In Anti & Politica, Economia

DI DAMIANO MONDINI

Premetto innanzitutto di aver firmato senza esitazione il manifesto promosso nelle scorse settimane dal giornalista Oscar Giannino, per la stima personale da me provata nei confronti suoi e di numerosi altri firmatari dell’iniziativa. Va riconosciuto che le dieci proposte di “Fermare il Declino” sono, nell’attuale disastrato panorama politico, una boccata d’aria fresca. Dinnanzi ad un PDL ormai completamente deragliato dal binario della Libertà, ad un PD che ha deviato da esso molto tempo fa e alle altre forze politiche minori lontane anni luce degli ideali liberali (con eccezioni talmente rare e puntiformi da essere irrilevanti), risulta difficile non apprezzare questo barlume di speranza. Sono per attitudine incline all’ottimismo, nondimeno vorrei evitare di cedere ad un eccessivo entusiasmo nei riguardi di questa iniziativa. Benché ne apprezzi alcune sollecitazioni, e ne comprenda gli intento di fondo, mi sento comunque in dovere di avanzare alcune personalissime riserve, sia sull’impianto generale che su alcuni particolari delle dieci proposte. In primo luogo, rilevo con profondo dispiacere l’esplicito intento dei promotori di espungere qualsivoglia orizzonte ideologico dal progetto: se comprendo perfettamente la ratio di una tale operazione (ovvero imbarcare quanti più sostenitori possibili dalle svariate sensibilità politiche), ritengo in ogni caso più dannoso che altro il mancato ancoramento ai solidi ideali liberali che questa associazione dovrebbe portare avanti; in questo modo, pur ammettendo di moltiplicare i consensi, si rischia di cadere in quell’opportunismo che avvelena la politica da troppo tempo. Non soltanto questo mi fa sospettare un atteggiamento opportunista da parte dei promotori: anche l’estrema prudenza mostrata nei dettagli delle proposte mi fa temere che questo gradualismo si tradurrà (nella migliore delle ipotesi) in un futile immobilismo, sempre che l’intento compromissorio non finirà per far avallare dei passi indietro invece che dei timidi passi avanti. A tal proposito, taccio per amor di patria di alcuni rumors che vorrebbero l’iniziativa di Giannino vicina ad ambienti confindustriali (ricordo che Confindustria vuol dire mercantilismo, non libero mercato!), pidiellini o leghisti; spero siano solo calunnie, e perciò non intendo avallare il dubbio discutendone. Veniamo ora ad una breve analisi delle “10 proposte”, che schematizzo per rendere più gradevole la lettura:

1) Ridurre l’ammontare del debito pubblico. E’ chiaro che questa deve essere la bussola di qualsiasi movimento/partito politico, soprattutto allorquando si trova ad occupare incarichi di governo o a sedere nelle nobili aule del Palazzo. Se davvero lo si facesse scendere sotto la soglia del 100% del PIL attraverso cessioni di attivi patrimoniali pubblici (immobili, partecipazioni azionarie), privatizzazioni/liberalizzazioni dei servizi e drastici tagli di spesa (magari anche dei costi della politica), sarei assolutamente d’accordo. L’importante è che non si continui a fare aggio sull’avanzo primario, ossia spremendo i contribuenti con nuove tasse e aliquote sempre più vertiginose, o magari inventandosi un’altra patrimoniale sul lusso per punire l’antisociale egoismo dei “ricchi”, o un prelievo forzoso sui conti correnti sul modello Amato. Poiché mi pare che Giannino escluda categoricamente questa seconda opzione e sostenga con forza la prima, direi che su questo mi trova assolutamente dalla sua parte.

