È sempre “bello” trovarci in fondo alla lista dei Paesi civili, nelle classifiche che misurano la libertà. In questo caso, a relegare l’Italia in basso, molto in basso, è l’International Property Right Index, l’indice internazionale dei diritti di proprietà. È stato pubblicato, negli Stati Uniti, questa settimana. Si tratta di uno strumento analitico inconsueto e innovativo, che misura il grado di protezione del diritto di proprietà privata in tutti i Paesi del mondo. Non solo la “proprietà fisica” sulle cose, ma anche la proprietà intellettuale e l’ambiente giuridico e politico in cui questo diritto viene o dovrebbe essere garantito.
Infine, al di là dei numeri e delle classifiche, ne valuta l’impatto sociale e politico. Autore di questo indice è l’economista italiano Francesco Di Lorenzo, professore alla Copenhagen Business School. L’ente promotore è la Property Rights Alliance, basata a Washington DC, gruppo affiliato all’Americans for Tax Reform, la potente “lobby anti-tasse” di Grover Norquist. L’indice esprime una valutazione economica su 131 Paesi del mondo, focalizzandosi su quattro casi studio: Cina, Tailandia, Tunisia e Venezuela. Tutti e quattro questi Paesi dimostrano quanto la mancanza di certezze nei diritti di proprietà sia alla base del loro tormento politico. La mancanza di chiari diritti di proprietà nei Paesi nordafricani, in particolare, è individuata come una delle cause fondamentali della Primavera Araba, il fenomeno più dirompente dell’ultimo decennio.
Ma torniamo a noi. Quanto a protezione dei diritti di proprietà, l’Italia è 47ma con un punteggio di 6,1 (su 10). Non è un risultato pessimo, considerando che i Paesi scrutinati sono 131: siamo sempre nella prima metà della classifica. Tuttavia è a dir poco disperante vedere la distanza che ci separa dalla prima in classifica, la Finlandia, che ha un punteggio di 8,6. Sì, la Finlandia guida la classifica del mondo intero, oltre che dell’Europa. Ed è seguita a breve distanza da Nuova Zelanda, Svezia, Norvegia, Olanda, Svizzera, Lussemburgo, Singapore, Danimarca, Canada. Sono tutti piccoli popoli in piccoli Paesi o relativamente piccoli rispetto alle grandi estensioni che abitano: la dimostrazione che “piccolo è bello”, soprattutto per i proprietari.
Può stupire, ma fino a un certo punto, che gli Stati Uniti di Barack Obama non siano più nella top ten. Sono infatti confinati al 17mo posto. Meglio dell’Indice dell’anno scorso, comunque, quando erano 18mi. L’Italia è purtroppo lontana da questi casi virtuosi. Giù nel nostro 47mo posto, siamo infatti in mezzo a Ruanda (44ma posizione) e Giordania (48ma). Vicini, nella nostra area, ci sono altri Paesi europei accomunati dal recente passato comunista: Polonia, Lettonia, Lituania e Slovenia, Paesi dove il mercato è molto libero, molto più del nostro, ma dove la proprietà (soprattutto quella intellettuale e il suo inquadramento giuridico) è ancora poco compresa.
In Italia, ad essere debole, è soprattutto l’ambiente legale e politico. Scomponendo il nostro voto (che è 6,1) nelle tre sottocategorie che lo compongono, vediamo infatti che: l’ambiente legale e politico è un 5,6; la proprietà fisica è 6,1; la proprietà intellettuale è 6,6. Solo quest’ultima è decente, ma ancora da tenere d’occhio. Il voto sulla proprietà fisica è molto basso rispetto agli altri Paesi del mondo industrializzato. L’ambiente legale e politico in cui la proprietà dovrebbe essere tutelata ha un voto addirittura più basso rispetto a quello del Ruanda. In soldoni, viviamo in un Paese in cui i proprietari devono difendersi da giudici e politici. E come non vederlo? La Costituzione italiana non inserisce neppure la proprietà come uno dei diritti fondamentali del cittadino. La ritroviamo solo nel capitolo dei diritti economici.
E anche qui è un diritto subordinato: vincolato al principio del “bene comune” e limitabile con leggi ordinarie. Proprio ieri la magistratura, con il maxi sequestro all’Ilva, ha mandato sul lastrico una grande azienda privata (o meglio: privatizzata da meno di vent’anni) e a spasso migliaia di lavoratori. Meglio del Ruanda della guerra civile e del genocidio. Ma non certo un Paese sviluppato, in cui poter investire, vivere e crescere in tutta tranquillità. «Chiaramente non si tratta di pregiudizi o di giudizi politici – ci spiega Lorenzo Montanari (altro italiano), da Washington DC, direttore della Property Rights Alliance – il lavoro che ha svolto Francesco Di Lorenzo è puramente sui numeri. Numeri tratti da statistiche ufficiali, del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale e altre istituzioni internazionali.
