Grazie a decenni di ricerca, il neurobiologo James McGaugh ha scoperto che la parte del cervello conosciuta come “amigdala”, a seguito dell’apprendimento di nuove informazioni e a fronte di nuove esperienze, gioca un ruolo chiave nella memorizzazione delle informazioni; essa viene attivata da ormoni e altri stimoli esterni. Il consolidamento della memoria o la formazione della memoria a lungo termine sono tipicamente modulate dall’amigdala. Per dirla in parole povere, gli eventi che provocano intense emozioni restano impressi maggiormente nel cervello.
L’emozione, pur essendo un elemento importante nell’attrezzatura mentale di ognuno di noi, può, sfortunatamente, trionfare sulla ragione in alcuni campi fondamentali: la rabbia eccessiva può portare a violenti litigi; delusioni cocenti possono portarci a compiere gesti insani per riconquistare l’amore perduto. In campo economico, l’establishment intellettuale odierno spesso malvede il buonsenso, sposando invece politiche cariche di emotività che poggiano su sentimenti quali l’invidia, la gelosia e il patriottismo cieco. Tecniche del genere sono spesso utilizzate da progressisti, i quali lottano per la progressività della tassazione e la redistribuzione del reddito, apparendo come gli alfieri della lotta alla povertà. Toccare le corde emotive dell’invidia rende più facile la diffusione e accettazione generale dell’intervento pubblico nell’economia.
A seguito della crisi finanziaria del 2008, la crescita economica ha prevedibilmente subito un rallentamento nella maggior parte dei paesi industrializzati. Molti commentatori sinistrorsi hanno colto al volo l’opportunità per sottolineare come la disuguaglianza dei redditi negli Stati Uniti sia oramai insostenibile e concausa del crash finanziario; alla retorica si accompagna, spesso, la proposta di alzare le tasse ai ricchi al fine di riequilibrare il reddito individuale. Viene sostenuta la necessità dell’intervento pubblico stile Robin Hood: questo sarebbe sempre giustificato e necessario in queste circostanze, al fine di attenuare le disuguaglianze.
Attualmente, la disuguaglianza dei redditi, in America, è al massimo degli ultimi decenni. Nel 2011, uno studio del Congressional Budget Office riportò un aumento del reddito del 275% per l’1% più ricco tra il 1979 e il 2007. Il quinto più ricco del paese ha visto un aumento percentuale di 10 punti nella sua fetta di reddito totale, mentre gli altri gruppi hanno subito una diminuzione di 2-3 punti. I dati mostrano, senza dubbio, un aumento della disuguaglianza nei decenni trascorsi. L’editorialista del NewYork Times ed economista, Paul Krugman, si è lanciato nell’analisi dei dati, suggerendo come la crescente disuguaglianza abbia giocato un ruolo importante nel provocare le recessioni. L’economista Joseph Stiglitz, che ultimamente ha scritto il libro “Il prezzo della disuguaglianza”, ha sostenuto che senza una quota adeguata di reddito nazionale, la classe media non può spendere abbastanza per mantenere la domanda aggregata elevata. Entrambi vedono la disuguaglianza come un pericolo per la prosperità nazionale. Un messaggio del genere attira le masse, poiché gioca con la loro percezione di ingiustizia generale del nostro mondo. Sembra intuitivo ritenere che i ricchi possiedano troppa ricchezza o che una società prospera debba avere più uguaglianza reddituale. La comodità fornita dalla fede in simili logiche spiana la strada agli sforzi redistributivi della classe politica.
Con lo scatenarsi dei dibattiti sull’argomento, nel quinto anno della più grande crisi dai tempi della Grande Depressione, la domanda rimane: la disuguaglianza dei redditi ha un impatto negativo sulla società, come suggeriscono Stiglitz e Krugman? E la crescente disuguaglianza è frutto del capitalismo?