2) Ridurre la spesa pubblica di almeno 6 punti percentuali del PIL nell’arco di 5 anni. Ho appena detto che i tagli di spesa dovranno essere drastici: se optiamo invece per questo stomachevole gradualismo, prima che le decurtazioni di spesa facciano sentire i loro effetti benefici e permettano di ridurre la pressione fiscale temo che saremo al parco giochi coi nostri pronipoti (intendeva forse questo John Maynard Keynes quando disse che “nel lungo periodo saremo tutto morti”?). Si dovrebbero invece rigettare una volta per tutte le logiche parassitarie della spesa finalizzata alla crescita e le indecenze dell’ideale socialista della redistribuzione. E’ però necessario farlo nel più breve tempo possibile, prima che il sistema si renda del tutto irriformabile, condannandosi così ad un impietoso (ma forse inevitabile) fallimento. E dubito seriamente che, nelle attuali condizioni sociali ma soprattutto culturali, il default aprirebbe le porte ad un futuro libertario: più che la rivoluzione americana ci attende il tracollo di Weimar.

3) Ridurre la pressione fiscale complessiva di almeno 5 punti in 5 anni. E’ inutile che mi ripeta: chiaramente si va nella direzione giusta (ricordo il motto del Tea Party, “meno tasse e più libertà!”), ma con questi ritmi non solo fra cinque anni saremo sostanzialmente al punto di prima, ma considerando come funziona la politica c’è seriamente da sospettare che staremo messi sempre peggio. Ricordo che attualmente la pressione fiscale “ufficiale” si situa intorno al 45% e quella realmente percepita dai contribuenti al 55%; persino Attilio Befera qualche settimana fa sosteneva, con una notevole faccia tosta, che alcuni imprenditori sopportano anche un livello di imposizione fiscale vicino al 70%, vivendo cioè per mantenere quella bestiaccia famelica dello Stato. E qualcuno crede veramente che con la flemma di questa proposta arriveremo mai da qualche parte? E’ opinione mia, oltre che del suddetto Tea Party, che Giannino dovrebbe piuttosto richiedere riforme più concrete: una riduzione generalizzata, rapida e significativa degli oneri fiscali, privilegiando innanzitutto lavoratori autonomi, dipendenti, piccole e medie imprese; una semplificazione delle pratiche di riscossione; una revisione in senso “umanitario” del controllo fiscale che, ai livelli attuali, ci rende di fatto sudditi di uno Stato di polizia tributaria (si veda in proposito il pamphlet Sudditi edito da IBL Libri); l’abolizione della figura giuridica deleteria e liberticida del sostituto d’imposta, contro cui si batte da tempo il grande Giorgio Fidenato; l’ottenimento, infine, della tanto agognata Flat Tax, una “tassa piatta” in grado di garantire a tutti la medesima aliquota, necessariamente inferiore alla minore aliquota attuale.

4) Liberalizzare rapidamente i settori ancora non completamente concorrenziali. Nella fattispecie si tratta di privatizzare/liberalizzare servizi e società pubbliche (prima fra tutte la RAI, con annessa abolizione del canone per la gioia dei Tea Party), rendere la concorrenza il fulcro della nostra economia e contrastare monopoli e privilegi d’ogni sorta. E’ questa una tappa ineludibile di ogni road-map che intenda seriamente smantellare il corportativismo di Stato, estirpando alla radice quelle logiche clientelari e parassitarie che funestano il sistema economico italiano. Suggerirei in ogni caso ai commandos di Giannino di ribadire con forza la fondamentale distinzione fra monopoli/oligopoli legali, ossia gestiti, costituiti o comunque protetti dai pubblici poteri, e monopoli/oligopoli di fatto, conseguenze spesso inevitabili, ma per nulla tragiche e quanto mai transeunte, del continuo processo evolutivo che caratterizza il libero mercato; non vorrei insomma che nel limpido liberalismo di questa proposta si insinuassero capziosi costrutti economici di matrice neoclassica, che con l’ossessione walrasiana per l’equilibrio di mercato tanto male hanno fatto all’autentica concorrenza, e che stanno alla base della micidiale moderna legislazione antitrust (si vedano a questo proposito gli studi di Alberto Mingardi ed Enrico Colombatto pubblicati da IBL Libri)

