In Italia il cosiddetto regime fiscale, ossia l’insieme delle regole che sorreggono un particolare settore, nella specie fiscale, è particolarmente appropriato ma nella sua accezione assolutistica, a noi ben nota e deprecabile, quella autoritaria. Il termine regime difatti evoca agli italiani un periodo, quello fascista, nel quale i diritti vennero condizionati al volere di uno o comunque dei suoi gerarchi.
Non è certo un paradosso evocare il “regime” al cospetto del nostro ordinamento fiscale, strutturato volutamente al pari di una immensa cloaca (nella quale sguazza a suo piacimento l’Agenzia delle Entrate attraverso la longa manus di Equitalia), consentendosi il legislatore di creare ad arte qualsiasi imposta, tassa e gabella in palese spregio e profondo disprezzo dello Statuto del contribuente, istituito ad hoc con Legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente). Principi fondamentali quali “chiarezza e trasparenza delle disposizioni tributarie”, “informazioni del contribuente”, “motivazione degli atti”, progressività, uguaglianza sono violati sistematicamente con una arroganza degna di un regime autoritario.
Despoti che si nascondono dietro l’anonimo volto del legislatore che sforna a getto continuo acronimi incomprensibili (volutamente) con il disperato intento (tipico del tossicodipendente in crisi di astinenza, nella fattispecie da spesa pubblica) di aumentare la pressione fiscale che da noi ha raggiunto vette impareggiabili nel mondo. Un primato del quale non dobbiamo certo andare fieri. Perché versare la metà di quanto si guadagna ad uno Stato immorale, corrotto, che spreca di continuo, il cui principale intento è di alimentare i gerarchi e i vice gerarchi, e che restituisce alla collettività solo una piccola parte del prelievo, è una follia. Il fisco è lo strumento dispotico che annichilisce e sopprime i nostri diritti.
Una spesa pubblica annua di circa 800 miliardi, della quale una parte consistente è composta dalle pensioni tra le quali ritroviamo le pensioni d’oro e le baby pensioni, elargite come regalia e coperte anche meno del 30% da quanto versato. In tale dissipazione rinveniamo di tutto, in un solo anno: 13 miliardi per l’affitto di immobili ma contestualmente si dilapida il patrimonio pubblico, spesso anche vuoto; circa 24 miliardi di euro di costi della politica (tra Regioni, Province, Comuni, migliaia di inutili Enti, rimborsi illegittimi ai Partiti e ai giornali; in tale voce anche 228 milioni di soli costi del Quirinale, la sontuosa reggia del monarca, quello che viene poi a leggerci il sermone di fine anno) per foraggiare 1,1 milioni di politicanti; sprechi nella Sanità e in tanti settori tra cui anche della Giustizia. L’elenco potrebbe essere sterminato e viene costantemente aggiornato da questo giornale, da Stella, da Rizzo, dalla Gabanelli, dalle Iene e da pochi eroi. Ma l’indignazione non si è trasformata ancora in coscienza collettiva, sufficiente per cambiare questo immondo sistema.
Ieri si è dimesso Fassina il viceministro dell’Economia, il quale lascia un vuoto (mi pare la parola più appropriata) incolmabile. Incolmabile appunto come un vuoto (solo 6 mesi fa dichiarava che la spesa pubblica non deve essere tagliata). Assistiamo poi all’ennesima sceneggiata intorno a Mister Spending Review.
Nel mentre continuano a cospargerci di vasellina dalla testa ai piedi, con la moltiplicazione degli acronimi (Irpef, Ires, Irap, Iva, Imu, Ivie, bollo sui conti e sugli estratti conto, Tobin tax, imposta di registro, Tassa sull’auto, accise, imposte e addizionali energia elettrica, Tares, contributi anonimi, Canone Rai, imposta ipotecaria, imposta catastale, imposta di bollo, imposta sulle pubblicità etc). Ungrande Leviatano che ci sta stritolando, facendosi beffa della giustizia sociale, del principio di uguaglianza, del principio di cui all’art. 53 della Costituzione secondo cui “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività“.
Mi ricordo ancora un episodio di molti anni fa. Andai a parlare con un Direttore dell’Agenzia delle Entrate eccependogli l’illegittimità manifesta della pretesa di una cartella esattoriale. Lo stesso, giovane e molto aggressive, mi accolse con una tenacissima stretta di mano, che già diceva tutto. Ascoltò le mie ragioni e concluse con toni arroganti dicendo “faccia pure ricorso se crede”. Lo feci, vinsi e la sua Agenzia venne condannata alle spese. Ma non possiamo certo contrastare questi leviatani così! Dobbiamo soffocare il mostro. Soprattutto ove si pensi che tale mostro stia fingendo di riformarsi da solo.
di Marcello Adriano Mazzola, tratto da http://www.ilfattoquotidiano.it
Ottimo il direttore della agenzia delle entrate che se le è prese di santa ragione… però ti manca un passo. Ora prendi la sentenza e la mandi alla corte dei conti e fai condannare il coglione per danno erariale. Fino a quando questi non vengono colpiti nei loro interessi privati non la smettono di rompere i coglioni.
bisogna arrivare a riconoscere che l’imposizione fiscale è un’arma di distruzione di massa e in quanto tale non metterla nelle mani di chi la userebbe come Khomeini avrebbe usato l’atomica se solo l’avesse avuta
“…versare la metà di quanto si guadagna ad uno Stato immorale, corrotto, che spreca di continuo, il cui principale intento è di alimentare i gerarchi e i vice gerarchi, e che restituisce alla collettività solo una piccola parte del prelievo…”
Probabilmente è una questione di abitudine, ma la frase è sbagliata. Lo stato prende quei soldi con la forza, non è il cittadino che li versa. Quello che torna al cittadino sotto forma di servizi, poi, è una porzione di quello che è stato pagato, ma soprattutto è il risultato di un crimine. Non rubare ha una base etica che non può essere qualificata. È “non rubare”, non “non rubare se non a maggioranza”.
Enrico
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http://pulgarias.wordpress.com
Ehi, ma stanno aprendo gli occhi?
Sentono bruciore al culo anche loro?