“La nostra impressione è che la deflazione crei dinamiche che riducono in modo persistente l’attività economica. Nello specifico, la deflazione distorce il lato dell’offerta riducendo gli incentivi a investire. Le imprese potrebbero esitare a investire in beni capitali oggi per ottenere prodotti che avranno prezzi decrescenti domani. E lo stesso argomento può essere esteso agli input del processo produttivo in generale. La deflazione crea anche distorsioni dal lato della domanda, incentivando il differimento delle spese, dato che i beni saranno meno cari in futuro.” (N. Sheets, R. A. Sockin)
Nathan Sheets e Robert Sockin sono economisti di Citigroup. Ho tratto queste parole da un loro report dedicato ai recenti sviluppi e a quelli prospettici dell’economia giapponese. Come è noto, il nuovo governo ha come priorità la “lotta alla deflazione”, da condurre (anche) mediante una politica monetaria espansiva che, oltre a far salire il livello dei prezzi al consumo, dovrebbe aumentare la competitività dei prodotti giapponesi per via della svalutazione dello yen.
Come di consueto negli approcci mainstream, i due economisti per inflazione intendono la crescita dell’indice dei prezzi al consumo invece della crescita della quantità di moneta, mentre per deflazione intendono la riduzione dei prezzi invece che della quantità di moneta. Utilizzando serie storiche di dati, hanno quindi cercato di verificare se la deflazione danneggi la crescita economica. Ebbene, pur sforzandosi arrivano alla conclusione che un calo dei prezzi di mezzo punto percentuale avrebbe effetti negativi sulla crescita del Pil di circa 0.25-0.30 punti percentuali. Il tutto, ovviamente, avendo una fiducia pressoché cieca nelle regressioni che hanno effettuato.
Arrivando a rilevare tali evidenze empiriche, Sheets e Sockin ritengono di aver dimostrato la correttezza delle loro “impressioni” circa le dinamiche provocate dalla deflazione. In sostanza, gli imprenditori smetterebbero di investire e i consumatori smetterebbero di comprare.
E’ curioso come vengano definite distorsioni quelle provocate dalla deflazione (anche in misura limitata), mentre non lo sono mai quelle provocate dall’inflazione, tranne quando i prezzi iniziano a crescere a due cifre. Una asimmetria nelle valutazioni dei fenomeni monetari che, in ultima analisi, può essere giustificata solo da un atteggiamento pregiudizialmente negativo nei confronti del risparmio e positivo nei confronti del debito.
Ciò detto, chiunque conduca argomentazioni simili a quelle riportate elude sempre un punto difficilmente compatibile con la narrazione mainstream della deflazione: lo sviluppo impressionante del settore hi-tech che da decenni attrae investimenti e consumi copiosi pur in un contesto di prezzi decrescenti per i beni prodotti.
Con gli smartphone e i televisori LCD, per fare solo un paio di esempi, la storia della deflazione che frena gli investimenti e induce a rimandare i consumi si inceppa miseramente. Eppure si tratta di trend tutt’altro che momentanei, per cui non si può affermare che le aspettative di imprese e consumatori siano distorte da fattori estemporanei.
Credo quindi, che sarebbe il caso di riflettere maggiormente sul mantra del consumo rimandato, per almeno due motivi. In primo luogo, perché nessun consumo di beni ritenuti necessari viene rimandato (reddito permettendo, ma questo è un altro discorso). In secondo luogo, perché anche nell’ipotesi in cui un acquisto venga momentaneamente rimandato in attesa di un calo dei prezzi, non significa che venga definitivamente annullato, mentre dal ragionamento di Sheets e Sockin pare che si innesti un circolo vizioso per cui ogni decisione di acquisto viene sempre rimandata. Se così fosse, l’umanità si estinguerebbe morendo di stenti in attesa di prezzi inferiori a quelli attuali, uno scenario che lascio credere ai keynesiani.
Sono decenni ormai in cui l’aumento (moderato) dei prezzi è dipinto come benefico mentre una diminuzione è considerata, a prescindere, fonte di ogni male. E la più grande presunzione degli statalisti di qualsiasi orientamento è stata quella di manipolare la moneta e i tassi di interesse al fine di ottenere il livello dei prezzi a essi gradito. I disastri sin qui provocati, sia in termini di distorsioni nei prezzi relativi, sia come oscillazioni nei livelli degli indici di prezzi (arbitrariamente costruiti), dovrebbero però sconsigliare dal continuare a dare ascolto ai sostenitori del “moderato aumento dei prezzi”.
Sottoscrivo. C’è un interessante saggio di Hülsmann (Deflation and Liberty) che sviluppa proprio la tesi dell’articolo. Posto che l’inflazione (ossia l’esproprio del valore di acquisto della moneta attraverso la messa in circolazione di moneta fiat da parte delle banche centrali e commerciali) determina una redistribuzione distorsiva della ricchezza (a vantaggio dei primi prenditori della moneta inflazionaria, la deflazione (e cioè la riduzione della quantità di moneta in circolazione) determina essa stessa una redistribuzione, ma in senso eticamente lodevole, a vantaggio del risparmio e del potere di acquisto. La deflazione sarebbe in grado, quindi, di correggere gli effetti immorali dell’inflazione. Non c’è da stupirsi, quindi, che sia la bestia nera degli economisti mainstream.
A chi è interessato alle valute in regime deflazionistico segnalo la moneta virtuale Bitcoin. Essa è basata su un sistema per cui attualmente ci sono in circolo circa 10 milioni di bitcoin e intorno al 2030 i bitcoin saranno circa 21 milioni, dopo di che non saranno mai più generati e quindi subiranno un processo di deflazione. A quel punto sarà interessante verificare che cosa succederà.