5) Sostenere i livelli di reddito di chi momentaneamente perde il lavoro anziché tutelare il posto di lavoro esistente o le imprese inefficienti. Nella specifica si fa esplicitamente riferimento ad un “sussidio di disoccupazione” che dovrebbe essere dispensato – presumo – dallo Stato, e finanziato con gioia – continuo a presumere – dai contribuenti. Sia chiaro: passare dall’attuale ipertrofica difesa del posto di lavoro e delle imprese decotte, con tutta la cancrena che questa comporta, ad una più elastica tutela del singolo lavoratore rappresenta certamente un passo avanti; e in questo senso è confortante sentire che il ministro del Welfare, Elsa Fornero, è di questo parere e può affermare senza tema che “il lavoro non è un diritto”. Non posso comunque esimermi dall’esprimere pesanti dubbi riguardo all’efficacia dell’introduzione di un salario minimo fornito con la forza della coercizione (leggi “imposizione fiscale”) dalla parte produttiva del paese a quella, vuoi anche incolpevolmente, improduttiva. Più sensato sarebbe incentivare e defiscalizzare pratiche di assicurazione volontaria, carità privata, mutuo soccorso e solidarismo spontaneo sul modello no-profit. Debellare i privilegi sindacali e decurtare pesantemente la tassazione su lavoro e impresa sarebbe altresì un modo per favorire l’occupazione, molto più efficace dell’incentivo pubblico a rimanere disoccupati. In caso contrario le retoriche dello welfarismo redistributivo continueranno a fornire un valido argomento per le strumentalizzazioni di marca statalista, e dubito che tale sia l’intento dei firmatari dell’iniziativa.

6) Adottare immediatamente una legislazione organica sul conflitto d’interesse. Noto con sorpresa la comparsa, per la prima volta nel manifesto, dell’avverbio “immediatamente”, e apprendo con vivo stupore che esso non è seguito da espressioni quali “decurtare la pressione fiscale”, “ridurre la spesa pubblica” o “liberalizzare i servizi” (quest’ultima operazione è da svolgersi soltanto “rapidamente”). Esso viene invece utilizzato per la prima ed unica volta per auspicare una legislazione sul conflitto d’interesse che, al di là della sua intrinseca utilità, pare di meno cogente necessità rispetto alle riforme appena citate. Dal “liberista” Giannino mi sarei aspettato una maggiore solerzia nei riguardi del ridimensionamento dello Stato e nella promozione del mercato. Questo punto mi pare un tentativo, decisamente goffo, di ingraziarsi una parte dell’intellighenzia giustizialista che, poco interessata al riformismo liberale, potrebbe venir attratta da eccitanti prospettive di una ulteriore regolamentazione legislativa e giudiziaria dell’economia. Che la lotta alla corruzione, pratica questa tipicamente statale, debba essere posta in essere – “immediatamente”! – dallo Stato medesimo, mi pare poi una assurdità logica poco degna dell’onestà intellettuale di Giannino. Sospetto quindi che vi sia lo zampino di qualche legalista promotore del manifesto; ciò nondimeno mi esimo dal far nomi.

7) Far funzionare la giustizia. Sostanzialmente si tratta di renderla più rapida, efficiente e competitiva, oltre che indipendente dai gruppi di potere e dalla longa manu della politica. Ovviamente nulla da obiettare, anche se da un senior fellow dell’Istituto Bruno Leoni (che anche dal nome si capisce essere particolarmente sensibile al tema della giustizia) mi sarei aspettato una tematizzazione esplicita di riforme più marcatamente liberali, come la promozione in sede civile, penale e amministrativa di pratiche di arbitrato. Da anarco-capitalista dovrei poi forse azzardarmi a parlare di denazionalizzazione/privatizzazione delle attività di law and order, ma un rassegnato realismo mi impone di soprassedere.

