In Anti & Politica, Economia, Libertarismo

MANDARINIDI GIOVANNI BIRINDELLI

Le ragioni in base alle quali per i dipendenti “pubblici” dovrebbero valere regole fortemente diverse rispetto ai lavoratori del settore privato sono ovvie. Esse derivano dalla diversità del processo attraverso il quale, nei due casi, il denaro finisce nelle tasche delle persone.

Infatti, a differenza di coloro che lavorano in un’impresa privata, i quali ricevono denaro che è frutto di uno scambio volontario (o meglio di ciò che resta di esso dopo l’interventismo), i dipendenti “pubblici” ricevono denaro che è frutto di un puro atto di violenza, cioè di un’azione che, se la compiesse un privato, sarebbe tranquillamente chiamata per quello che è: un crimine, in particolare un furto. In altre parole, a differenza del lavoratore del settore privato, che deve trovare qualcuno che sia disposto a scambiare liberamente beni di sua proprietà in cambio del suo lavoro (cioè qualcuno che ritenga che questo lavoro valga di più dei beni di sua proprietà che cede in cambio di esso), il dipendente “pubblico”, grazie a un’azione coercitiva illegittima anche se legale, ottiene un compenso economico per un lavoro che, poiché nessuno ha dovuto rinunciare liberamente a qualcosa di sua proprietà per ottenerlo, ha necessariamente valore economico nullo.

Dato quindi il fatto che la natura del processo che ha portato il denaro nelle tasche delle persone è non solo diversa, ma opposta nei due casi, allora è doveroso che chi percepisce questo denaro sia trattato in modo diverso e anzi opposto a seconda che tale processo sia pacifico/di mercato oppure violento/parassitario. 

Se per i dipendenti “pubblici” valessero le stesse regole che valgono per i lavoratori del settore privato ciò sarebbe estremamente ingiusto, in quanto i privilegi positivi (p. es. la tassazione) che rendono possibile che il dipendente “pubblico” riceva un compenso per il suo lavoro non sarebbero compensati da privilegi negativi.

Una situazione meno intollerabile e totalitaria di quella attuale sarebbe quella in cui:

  • la libertà di qualcuno che scegliesse liberamente di lavorare per lo stato (o di continuare a lavorare per esso), fosse sistematicamente violata; e
  • che tale sistematica violazione crescesse automaticamente al crescere delle dimensioni dello stato (p. es. della spesa pubblica), passando da un livello minimo di violazione a uno massimo.

Per “livello minimo” di violazione della libertà intendo qualcosa che sia molto più intrusivo di un braccialetto per detenuti (e/o occhiali che non possano essere tolti) con telecamera e microfono incorporati e che si accendono automaticamente almeno negli orari di lavoro del dipendente pubblico.

Da un lato, questo meccanismo consentirebbe di “bilanciare” l’ingiustizia dell’esistenza stessa dell’impiego “pubblico” (e quindi della coercizione fiscale che lo rende possibile) e forse anche di arginare in qualche misura fenomeni intrinseci allo stato totalitario stesso quali “mafia capitale”, per esempio. Dall’altro, e soprattutto, consentirebbe di arginare la naturale tendenza dello stato (di ogni stato) a espandersi. Maggiori sono le dimensioni dello stato, maggiore deve essere la violazione della libertà di chi decide e/o trae giovamento da questa espansione, la quale così può essere contenuta e disincentivata (“effetto elastico”).

Quello della licenziabilità dei dipendenti pubblici è un falso problema, un trucco per mantenere in vita il paradigma che produce necessariamente lo stato massimo; trucco a cui non pochi “liberali” abboccano. E’ ovvio che i dipendenti pubblici dovrebbero essere licenziabili su due piedi e all’istante, trovando la scatola con le loro cose fuori dalla porta del loro ufficio chiusa a chiave, ma non è questo il punto. Anche se essi fossero resi licenziabili su due piedi, fermarsi a questo e più in generale alla totale equivalenza di trattamento fra i dipendenti pubblici e i lavoratori del settore privato sarebbe una profonda ingiustizia, e non arginerebbe la naturale tendenza dello stato, e quindi dell’impiego pubblico, a espandersi.

