Il business può rendere il mondo un posto migliore. È il concetto che sta dietro a TOMS, azienda fondata da Blake Mycoskie e attiva principalmente nel mercato delle calzature, costruita su un modello di business che fa del desiderio di fare del bene il suo punto di forza. Il meccanismo, chiamato One for One, è semplice: per ogni paio di scarpe che acquisto, un altro paio verrà donato a un bambino bisognoso in una zona di povertà.
“Non ho un background da filantropo, ce l’ho da imprenditore – spiega Mycoskie, mentre racconta com’è nata TOMS. – Durante un viaggio in Argentina nel 2006, ho visto dei bambini che non avevano le scarpe per andare a scuola. Così ho risposto al mio desiderio di aiutarli, creando un business che si basasse su un’idea molto semplice: se tu compri un paio di scarpe, puoi avere anche la soddisfazione di donare un paio di scarpe a chi non se lo può permettere. Mi sembra uno scambio equo.”
Chi pensa che questo modello non sia sostenibile, si sbaglia. TOMS ha successo e non sembra fermarsi. Lo scorso anno, il marchio è stato valutato 625 milioni di dollari. Nel 2011, si è allargata al settore degli occhiali, con TOMS Eyewear. Il principio è lo stesso: se acquisto un paio di occhiali, un altro paio viene donato a chi ne ha bisogno. Nel 2014, invece è il turno del caffè con TOMS Roasting Co, con la quale fornire acqua pulita ai paesi in via di sviluppo. Fino al progetto più recente: la TOMS Bag Collection. Lanciata quest’anno, la sua missione è rendere sicuro per le mamme il parto in zone di rischio.
Parlando di donazioni, invece, solo nel settore delle calzature, TOMS ha regalato oltre 35 milioni di paia di scarpe nuove. “A fine mese, guardiamo, per esempio, quante scarpe abbiamo venduto in tutto il mondo e realizziamo il secondo paio. Poi ci affidiamo a circa un centinaio di partner in 60 paesi, Ong che lavorano già in zone di povertà come Malawi, Guatemala, Honduras. Sono loro a identificare dove c’è bisogno di scarpe, per andare a scuola o per proteggere i piedi da una malattia, e che vanno effettivamente sul territorio a distribuirle”, sottolinea Mycoskie.
One for One non ha avuto successo soltanto tra i consumatori ma anche tra le altre aziende, tanto da cominciare a diventare oggetto di studio. Stanford Social Innovation Review ha dedicato la copertina del suo numero di inizio 2014 a un’analisi intitolataInside the Buy-One Give-One model, dedicata proprio a TOMS. La ricerca, condotta da Christopher Marquis e Andrew Park, si è concentrata su 30 imprese e startup che adottano un modello di business simile e, dopo diverse analisi, sono giunti alla conclusione che questo modo di fare impresa è destinato a diventare sempre più rilevante.
Perché il One for One sia sostenibile, tuttavia, è necessario che alcune condizioni siano rispettate. Prima fra tutte, come fare profitti, spendendo il doppio per vendere una merce sola. Secondo lo studio, infatti, sono tre i principali meccanismi con cui si riesce ad ammortizzare questa spesa: alzando il prezzo del prodotto, riducendo i costi oppure vendendo moltissimo. “Di queste tre soluzioni, TOMS si appoggia alla seconda e alla terza. Noi vendiamo tante scarpe, circa 30 milioni, e poi tagliamo i costi, per esempio non spendendo soldi in pubblicità tradizionale, ma lavorando molto sui social media. Invece che appendere cartelloni per le strade abbiamo lanciato, per esempio, una campagna nelle prossime due settimane: chiediamo alle persone di fare una foto dei propri piedi nudi e pubblicarla su Instagram. Per ogni singola foto postata, noi doniamo un paio di scarpe ai bambini. Dopo un giorno dal lancio, 30mila persone in tutto il mondo avevano già aderito”, racconta Mycoskie.
Un’altra condizione che richiede questo modello di business è legato al tipo di mercato in cui lo si vuole applicare. Non è un caso, infatti, che la maggior parte delle aziende di questo tipo sia nel settore dell’abbigliamento o degli accessori. Sono prodotti infatti che vengono indossati e mostrati agli altri dando la possibilità alle persone di esprimere pubblicamente il loro stile unico. Inoltre, come spiega Mycoskie, “è importante che il prodotto abbia una buona marginalità, in modo che i profitti di una vendita riescano a sostenere sia la donazione che il business”.