8) Liberare le potenzialità di crescita, lavoro e creatività dei giovani e delle donne. L’intento è chiaramente meritorio essendo la crescita, il lavoro e la creatività connotati essenziali di un’economia di mercato. L’importante è che la crescita non sia finanziata a suon di spesa pubblica, perché in tal caso darebbe luogo ad uno sviluppo soltanto fittizio di alcuni settori, rinvigorendo per giunta il parassitismo dilagante e avvantaggiando i soliti noti in grado di ingraziarsi qualche pubblico ufficiale ben disposto. Che poi i sussidi di disoccupazione servano ad incentivare l’occupazione mi pare un’evidente non sequitur, come pure sono dubbioso riguardo alle quote rosa e alle “quote giovani” coatte, quando al centro dell’attenzione dovrebbero esserci le competenze personali, il know how e una sana competizione volta all’efficienza e al miglioramento. Fa comunque piacere leggere di una ritrovata meritocrazia di cui abbiamo estremo bisogno, come pure del proposito di “facilitare la creazione di nuove imprese”, magari rimuovendo ostacoli all’offerta (leggi meno burocrazia, meno tasse, meno regolamentazione, meno oppressione sindacale, meno corporativismo): chissà che magari non tornino di moda la supply-side economics e la curva di Laffer.

9) Ridare alla scuola e all’università il ruolo, perso da tempo, di volani dell’emancipazione socio-economica delle nuove generazioni. Lo si dice esplicitamente: lo Stato non dovrà, in questi settori, spendere meno; dovrà spendere di più e meglio. Sappiamo dove porta la retorica della “razionalizzazione delle spese”: a tagli inconsistenti sul modello montiano della spending review e magari all’incremento di altre voci di spesa ritenute indispensabili da quella stessa intellighenzia intellettuale che se ne avvantaggia. Non vi è naturalmente nulla di sbagliato nell’introdurre nel sistema scolastico elementi di concorrenza fra istituti, meritocrazia per alunni e docenti e sostegno al merito; accolgo altresì con rinnovata gioia la proposta, che sostengo da tempo in prima linea e a cui sono particolarmente affezionato, di abolizione del valore legale del titolo di studio (lo dice anche il “progetto di libertà” del Tea Party: è l’unico modo per evitare che la scuola rimanga quel titolificio corrotto e inefficiente che è). L’incapacità cronica della macchina statale di gestire con efficienza e prontezza la scuola pare tuttavia ormai endemica (e non è colpa dei “tagli” della Gelmini, che erano solo riduzioni di previsioni di aumento di spesa, cosicché i soldi per la scuola venivano ogni anno incrementati): sarebbe dunque necessario auspicare forme di finanziamento e gestione privata della scuola, magari favorendo un legame più stretto col mondo dell’impresa; il settore andrebbe inoltre liberalizzato, evitando così a chi voglia servirsene sul mercato di pagare cifre astronomiche conseguenze dei mille balzelli imposti dallo Stato agli istituti privati, oltre che di una mancanza di vera concorrenza causata dall’iper-regolamentazione. In prima battuta non sarebbe poi così catastrofico adottare il sistema dei vouchers delineato da Milton Friedman e promuovere l’homeschooling, che sono peraltro da tempo battaglie sostenute con forza dell’Istituto Bruno Leoni.