Noi non produciamo dati, li raccogliamo». Per quanto riguarda l’Italia «è purtroppo evidente un problema strutturale, una carenza del “sistema Paese” sulla protezione della proprietà privata, con un impatto forte sulla piccola e media impresa, soprattutto». Anche per quanto riguarda il diritto di proprietà intellettuale, meglio tutelato degli altri, il problema persiste: «L’Italia, da questo punto di vista continua ad essere un sorvegliato speciale. Anche se non mancano i miglioramenti. È buono il nuovo regolamento approvato da AgCom sul Copyright, anche se i suoi effetti benefici si potranno vedere solo sul prossimo indice». Per quanto riguarda il contesto politico e legale, invece: «Il nostro Paese è sempre sotto il 6. Abbiamo sempre un voto attorno al 5. È ormai un dato costante dal 2009 ad oggi ed è motivato soprattutto dalla grande instabilità politica: questo elemento abbassa molto il punteggio dell’Italia».
DI STEFANO MAGNI, TRATTO DA http://www.opinione.it
L’etica non c’entra con l’utilitarismo, ma Boldrin attacca la proprietà intellettuale da una prospettiva utilitarista. Io preferisco l’approccio etico.
@fwd:
Non dico che l’artista non aggiunga qualcosa del suo, ma gran parte della musica è riciclata.
https://www.youtube.com/watch?v=5SaFTm2bcac
La farsa che è la proprietà intellettuale.
@ Marco:
Il “proprietario” della canzone ha “rubato” molte delle combinazioni di note da innumerevoli altri musicisti sconosciuti. La musica si impara copiando.
Il ragionamento utilitarista che senza un monopolio intellettuale sancito dallo Stato la ricerca non si farebbe è confutato in questo lavoro di Boldrin e Levine (utilitaristi pure loro):
http://levine.sscnet.ucla.edu/general/intellectual/against.htm
@Pedante:
Ok pero’ se nessuno avesse mai aggiunto una o piu’ note alla prima che e’ stata scoperta, non ci sarebbe musica ;) ovvero la musica e’ un processo per addizione, a cui ogni musicista ha aggiunto qualcosa a cio’ che ha trovato gia’ fatto.
Per il resto, l’etica non e’ utilitarista, anzi, e’ fare anche cio’ che non conviene se lo si ritiene giusto.
se io adopero una produzione altrui per un mio beneficio (ad esempio pubblico la cover di una canzone, gia’ pubblicata prima) e’ sacrosanto che il proprietrio venga retribuito poiche’ io sto usando il suo prodotto per ricavarne a mia volta un guadagno. Se non fosse cosi’ la ricerca scientifica si bloccherebbe per sempre. Quindi io vedo la proprieta’ intellettuale come un riconoscimento di un lavoro svolto e non una proprieta’ in senso stretto e come tale non credo che debba possa esser ceduta ad altri
@Albert ..100% d’accordo, però attento avere ragione e dire la verità è mooolto pericoloso ;-)
Oggi una conoscente mi ha chiesto qualche lume su un appartamento che ha ereditato, in parte, dal nonno che è morto poche settimane fa.
Un appartamento di 140mq, con un garage, degli anni 70, riscaldamento centralizzato, ben tenuto, ma un poco vecchieggiante.
Affittarlo a 850-900/mese arredato ?
Venderlo al vicino che l’ha richiesto?
Le ho detto di vendere, senza paura.
Le ho suggerito anche un prezzo che, secondo me, potrebbe essere adeguato.
Poi, Le ho consigliato di portare i soldi fuori dall’italia e dall’unione europea, legalmente.
E poi da lì farli volare via, farli sparire del tutto.
O lo si fa per mestiere, oppure avere immobili personali da porre a reddito è diventato una pena.
Il rischio, poi ,di risultare proprietari di qualcosa oltre la normale prima abitazione è troppo elevato.
In italia o si è poveri o si deve vivere come poveri.
Altrimenti sei sottoposto alla livella della redistribuzione dei redditi.
Spero che venda, che tagli la corda.
E, se possibile venda anche la casa dove abita, per poi viver in affitto in italia, e possedere all’estero.