La libertà dello stato e di chi lavora per esso è incompatibile con la società libera e quindi con la prosperità.

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LA SOVRANITA’ DELLA LEGGE

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Showing 9 comments
  • gian luigi lombardi cerri

    Lo Stato non è composto da CITTADINI. Lo stato è composta da chi DETIENE il potere + i cittadini.
    Quasi mai gli interessi di chi detiene il potere coincide con quelli dei cittadini.
    Chi detiene il potere deve difendere la propria posizione e, per far ciò si avvale dell’esercito e dei burocrati che deve privilegiare se vuol mantenere la poltrona.
    Occorre quindi , con ogni mezzo limitare il potere dei burocrati.
    Il primo passo di questa azione è “evitare che Leggi, Regolamenti e Circolari esplicative ” vengano scritti dai burocrati. Come accade ora.

  • Pedante

    “E’ proprio per lo svolgimento di quelle attività come giustizia e difesa (che è difficile non tanto poter svolgere fuori dallo stato ma poter garantire a tutti in una situazione di anarco-capitalismo) che ritengo necessario il male dello stato.”

    Il male è per definizione incompatibile con il bene, perciò con la giustizia. Non c’è alcun diritto alla difesa, solo all’autodifesa. Se l’individuo non è in grado di difendersi da solo si unisca con altri. Nessun uomo è un’isola.

  • Ezio Magi

    Caro Birindelli, La seguo con interesse ma a me sembra che in questo caso il ragionamento ceda alla semplificazione ideologica.
    Lo stato democratico e le sue scelte sono comunque frutto della volontà della maggioranza degli elettori, non di chi lavora per lo stato, questo rende a volte i dipendenti pubblici non dei beneficiari ma dei danneggiati. Il fatto che lo stato si sia appropriato di certe attività e le eserciti in regime di monopolio obbliga coloro che sono in possesso di certe qualifiche a lavorare per lo stato (la cardiochirurgia è un esempio), a condizioni che potrebbero essere peggiori di quelle esistenti in un mercato libero.
    Esistono poi attività, come giustizia e difesa, che è difficile (se non si vuole aderire a posizioni estreme) poter svolgere fuori dallo stato.
    In conclusione, credo che quello a cui si possa realisticamente aspirare sia una riduzione delle dimensioni dello stato e del numero dei suoi dipendenti, oltre a maggior trasparenza e controlli su quanto viene fatto. Quanto alle auspicate violazioni della libertà dei dipendenti pubblici (non ho ben capito in concreto a cosa si alluda) ci andrei piano, potrebbero degenerare in qualcosa di molto illiberale.

    • Giovanni Birindelli

      Grazie per la risposta. E’ proprio per lo svolgimento di quelle attività come giustizia e difesa (che è difficile non tanto poter svolgere fuori dallo stato ma poter garantire a tutti in una situazione di anarco-capitalismo) che ritengo necessario il male dello stato. E faccio notare che il cardiochirurgo pagato con soldi “pubblici” in uno stato che fosse ridotto alla difesa della Legge nemmeno ci sarebbe. Tuttavia, non occupandoci per il momento di come arrivare a una situazione di stato minimo che si occupi solo della difesa della Legge intesa come principio, il problema, dato che anche uno stato di questo tipo avrebbe una naturale tendenza a espandersi, è come tenerlo compresso alle sue funzioni e dimensioni minime possibili. La proposta che ho riassunto in questo articolo va in quella direzione e la trovo compatibile con i principi liberali in quanto in base a quei principi la tassazione è un furto, un crimine: e la compensazione di un crimine non è affatto aliena al pensiero liberale. Non si tratterebbe tuttavia, in questo caso, di una reazione punitiva nei confronti di chi lavora per lo stato, in quanto nessuno sarebbe costretto a lavorare per esso o a continuare a lavorare per esso: sarebbe, come ho specificato, una scelta libera. L’esistenza di privilegi negativi per chi lavora per lo stato non è aliena alla tradizione giuridica occidentale: negli USA per esempio, dal 1964, un pubblico ufficiale non può perseguire per diffamazione un cittadino che abbia detto qualcosa che fosse falso nei suoi confronti (non sapendo che era falso), mentre nelle stesse condizioni un privato cittadino può (purtroppo) perseguire per diffamazione un altro privato cittadino. Durante il naufragio di una nave, il capitano (colui che ha potere coercitivo sulla nave e che è l'”autorità”), ha un privilegio negativo in quanto egli può legalmente lasciare la nave solo per ultimo. Quindi il principio dei privilegi negativi per chi è “autorità” (o suo braccio/diramazione) già c’è, solo che viene applicato solo in alcuni casi particolari. Io ritengo che ci siano le basi filosofiche compatibili col pensiero liberale per applicarlo in generale. E ritengo inoltre che tale applicazione a coloro che, scegliendo liberamente di lavorare per lo stato, percepiscono il bottino della tassazione, possa essere un modo per contrastare dinamicamente la naturale tendenza dello stato a espandersi.