10) Introdurre il vero federalismo con l’attribuzione di ruoli chiari e coerenti ai diversi livelli di governo. Il federalismo fiscale e amministrativo, nella formulazione datane dalla riforma del centrosinistra del titolo V e dalle successive integrazioni leghiste, ha dato ampie dimostrazioni del proprio vergognoso fallimento. Un tema caro ai libertari e a chi lotta per l’autodeterminazione è stato così vituperato e screditato dall’uso deleterio che ne hanno fatto le nostre beneamate élites politiche, che personalmente, divergendo dall’analisi del grande Gaetano Mosca, definirei una minoranza disorganizzata. Dubito di conseguenza che siano sufficienti la richiesta di maggior trasparenza, lo spauracchio della gogna e il premio ad una gestione oculata per risanarne le attuali numerosissime “linee di faglia”. Se nella logica concorrenziale del mercato l’apologo del bastone e della carota funziona (se lavori bene e ad un buon prezzo prosperi, altrimenti sei fuori gioco), esso ha molta meno presa nell’amministrazione pubblica, in cui i lavativi raramente vengono puniti (leggi “licenziati in tronco senza tutele ex articolo 18”) e i meritevoli continuano con ogni probabilità a far la fame nel regno di “Mediocristan”, per citare Il cigno nero di Nassim Taleb. L’autentico federalismo non può dunque prescindere da una più ampia riforma dell’apparato pubblico, da una semplificazione burocratica e da una preventiva liberalizzazione di quegli svariati servizi che il mercato saprebbe gestire molto meglio e a prezzi concorrenziali. Solo così sarà auspicabile una progressiva decentralizzazione delle funzione amministrative e, perché no, altresì di quelle legislative, esecutive e giudiziarie. Va inoltre ribadito che l’autonomia di spesa degli enti locali non va intesa come un’autorizzazione ad indirizzare in senso vertiginosamente incrementale le uscite, a danno dei cittadini strozzati dalle gabelle e mazziati a suon di debito; è poi necessario che eventuali inefficienze di singoli enti territoriali siano tamponate dagli stessi in prima persona, magari con dismissioni patrimoniali e tagli di spesa, e non spalmate sull’intero Paese grazie a tempestivi sussidi e salvataggi di Stato. A tal ultimo proposito, taccio per amor di patria (in senso letterale)  della “questione meridionale” e di come essa andrebbe realmente risolta: qui habet aures audiendi, audiat.

Concludendo, è possibile affermare che in queste dieci proposte c’è sì molto di positivo e auspicabile, ma altrettanto di negativo ed esecrabile. Il marcato opportunismo non è tuttavia confermato soltanto da ciò che c’è nel manifesto, bensì soprattutto da ciò che manca. Non vi è infatti traccia di quella che un economista italiano di Scuola Austriaca che stimo molto, Francesco Carbone, ha definito come la questione fondamentale da dirimere in un’ottica libertaria, vale a dire la politica monetaria. Come del resto potremmo definire autenticamente liberale/liberista un’economia basata sulla discrezionalità monetaria e la gestione arbitraria dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali (FED in America e BCE in Europa)? L’espansionismo monetario che (ribadiamolo) sta all’origine dell’attuale crisi economica, così come del crack del 1929, non è una questione marginale: è il nocciolo fondamentale del problema, o quanto meno ne è parte integrante. Ignorarla per spirito opportunistico o – non voglio pensarlo – per disonestà intellettuale è probabilmente il peggior errore compiuto da Giannino e da quanti intorno a lui si autoproclamano difensori del libero mercato. Fintanto che non si mette in discussione la sovranità monetaria dei governi e delle banche centrali non si può in alcun modo definirsi tali: o meglio, si può, come fanno gli economisti della Scuola di Chicago, ma con risultati deleteri che rischiano di affossare invece che innalzare i valori di un autentico liberalismo.

P.S.= Leggo in questi giorni con rammarico che Oscar Giannino avrebbe in animo di privatizzare alcune grande aziende mantenendo la golden share (ovvero la “partecipazione d’oro” dello Stato) per “evidenti motivi di utilità nazionale strategica”. Questo è più che essere oppurtunisti: è essere ipocriti.

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Showing 11 comments
  • Albert Nextein

    Giannino parte con la lancia in resta.
    E poi se la fa sotto strada facendo.
    Giannino non ha attraversato il guado che conduce al libertarismo.
    Si trova a metà strada.
    Va a finire che arretra, invece di completare l’attraversamento.

    • Roberto

      Ridurre del 5% la pressione fiscale sarebbe essere a metà strada?
      Giannino, proclami in radio a parte, non ha fatto neanche mezzo passo.

