“Con un’inflazione bassa si possono fare più acquisti? Non insegniamo forse agli studenti di economia del primo anno perché questo concetto è un errore ingenuo? Che bassa inflazione significa anche crescita inferiore degli utili e che il costo dell’inflazione non ha niente a che vedere con un ridotto potere d’acquisto?”. (P. Krugman)
Questa volta Paul Krugman critica il presidente della Bce Mario Draghi, che, nel rispondere a una domanda, ha sostenuto che con un’inflazione (intesa come crescita degli indici dei prezzi al consumo) bassa si possono fare più acquisti. Due i concetti impliciti nella parole di Draghi: il confronto è rispetto a una situazione di inflazione più elevata e a condizione che le somma di denaro disponibile per chi deve fare acquisti risulti invariata.
Si potrebbe discutere sul concetto di inflazione; considerare arbitrario il livello di crescita dei prezzi al consumo “vicina ma inferiore al 2 per cento” ritenuto ideale dalla Bce; contestare i sistemi monetari basati sul monopolio di emissione e gestione della moneta attribuito alle banche centrali e sul sistema bancario a riserva frazionaria. Tutti temi di cui mi sono già occupato più volte e sui quali non tornerò in questa sede.
Vorrei invece soffermarmi su due affermazioni di Krugman: 1) “bassa inflazione significa anche crescita inferiore degli utili” e 2) “il costo dell’inflazione non ha niente a che vedere con un ridotto potere d’acquisto”. Se questi sono concetti che insegna agli studenti di economia del primo anno, mi permetto di ritenere che quegli studenti (o le loro famiglie) stiano sprecando tempo e denaro.
Pur utilizzando la definizione di inflazione come crescita degli indici dei prezzi al consumo, non è affatto impossibile che gli utili di un’impresa crescano anche in un contesto di prezzi calanti. Questo sia nel caso in cui i prezzi dei beni prodotti e venduti da quell’impresa aumentino oppure diminuiscano meno della media; sia nel caso in cui diminuiscano anche più della media, ma al contempo diminuiscano maggiormente i costi che quella stessa impresa sostiene.
Al tempo stesso, sarebbe bene considerare le grandezze reali e non soffermarsi su quelle monetarie. Se la crescita nominale degli utili di un’impresa è inferiore alla crescita dei prezzi al consumo, gli azionisti non hanno tanto di cui rallegrarsi. Krugman probabilmente ribatterebbe che il suo è un ragionamento macro, che generalmente l’inflazione agevola i debitori (le imprese tipicamente lo sono) e, soprattutto in un contesto di disoccupazione elevata, erode il costo reale del lavoro. Questo può essere vero, ma di per sé non fa altro che evidenziare gli aspetti redistributivi dell’inflazione.
Tra l’altro finirebbe per rendere evidente anche l’assurdità del punto 2), laddove Krugman ritiene che “il costo dell’inflazione non ha niente a che vedere con un ridotto potere d’acquisto”. Qui sarei davvero curioso di sentire cosa racconta agli studenti del primo anno, perché, qualunque sia la definizione di inflazione che si adotta, mi pare davvero impossibile dimostrare che la crescita dei prezzi e la perdita di potere d’acquisto della moneta non sono due facce della stessa medaglia. Che gli alieni – l’attacco dei quali venne invocato da Krugman per indurre il governo a spendere e spandere per risollevare il Pil – possano svelare l’arcano?
Krugman ha ancora un posto di lavoro?