Dove, in base alla classifica succitata , pare che la proprietà, penso anche quella immobiliare, sia rispettata.
Confrontare un paese con un’altro è sempre problematico a meno che non si accetti il dogma della tabula rasa – che tutti i popoli siano identici e che i fattori ambientali incidano sulla flora e la fauna, ma non condizionino gli esseri umani.
“Per cui, il fatto che la proprieta’ privata sia piu’ difesa in rwanda che in italia, non risolve la questione se sia preferibile il rwanda o l’italia.”
D’accordo. La mole di capitale accumulato in Italia rispetto al Rwanda ne parla chiaro. Anche se l’Italia sta consumando il suo capitale, il tenore di vita può rimanere relativamente alto, pur decrescendo.
“Anche quella materiale, di proprieta’, ha bisogno di una polizia che la difenda”
C’è sempre l’autodifesa per quanto riguarda la proprietà fisica. Come la capisco io, la proprietà privata serve a minimizzare il conflitto sociale, e per rendere questo servizio la proprietà deve essere chiaramente individuabile. Il mio terreno deve essere marcato affinché altri me ne riconoscano il possesso. Come dice correttamente Lei, le idee veramente nuove sono poche, e sarebbe praticamente impossibile determinarne obiettivamente la fonte originaria, il che aumenta e non diminuisce il conflitto sociale.
“C’è sempre l’autodifesa”
Organizzare l’autodifesa implica aumentare sempre di piu’ la propria potenza militare per far fronte a quella, a sua volta sempre in aumento per lo stesso motivo, altrui, in un processo di concentrazione che alla fine, cio’ che ci fa ottenere, e’ lo Stato. Ce l’abbiamo gia’, inutile fare la fatica di ricominciare tutto daccapo.
E’ un po’ come per la cultura, se si dovesse ricominciare ogni volta da zero, si resterebbe allo stadio di eucariota, o meno. La cultura, del resto, serve proprio a questo, a non dover ricominciare ogni volta da zero, e cio’ costituisce, intrinsecamente, anche un vincolo.
Conviene quindi, pragmaticamente, mettere le mani, per ritoccare, l’esistente, anche perche’ altro non si puo’, materialmente, fare. E’ cio’ che esiste gia’ ad impedircelo.
“Lo priva della libertà di godere pienamente dei frutti del suo lavoro.”
No, lui è libero di distribuire il suo lavoro e di farselo pagare. Ma non può impedire ad altri di fare altrettanto. Ovviamente in assenza di una legge che tutela la PI, modificherà il suo modello commerciale. Scriverà a puntate, si farà pagare in anticipo, scriverà facendo un altro lavoro, si troverà un mecenate, ecc. Tenga presente che l’infrastruttura legale è un costo pesante per la collettività, quindi abolirla significa anche ridurre i costi di scrivere (niente consulenza legale, spese processuali, ecc.).
La buona letteratura esisteva prima dell’avvento della PI.
La reductio ab absurdum della difesa statale del monopolio intellettuale porta a una polizia mondiale; le idee “rubate” verranno sfruttate nelle giurisdizioni meno rispettose verso i diritti intellettuali. Si tenderebbe perciò verso un’omologazione legislativa internazionale.
“Si tenderebbe perciò verso un’omologazione legislativa internazionale”…
…del rispetto della proprieta’ privata intellettuale, appunto. Ma cio’ non risolve il problema del perche’ quella intellettuale no, l’altra si’.
Anche quella materiale, di proprieta’, ha bisogno di una polizia che la difenda, e la giurisdizione comunque, per entrambe, e legata allo spazio in cui si svolge la comunicazione e lo scambio. Nessuno si e’ mai preoccupato economicamente del fatto che i russi avessero copiato il concorde, o la televisione, tanto sarebbero stato usati in luoghi commercialmente isolati con cui non ci sarebbe stata concorrenza, come nessuno si sarebbe mai preoccupato, qualche secolo fa, se uno di noi se ne fosse andato fuori dai confini del mondo conosciuto, in una parte disabitata e di nessuno, a piantare una bandiera e dire: qua e’ mio, se non ci fosse poi stata nessuna comunicazione con quel luogo.