Il vertiginoso successo di TOMS e delle imprese basate sul One for One potrebbe però diventare la loro principale minaccia. In caso, infatti, questo modello diventasse troppo diffuso, rischierebbe di perdere la sua unicità e costringere così a dover ricorrere a costose campagne pubblicitarie per farsi notare. Un problema che anche Mycoskie ha previsto, ma di cui sembra aver già trovato la soluzione: “ovviamente è una cosa positiva se sempre più aziende adottano il nostro approccio. Tuttavia, oltre a fare buoni prodotti, dobbiamo continuare a evolvere in quello che facciamo, rilanciare sempre di più. Per esempio, oltre a fornire aiuto, stiamo cominciando anche a creare lavoro nelle comunità in cui facciamo le donazioni. Il 40% delle nostre scarpe vengono prodotte nelle comunità in cui vengono donate: India, Kenia, Etiopia e Haiti. Questo è un modo per evolvere e rimanere rilevanti. I consumatori lo apprezzano. TOMS rende il mondo un posto migliore e lo fa anche dando lavoro”.
Sarà un puro caso ma Panerai ha lanciato di recente un nuovo modello “Mare Nostrum”.
Pazienza se Toms collabora con personaggi sbagliati, ciò non vuol dire che sia errata una singola iniziativa in sé. Se in futuro si corromperanno per avere aiuti pubblici valuteremo di conseguenza. Del resto anche la Monsanto in passato produceva qualcosa di inutile. Non è detto che sia così per sempre visti i passi avanti da essa compiuti in agricoltura.
D’accordo, di per sé non ha fatto nulla di criticabile. Ma il mio punto era più volto alla propaganda istituzionalizzata finalizzata a inculcare sensi di colpa nei cittadini nei confronti del Terzo mondo, colpa espiabile con l’acquisto di scarpe Toms, per esempio.
Perché limitarsi all’acquisto di un paio di scarpe per mettersi l’anima in pace? Si potrebbe anche risolvere la povertà mondiale seguendo l’esempio della Jolie o la Ciccone, collezioniste di bambini del Terzo mondo.
http://www.hsph.harvard.edu/news/features/chelsea-clinton-toms-founder-blake-mycoskie-share-insights-on-global-health-leadership/
La stretta collaborazione tra la Clinton Foundation e Toms è certamente rassicurante. Manca solo l’intervento del grande filantropo Soros e la sua Open Society e siamo a posto.
La mia domanda sulla conciliabilità tra donazione e libertarismo non era retorica ma vera, per cui ringrazio per la risposta.
Ps:
Scrivo “Stato” con la maiuscola per distinguerlo dal participio passato. Così come scrivo persino Stalin, Lenin e Hitler con la maiuscola.
La fiflosofia libertaria si concilia perfettamente con l’aiuto a fondo perduto, purché quest’ultimo sia un’azione volontaria e non coartata. In fondo, una volta, liberale era sinonimo di generoso. Sta al libertario stesso decidere in quale caso l’aiuto sia opportuno e in quale altro caso non si rischi di creare un’aspettativa di essere mantenuti a vita senza alcuna voglia di produrre dignitosamente e quindi di migliorare. lo sponsor non è afondo perduto perché c’è un ritorno di immagine. Lo scambio non è a fondo perduto perché c’è un oggetto offerto e uno conquistato. Il dono non è afondo perduto perché provoca benessere psicologico nel donatore. L’unica cosa a fondo perduto, almeno per chi vuole produrre senza essere un parassita, è lo stato (rigorosamente con la esse minuscola).
Aggiungo una cosa… anche ammettendo che tutti gli aiuti ai paesi poveri vadano a buon fine, come si concilia la filosofia libertaria con il concetto stesso di aiuto a fondo perduto??
In altre parole, se il libertario è contrario ad ogni forma di sussidio interno, faccio molta fatica a comprendere come possa lo stesso essere favorevole a questa forma di “sussidio esterno”.
Molto bello quello che fa l’azienda menzionata nell’articolo ma non è roba da additare come esempio libertario.
Caro Fabio,
Io invece son daccordo con te, mi sembra che la pensiamo uguale sulla sostanza. Unica cosa, credo che il tuo ottimismo sulla possibilità da parte di un privato di affidarsi, come dici tu, a “persone di fiducia” è nella maggior parte dei casi una pura illusione. Difficile (eufemismo) trovare un governo di un paese povero che accetti di essere scavalcato vedendosi passare ogni ben di Dio davanti senza arraffare. Non so se ricordi il mitico LIVE AID, classico esempio di aiuto tutto privato armato delle migliori intenzioni. Beh, tutto, dico tutto è finito nelle mani del regime rosso di Menghistu. Non se ne esce, se mandi soldi il dittatore di turno se li mette in banca e compra armi,se gli mandi la merce, se la vende o la cede ai destinatari previo pagamento per la “intermediazione” (leggi tangente). Quindi… AIUTI AL TERZO MONDO: I POVERI DEI PAESI RICCHI DANNO I SOLDI AI RICCHI DEI PAESI POVERI. Amen.