  • Antonino Trunfio

    Ricordo solo che in un “libro” di circa duemila anni fa sta scritto : “non si può mettere vino nuovo in otri vecchi”. Solo per dirne una : pare che sul carrozzone di Giannino sia salito tale Chicco Testa, il cui curriculum di boiardo di stato è esemplare, e di cui il Corrirere della Sera nel lontano 1996 scriveva :

    “DA AMBIENTALISTA A MANAGER. Corriere, 23 giugno 1996, Francesco Merlo: “Chicco e’ stato il primo di quella generazione di bravi bambini di sinistra a trasformarsi in un manager pubblico prodiano, un giovane boiardo, allevato, come sempre e’ successo con i boiardi d’ Italia, non nella scuola della pubblica amministrazione ma nel laboratorio di un partito, dalla federazione giovanile sino a Montecitorio, benché il ruolo specialissimo di Chicco, nel Pci in trasformazione, fosse quello del monello, sia pure bergamasco milanese, e dunque un po’ fighetto e un po’ scugnizzo…”

    Adesso regolatevi, se con le sue buone intenzioni il grande Oscar Giannino, potrà salvare l’Italia dalla metastasi da cui è ormail dilanianta profondamente.

    • Damiano Mondini

      Chicco Testa insieme a Giannino??? Questo aggrava di molto il mio già traballante giudizio. Direi che le sorti di “Fermare il Declino” peggiorano di minuto in minuto. Manca solo l’endorsement di Alfano…

      • leonardofaccoeditore

        Sì, l’ho scoperto in trasmissione in Rai. Io non mi son meravigliato, data la democristianeria volgare di FID (e di certi voltagabbana che ci stan dietro).

        • Damiano Mondini

          Ho controllato. Il caro Chicco compare addirittura fra i primi firmatari del manifesto. C’est la vie…

  • zenzero

    Concordo

  • Roberto

    La raccolta fiscale dello stato italiano (stando a dati ufficiali) nel 2011 è stata di 411 miliardi.
    Di questi:

    – 89 miliardi spesi in interessi sul debito.
    – 5 miliardi circa per aiuti alla Grecia.
    – 60 miliardi bruciati in sprechi (stima per difetto della Corte dei Conti)
    – 180 miliardi sono stati trasferiti alle amministrazioni locali che a loro volta ne hanno utilizzato buona parte per ripianare (senza riuscirci) debiti contratti con operazioni di finanziamento con derivati.
    – 19 miliardi sono stati spesi per forniture militari e coprire le spese per finanziare le famose guerre di “esportazione di democrazia”.
    – Una quantità imprecisata (enorme) di miliardi viene spesa per pagare milioni di dipendenti pubblici di cui si potrebbe fare a meno.

    e la cosa migliore che Giannino e soci hanno saputo partorire è questo manifesto di riduzione del debito del 5% e di pressione fiscale del 5%?
    Quel manifesto è per i veri libertari soltanto una presa in giro.
    Gridare “governo ladro” ad un governo che è effettivamente ladro, per poi presentare proposte in puro stile governativo trovo sia di cattivo gusto e offensivo per l’intelligenza di un cittadino cosciente dei furti a norma di legge a cui è sottoposto.

    • Stefano

      Concordo

  • CARLO BUTTI

    Ho l’impressione che Giannino stia commettendo lo stesso errore in cui sono caduti tutti coloro che, magari con le migliori intenzioni ma con scarso senso critico, hanno tentato di dar vita a quell’ossimoro che va sotto il nome di”partito liberale di massa”,dove la specificazione(“di massa”) fa palesemente a pugni con l’aggettivo(“liberale”): per allargare un consenso che altrimenti rersterebbe piuttosto esiguo(la massa ama la sicurezza, non la libertà, il liberalismo è per natura aristocratico, è il credo degli”àristoi”, i migliori) accosta nel suo manifesto propositi genuinamente liberali ad altri di segno opposto. Il risultato sarà il solito: i liberali autentici e i libertari storceranno il naso e si volteranno da un’altra parte, la massa sceglierà forze politiche più chiaramente in sintonia con le proprie aspettative. Giannino o Giannini? Nomen omen….

  • MauroLIB

    Quindi, Forza Evasori!

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