  • Ezio Magi

    Il cardiochirurgo è un dipendente pubblico, il suo lavoro ha una grandissima utilità e se la gente dovesse rivolgersi al mercato per ottenere le sue prestazioni dovrebbe probabilmente pagare un prezzo ben più alto. Non credo che il cardiochirurgo si debba vergognare di essere un dipendente pubblico e di essere pagato con i soldi “estorti con la tassazione”. L’ esempio vale ovviamente per una molteplicità di altre attività che vengono svolte dai pubblici dipendenti, molte delle quali avrebbero notevole valore economico anche sul mercato. Certamente le dimensioni dello stato dovrebbero essere limitate e non dovrebbero esistere privilegi ma è sbagliato criminalizzare i dipendenti pubblici.

    • Giovanni Birindelli

      Ho diverse obiezioni al suo commento.

      1. L’affermazione che il lavoro del cardiochirurgo “ha una grandissima utilità” è scientificamente insensata. L’utilità può essere solo individuale: solo l’individuo pensa, prova emozioni, piacere o dolore, agisce, sceglie, guarisce da una malattia cardiaca. Quindi il lavoro del cardiochirurgo ha una grandissima utilità non in generale, ma solo per colui che, oggi o domani, ha bisogno dei suoi servizi. La cosiddetta “utilità sociale” non esiste: questo termine indica semplicemente ciò che alcune persone in posizione di comando ritengono “utile” dal loro punto di vista e vogliono imporre con la forza ad altri. Se qualcosa deve essere finanziato attraverso il ricorso alla violenza allora vuol dire che non è sufficientemente utile per le persone, nel senso che non ci sono persone disposte a cedere liberamente beni di loro proprietà in cambio di quella cosa. Incidentalmente, la cardiochirurgia è probabilmente molto utile per molti di coloro che hanno problemi cardiaci o per coloro che vogliono evitare complicazioni cardiache, quindi verrebbe prodotta in un’economia di mercato in quanto sarebbe profittevole.

      2. Anche se, per assurdo, fosse possibile affermare che una cosa è “utile” in generale, ciò (per chi si dichiara non totalitario) non giustificherebbe affatto una sua produzione coercitiva da parte dello stato mediante tassazione: non c’è infatti limitie alle cose (soggettivamente ritenute essere) utili che possono essere finanziate attraverso tassazione, e cioè attraverso coercizione. Se il fatto che un bene o un servizio fosse “utile” bastasse per giustificarne la produzione coercitiva da parte dello stato, questo dovrebbe immediatamente assorbire tutte le risorse economiche di un paese e ciò comunque, nel breve periodo, non basterebbe a produrre che un’infinitesima parte dei beni e servizi (soggettivamente ritenuti essere) “utili”. (Nel lungo periodo la quantità di beni e servizi producibili crollerebbe verticalmente essenzialmente per la distruzione di conoscenza necessariamente associata all’economia di piano). In altre parole, giustificare la produzione coercitiva di un bene o un servizio in base all’”utilità” vuol dire essere a favore della schiavitù e del potere politico illimitato (cioè del totalitarismo).