La differenza tra gli aiuti dei privati e quella dello Stato è che nel primo caso si buttano i soldi di un miliardario consenziente mentre nel secondo caso si buttano i soldi espropriati alla collettività con la tassazione.
A parte questa consistente differenza di principio, il risultato pratico è però ahimè lo stesso… soldi buttati in pattumiera. Il sottosviluppo ci sarà sempre fintanto che gli aiuti passeranno attraverso governi corrotti che le associazioni umanitarie non criticano per paura di essere cacciati dai paesi dove operano.
non ono d’accordo:
un privato che volesse aiutare qualcuno si affiderebbe, speranza sincera, a persone di fiducia o che stima che portino al bisognoso l’aiuto, financo una parte, nonostante le sanguisughe al potere nel proprio stato ed in quello del destinatario. E lo scopo ultimoo è comunque di terminare l’auto perché si pensa che il bisogno sia temporaneo.
i funzionari del paese ‘donante’ e del ‘ricevente’ penserebbero al proprio stipendio e sanno bene che se finiscono i bisognosi, perché riescono a sollevarsi dalla loro misera condizione, finisce le loro pacchie di parassiti, quindi NON hanno alcuna intenzione di farli migliorare. Per loro i poveri e bisognosi devono restarlo a vita.
Marco ha sbagliato obiettivo perché nei primi due commenti l’ironia traspare poco. L’intervento di Fabio è più esplicito.
ancora non ci conosce bene, ‘st’impuniti de libertari :-D
Fatemi capire, un imprenditore riesce a mettere su un business con cui:
a) lui profitta (conditio sine qua non dell’agire umano, miei cari)
b) i consumatori acquistano liberamente i suoi prodotti e sono contenti di contribuire anche al benessere di terzi bisognosi
c) delle persone bisognose ci guadagnano
e l’unica cosa che riuscite a pensare è che sta “sfruttando il bisogno degli altri” e sarebbe meglio se ne occupasse lo stato?
Vi meritate di essere sudditi, non c’è niente da fare…
Ma a chi ti stai rivolgendo Marco?
Mi sono reso conto di aver letto frettolosamente i commenti precedenti, erano sarcastici insomma… meglio così e chiedo scusa!
no problem Marco :-)
e questo è un esempio dell’applicazione di quanto sopra: come forse saprete c’è una fenomenale fiera annuale del fitness a rimini, questa è l’iniziativa di quest’anno della multinazionale italiana Technogym per vendere e farsi notare:
http://www.riminiwellness.com/events/285-technogym-lets-move-and-donate-food/
” La campagna sociale per donare il proprio esercizio fisico e convertirlo in pasti scolastici del World Programme delle Nazioni Unite.
echnogym lancia la campagna mondiale “Let’s Move and Donate Food” per donare il proprio esercizio fisico e trasformarlo in pasti scolastici, che grazie alla collaborazione con il World Food Programme, saranno donati ai bambini nei Paesi più poveri del mondo. Il progetto è già partito anche ad EXPO Milano 2015, di cui Technogym è Official Wellness Partner.
Presso lo stand Technogym operatori ed appassionati possono allenarsi, ……… e donare il proprio esercizio fisico per una importante causa sociale.
aHHAHAHAHAHAHA
Diventare milionari sfruttando il bisogno degli altri, che immoralità.
Il primo che lo dice vado ad aspettarlo sotto casa e lo tagliuzzo con la falce oppure lo percuoto col martello, o con un crocifisso di legno massello. Può scegliere, sono generoso.
eh certo è una buona cosa, però non è giusto che se ne occupi un privato, supplendo al ruolo di uno stato assente.. non possiamo affidarci ai “miliardari di buon cuore”, dobbiamo affidarci allo stato.. magari potremmo statalizzare l’azienda di questo tipo e sostituirlo con un dirigente ministeriale, che essendo un dipendente pubblico non ha interessi privati e potrebbe fare certamente meglio.. non sei d’accordo anche tu???
certo. E’ovvio che ‘ci vuole una legge che’ , come vivere senza !! :-) :-) :-)