Innanzitutto, l’idea stessa di uguaglianza fisica, mentale e materiale è, essenzialmente, anti umana. L’aspetto più intrigante della specie risiede nel fatto che ogni persona differisce dall’altra per una miriade di aspetti: alcuni sono atleti migliori, altri più portati a studiare, altri ancora hanno caratteristiche maggiormente attrattive. Va da sé che ogni uomo o donna sarà più propenso/a a produrre o soddisfare le domande del mercato. Questi individui avranno redditi maggiori grazie alla loro imprenditorialità o capacità di produrre. Quindi, in un certo senso, la disuguaglianza dei redditi è implicita nel libero mercato. Ma è la possibilità della disuguaglianza e della capacità di ottenere un reddito maggiore che fa funzionare il capitalismo: punire coloro che eccellono nel soddisfare i consumatori equivale a sanzionare il meccanismo che porta a standard di vita migliori ovunque. In una società libera, la disuguaglianza dei redditi non è “buona” o “cattiva”: è semplicemente parte dell’ordine sociale. Qualsiasi tentativo di eliminare le disguguaglianze attraverso l’intervento pubblico costituisce un ingiustificabile saccheggio dei legittimi percettori di ricchezza.
Che dire della disuguaglianza odierna, nell’era dell’economia corporativista di stato? L’1% ha acquisito la sua ricchezza traverso il duro lavoro? La risposta è difficile. Sebbene vi siano molti imprenditori innovativi, che diventano ricchi fornendo nuovi e migliori prodotti, l’aumento della disuguaglianza nei due decenni trascorsi è dovuto ad un fenomeno estraneo al mercato; Krugman e Stiglitz, a ragione, fanno notare che il periodo di maggiore disuguaglianza negli Stati Uniti si ebbe nell’ultima parte degli anni ’20 e alla metà degli anni ’90. Ciò che essi non menzionano è la caratteristica principale di questi periodi: non si trattava di capitalismo selvaggio, ma di massiccia espansione creditizia. Questa espansione, appoggiata dalle allegre politiche monetarie della Federal Reserve, è il vero colpevole della vasta disuguaglianza. L’economista George Reisman spiega:
I nuovi fondi addizionali, creati nell’espansione, accedono ai mercati finanziaeri molto presto, spingendo in alto i prezzi delle obbligazioni e, soprattutto, delle azioni. I proprietari di queste sono, perlopiù, individui ricchi, che ora beneficiano dei sostanziali guadagni capitali i quali, più l’espansione viene prolungata, più essi aumentano, portando verso le stelle i prezzi. Nel processo di nuova moneta che si riversa nei mercati finanziari, le banche di investimento e gli speculatori sono in grado di racimolare grandi guadagni.
Poiché troppo importante, merita di essere ripetuto: l’espansione del credito crea una disuguaglianza economica artificiale riversandosi nei mercati azionari e spingendo verso l’alto i prezzi delle azioni”.
La moneta funge da mezzo di scambio ma non è neutrale nei suoi effetti sul ricevente: coloro che ricevono per primi possono far salire i prezzi dei beni prima degli altri attori del mercato. Man mano che la moneta creata precipita nell’economia, il livello dei prezzi aumenta, al fine di riflettere il nuovo volume di valuta. In pratica, l’espansione creditizia, che porta una riduzione dei tassi di interesse, aumenta anche la quantità di tempo nella quale le imprese possono andare avanti senza effettuare svalutazioni per ammortamenti nei loro bilanci, acquistando nuovi beni capitali. Poiché l’investimento tende a dirigersi verso beni durevoli, durante l’espansione ci sono meno fondi da destinare al lavoro. Si registrano lauti profitti, mentre i salari fan fatica a seguire il passo. Poiché l’espansione creditizia e la politica inflazionistica continuano a distorcere i prezzi relativi e devono, alla fine, giungere al termine, il bust che si verifica rivela i cattivi nvestimenti. Larecessione arriva poco tempo dopo.
Stampare moneta non equivale ad accumulare risparmi utili a sostenere investimenti. È solo attraverso l’aggiunta di risparmi reali che la capacità produttiva può essere aumentata nel lungo termine. I ricchi hanno una più alta propensione al risparmio, poiché hanno più reddito; solo attraverso i risparmi nuove attività sono sostenute e l’economia può crescere senza i falsi profitti derivanti dall’espansione promossa dallo Stato. Aumentare le tasse ai ricchi, quindi, non è una soluzione al problema della disuguaglianza dei redditi: la tassazione sottrae solamente risorse al settore privato per destinarle a quello pubblico, che si concentra sulla spesa politica piuttosto che sulla soddisfazione del consumatore. Tutta la spesa pubblica si riduce ad uno spreco di capitale. La verità è che il capitale è sempre scarso; non ve ne è mai abbastanza.
