaghi ma tanto politically correct) aiutano l’uomo nella ricerca di senso nella vita, ma non è detto che la cosa sia valida per tutti i suoi simili, né che altri individui, pur condividendo il pensiero di fondo di Becchetti, abbiano il suo stesso fervore.
“Perché essere un ingranaggio anonimo di un’azienda che produce qualcosa di scarsamente utile per l’umanità di senso ne produce troppo poco.”
Questo passaggio credo aiuti a comprendere meglio anche quello precedente. Becchetti tira in ballo il concetto di utilità, cadendo in un errore simile a quello che egli imputa agli economisti che utilizzano l’homo economicus. Quello di utilità è un concetto soggettivo. Per questo non hanno senso le funzioni di utilità oggettive, che cercano di quantificare la soddisfazione delle persone considerandole tutte uguali tra di esse e nel tempo. Gli economisti di scuola austriaca (si veda, su tutti, Mises in Human Action) hanno chiaramente esposto questo concetto, evidenziando che l’economista può al massimo verificare, sulla base delle preferenze effettive di diversi individui in merito a varie alternative e in un determinato momento, quale sia l’ordine di preferenze (e quindi di utilità) degli individui in questione. Senza, peraltro, poter quantificare l’utilità che quegli stessi individui traggono dalle scelte effettuate, e tenendo presente che ognuno potrebbe compiere scelte diverse in altri momenti e circostanze.
E’ evidente, quindi, che una funzione che cerchi di quantificare l’utilità stessa e che sia considerata valida erga omnes può essere un valido espediente per far “girare” un modello, ma non è altro che un esercizio fine a se stesso.
Per questo stesso motivo, il critico dell’homo economicus Becchetti farebbe meglio a non estendere a tutti quanti le sue preferenze in termini di utilità. D’altra parte, se davvero l’umanità, o anche solo un suo molto ristretto sottoinsieme, ritenesse scarsamente utile ciò che quell’azienda produce, non lo comprerebbe; quindi l’azienda chiuderebbe i battenti, e il cosiddetto “ingranaggio” perderebbe il lavoro.
Dopo avrebbe certamente più tempo da dedicare alla ricerca del senso della vita, ma per tirare a campare dovrebbe affidarsi alla benevolenza di chi produce e vende con successo beni e servizi. Oppure, caso più frequente, alle rapine che lo Stato pratica nei confronti di costoro. Rapine che dubito siano deprecate da Becchetti.
Molti, troppi sacerdoti, ignorano il pensiero di Luis de Molina, di Francisco Suarez e della scuola di Talamanca. Alcuni di loro mi hanno detto che nelle università religiose non si insegna neanche più il tomismo né si studiano i testi dell’abate Galiani o quelli di Rosmini e Gioberti. Inoltre si ignora Sturzo per la parte teorica limitandosi a conoscerlo come attivista politico. Dimenticano Manzoni e tutto il pensiero del cattolicesimo liberale. Così escono dai seminari con la convinzione che il cristianesimo debba per forza essere socialdemocratico. I labourismi forzati, dalla Rerum Novarum in poi, non li aiutano certo a percorrere la strada della logica. Alcuni, forse, percorrono in buona fede quella della carità; ma i risultati complessivi, se visti in scala mondiale, lasciano alquanto a desiderare. Senza la carità il cristiano, scondo Paolo di Tarso, è un nulla. Ma senza la logica e la ragione, la carità è destinata a perdere. Servirebbe loro un rasoio ockhamiano per tagliare le vetuste barbe tardomarxiste e neoproudhoniane.
Un palese caprone. Se i preti attuali, o i loro stretti amici, si degnassero studiare gli argomenti che non conoscono prima di dire stupidaggini in proposito sarebbe un passo in avanti. Un tempo esisteva la scolastica, da cui venne anche Ockham. Un tempo. Oggi abbiamo questi analfabeti che intasano i giornali con la loro mediocre ignoranza ed i pregiudizi molto corretti da beghine.
L’opinione di questo Becchetti non vale due cent bucati ma intanto è ottima per una tessera onoraria del PD o dei seguaci di Hillary Clinton.
Il solito cattomoralismo d’accatto. Che direbbe Becchetti se gran parte dell’umanità considerasse inutile ogni prodotto che abbia a che vedere con la religione? E magari ricercasse il senso della vita nella lettura di testi filosofici laici, agnostici o dichiaratamente atei? E se lo cercasse in religioni non cristiane o in confessioni cristiane diverse dal cattolicesimo?