      3. Anche l’affermazione che “se la gente dovesse rivolgersi al mercato per ottenere le sue prestazioni dovrebbe probabilmente pagare un prezzo ben più alto” è scientificamente insensata. La concorrenza tende necessariamente a ridurre i prezzi, il monopolio legale ad aumentarli. Questo fatto, che è ovvio, è discusso nei testi di base di economia (perfino quelli neoclassici, monetaristi e keynesiani). La percezione, da parte dei più sprovveduti, che il prezzo sarebbe “ben più alto” è dovuta solamente al fatto che, in una “democrazia” totalitaria, quel prezzo sono altri a pagarlo.

      4. Anche se, per assurdo, la concorrenza tendesse ad aumentare i prezzi invece che a ridurli, ciò sarebbe del tutto irrilevante per chi è dalla parte della libertà e cioè della Legge intesa come regola generale e negativa di comportamento individuale valida per tutti, stato per primo (ove ci fosse) allo stesso modo. Il fatto che il prezzo di uno smart phone sia alto non giustifica il furto da parte di una persona.

      5. La frase “non dovrebbero esistere privilegi” è contraddittoria col resto del suo commento. Il termine “privilegio” significa “legge speciale fatta per uno o per pochi; indi vantaggio concesso a uno solo o a più, e di cui si gode a esclusione degli altri contro il diritto comune” (www.etimo.it). La tassazione (che serve a finanziare l’impiego pubblico) è quindi un privilegio in quanto è un’azione che è concessa allo stato (o meglio che lo stato concede a sé stesso) ma non all’uomo qualunque. La legalità di questo privilegio è resa possibile dal fatto che la Legge (il principio generale, il limite non arbitrario al potere politico che esiste indipendentemente da chi la deve difendere) è stata sostituita con la “legge” fiat (il provvedimento particolare, lo strumento di potere politico arbitrario che esiste solo come espressione della volontà di chi la può decidere).

      In conclusione, la tassazione che consente il pagamento dei dipendenti pubblici, in quanto privilegio, atto violento coercitivo e furto, è un crimine. Dove questo privilegio positivo dello stato e di chi, lavorando per esso, riceve il bottino dei suoi crimini, non fosse compensato da privilegi negativi, il totalitarismo non avrebbe limiti, anche nel caso in cui i dipendenti pubblici fossero trattati alla stregua dei lavoratori del settore privato.

  • Pedante

    “Le ragioni in base alle quali per i dipendenti “pubblici” dovrebbero valere regole fortemente diverse rispetto ai lavoratori del settore privato sono ovvie.”

    Non capisco il senso di questa affermazione normativa. Se un atto è immorale, i limiti si stabiliscono per convenienza o calcolo politico e nient’altro. Se io, mafioso, ammazzo solo gli uomini della cosca rivale risparmiando le loro donne e bambini non è per bontà ma per non scatenare una spirale infinita di vendette.

    Se è l’alchimia ciò che ci vuole le formule di certo non mancano:
    https://www.movimentolibertario.com/2014/12/serve-un-impiego-pubblico-democratico/

    Danilo D’Antonio di Teramo.

  • Mario

    Bellissimo articolo, saggio consiglio. Ma non accadrà, lo statale è la spina dorsale dell’economia fallimentare dell’Italia

  • Agostino

    Se lo stato stesso (così come ogni “ente pubblico”) fosse una sorta di società per azioni con i cittadini azionisti ciascuno con una quota. Se ogni cittadino azionista potesse approvare o meno il bilancio dell’ente di cui è diventato così azionista. Ed in questo bilancio ci fosse la quota da assegnare agli stipendi degli amministratori (i politici?). Se ogni cittadino azionista potesse vendere o acquistare la propria quota. Se tutto ciò (e altro che ho in mente) fosse possibile, potrebbe iniziare una graduale evoluzione della società in senso libertario. La gradualità è necessaria perché cambia il paradigma e quindi la cultura, ed i cambi culturali hanno bisogno di tempo per attuarsi, pena un rigetto che potrebbe essere deleterio.

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