Far notare ciò non significa essere burattini delle corporazioni. Molte corporazioni e imprese sponsorizzano gli aumenti di tassazione al fine di caricare eccessivamente i propri concorrenti. Attualmente in California, il Governatore Jerry Brown sta promuovendo una misura, da sottoporre all’elettorato, che aumenterebbe le tasse ai residenti più ricchi. Secondo il Wall Street Journal, imprese come Disney, NBC, Warner Bros., Viacom, CBS e Sony hanno già destinato 100.000 dollari ciascuna all’iniziativa. Diverse imprese energetiche stanno finanziariamente supportando la misura, per evitare una futura tassa del 25% sul gas naturale e sull’estrazione di petrolio. Man mano che l’ambito statale si estende, le grandi imprese iniziano a vedere opportunità di profitto nell’uso della forza pubblica, al fine di migliorare la propria posizione rispetto ai concorrenti. Nella loro incessante filippica contro la disuguaglianza, Stigliz e Krugman riconoscono i problemi che le dinamiche di rent-seeking pongono ai mercati, ma entrambi attribuiscono queste non allo stato ma ai politici e burocrati che occupano gli uffici pubblici. Per dirla chiaramente, questa credenza non è solo infantile; poggia sull’erroneo assunto per il quale il governo sia sempre composto dagli individui più idonei al compito presenti nella società. Come la storia e la logica insegnano, le anime pie non sono attratte da posizioni di potere assoluto. Lo stato, nelle parole di Max Weber, detiene il monopolio della forza in una data area. Praticamente ogni azione compiuta dagli ufficiali pubblici introduce violenza o il bottino di essa in una altrimenti libera società; ne segue che solamente coloro in cerca dell’utilizzo dell’autorità statale per i propri fini gravitano intorno alla politica.
Krugman e Stiglitz credono, come la maggior parte delle persone, che gli Americani dovrebbero nascere con la stessa opportunità di avere successo. Al fine di creare un ambiente di giustizia, essi propongono una varietà di politiche pubbliche dimodoché anche il più povero degli individui abbia la possibilità di essere parte del Sogno Americano. Queste convinzioni poggiano più sull’emotività che sulla ragione e hanno lo scopo di ispirare proteste reazionarie. Ciò che non vedono (o rifiutano di vedere) è che il libero mercato fornisce le migliori opportunità di vita attraverso la fornitura di beni e servizi al consumatore. In un libero mercato totale, i profitti giungono solo a coloro che riescono a soddisfare meglio i consumatori rispetto ai propri concorrenti. Contrariamente al suggerimento di Stiglitz, Henry Ford non fu un grande imprenditore poiché pagò profumatamente i suoi operai: egli fece la sua fortuna attraverso la razionalizzazione del processo attraverso cui le macchine sono costruite, al fine di abbattere i prezzi al consumo. I lavoratori della Ford furono capaci di aumentare la produttività, e quindi i salari, attraverso la precedente accumulazione capitale e gli investimenti in macchinari e attrezzature. Tuttavia, i grandi profitti di Ford non durarono molto: i concorrenti stranieri ed esteri copiarono il suo modello produttivo e furono capaci di attrarre a sé quote importanti di mercato. Più macchine sul mercato significavano minori prezzi per il consumatore.
Ancora, in un vero libero mercato, l’unico modo di mantenere un reddito crescente è produrre ad un tasso sempre più efficiente e innovativo; in un’economia afflitta dalla mano pesante dello Stato, il mercato viene truccato dagli individui connessi con l’establishment. La competizione diminuisce a causa dell’alto costo della regolamentazione, l’innovazione si ferma e sempre maggior reddito arriva ai più ricchi. Attraverso la banca centrale e l’espansione creditizia, i profitti sono registrati dall’industria finanziaria e dai primi ricevitori della moneta; il che, alla fine, produce ulteriore disuguaglianza reddituale.
Comunque la si metta, la tassazione è un furto. Non è distinguibile dalla rapina di strada e non ha giustificazione morale alcuna. La disuguaglianza dei redditi è un problema non perché il governo non stia facendo abbastanza per combatterla, ma perché i politici e i burocrati non si stancano mai di intervenire negli affari privati; con l’intervento pubblico presente in tutte le transazioni di mercato, la soluzione alla disuguaglianza è la rimozione dell’intervento stesso, non il rafforzamento dello stato attraverso l’aumento dei fondi a sua disposizione.
Articolo di James E. Miller su Mises Canada
*Link all’originale: http://vonmises.it/2012/08/13/chi-ha-paura-della-disuguaglianza-dei-redditi/
Traduzione di Luigi Pirri