Purtroppo, deve ancora nascere una ideologia, anche di tipo anarchico (il socialismo nasce abbastanza anarchico), che portata alle estreme conseguenze logiche (quelle in cui ci esercitiamo qua, incuranti del mondo la’ fuori) non sfoci nel totalitarismo. Mussolini era nato anarchico, poi fu il contatto con la realta’ politica che lo spinse, per mettere in pratica le sue idee, a diventare prima socialista e infine… tutt’altro che anarchico. Il problema e’ che l’anarchia dell’uno, quando esercitata in uno spazio comune, come diceva hilda, non e’ facile da far coesistere con l’anarchia dell’altro, come dimostra questa piaga piuttosto che plaga che e’ diventato il nostro paese. Ci vuole una grande tolleranza reciproca e un grande rispetto per la liberta’ altrui, appunto: bisogna porre l’accento sul fatto che la liberta’ dell’altro e’ importante quanto la propria, piu’ che la propria e’ importante quanto quella dell’altro. Forse e’ solo una piccola questione di cambio di punto di vista, piu’ che delle idee con le quali si vede.
Difendere la segretezza commerciale spetta alla parte interessata, non allo Stato.
@ Roberto:
Imitare qualcuno non gli priva della sua proprietà. Lui è libero di farne quello che vuole, ma non ha nessun diritto legittimo di condizionare l’uso della mia.
Lo priva della libertà di godere pienamente dei frutti del suo lavoro.
Secondo la sua logica, se lei dopo anni di duro lavoro, ricerche e investimenti produce un libro, chiunque sarebbe libero di mandarlo in stampa sostituendo il proprio nome al suo come autore.
Se il libro, prodotto del suo sforzo intellettuale e materiale, ha successo in base alle logiche del libero mercato, accettare che qualcuno possa poi sottrarle una parte dei proventi equivale ad accettare quanto accade attualmente nelle democrazie di tutto il mondo, ovvero equivale ad accettare l’esistenza di qualcuno che può appropriarsi dei frutti del lavoro altrui.
“Se il libro, prodotto del suo sforzo intellettuale e materiale”
Nemmeno questo e’ del tutto vero… cio’ che serve a produrre un libro e’ frutto dello sforzo intellettuale al 99 per cento delle generazioni che hanno preceduto lo scrittore, e che lo scrittore, in grandissima parte, ha ricevuto gratis. Cio’ che il singolo autore ha da dire di nuovo, e’ quasi nulla rispetto alla mole di informazione che ad un libro c’e’ dentro, e non e’ nemmeno facile capire se davvero c’e’ qualcosa di nuovo. Alla fine, la proprieta’ intellettuale viene fatta rispettare, come tutte le altre, con la forza, e perche’ cosi’ si decide a livello sociale, arbitrariamente, di fare. Tant’e’ che non e’ certo il rispetto o meno di tale proprieta’, in se’, a decidere del destino della collettivita’ che decida o no di praticarlo. CIo’ che differenzia la nostra civilta’ e’ solo che la Legge, quando e’ definita, e’ relativamente stabile nel tempo e uguale per tutti. Il resto e’ fuffa, e in questo ha ragione Rothbard: per via di ragionamento utilitaristico non si arriva da nessuna parte, o meglio si arriva alla necessita’ del socialismo ;)
Ma la morale, d’altra parte, consiste nel fare certe cose anche se non piacciono, e nell’accettare certe verita’ anche se sono scomode.
Quindi, cio’ che serve e’ l’arte del convincere delle proprie ragioni. Politica, insomma, o retorica che dir si voglia.
La “proprietà intellettuale” proprietà non lo è! Un monopolio tutelato dello Stato è incompatibile con la libertà.
Si potrebbe discutere a lungo dei limiti della tutela della proprietà intellettuale.
Ma se si riconosce il diritto di proprietà su ciò che un uomo produce, dato che ogni prodotto dell’uomo è sempre il risultato di uno sforzo in parte intellettuale e in parte materiale, per quale ragione non dovrebbe essere riconosciuto il diritto di proprietà su uno sforzo produttivo totalmente intellettuale?
In effetti niente di meglio della differenza di opinioni sulla legittimita’ della proprieta’ intellettuale mostra come il decidere dove fermarsi nella difesa della proprieta’ stessa sia solo una questione etico-politica, priva di ogni oggettivita’ immanente, come la recente declinazione dell’anarchismo in chiave capitalistica si scontra, eticamente, con quella socialista.
Per cui, il fatto che la proprieta’ privata sia piu’ difesa in rwanda che in italia, non risolve la questione se sia preferibile il rwanda o l’italia. Con buona pace dei ridicoli “sondaggisti” che propinano queste pagelle d’infamia con aria di oggettivita’ assoluta quando di oggettivo c’e’ solo il loro piu’ che discutibile gusto, del quale gli conviene, essere inconsapevoli.