Ancorché si cerchi in tutti i modi di far passare il messaggio contrario, secondo la logica orwelliana per cui basta “ripetere una bugia cento volte, mille volte, un milione di volte, ed essa diventa una verità”, è ormai un dato di fatto incontestabile che la tassazione eserciti, ipso facto, un impatto penalizzate e disincentivante su tutte le componenti della dimensione economica: che va dalla distruzione degli incentivi all’imprenditorialità, alla contrazione della capacità di spesa e consumo individuale; dall’attacco frontale alle dinamiche di accantonamento, foriero della progressiva eliminazione del risparmio spontaneo, all’avvilimento della propensione all’impiego produttivo delle risorse; dalla distorsione delle libere scelte, effettuate dal singolo agente, tra lavoro e tempo libero, alla alterazione dei distinti schemi di preferenza temporale (della serie, date certe condizioni, “meglio l’uovo oggi, che la gallina domani”).
Ma non è tutto. Perché vi sono alcuni aspetti, correlati all’imporsi delle logiche di imposizione e regolamentazione, che non vengono mai presi in sufficiente considerazione, o che addirittura vengono del tutto sottaciuti. Ciò, in parte, è dovuto alla natura propria e alla logica caratterizzante di alcuni fattori che entrano in gioco, nonché alle conseguenze che vengono innescate dal loro operare sinergico: siamo di fronte a dei costi occulti che generano degli effetti imprevedibili e non facilmente ponderabili. In quanto realizzano una vera e propria “perdita secca” di benessere sociale totale, provocata da una distorsione del mercato, che si sostanzia in inefficienze, sprechi, o sovraccarichi parassitari, inerenti e conseguenti all’introduzione dell’imposta. Il che impedirà ad alcuni potenziali contraenti di porre in essere lo scambio e trarne il relativo beneficio. Tali costi, come puntualizza l’economista Dwight R. Lee, “passano inosservati, anche agli occhi di chi li sostiene, perché invece di estrarre dalle persone parte di ciò che esse già possiedono, essi intaccano ciò che avrebbero potuto avere, ma che non potranno mai conseguire. Nessuno è in grado di percepire il valore aggiunto, suscettibile di essere creato in virtù di decisioni economiche che si sarebbero intraprese in assenza di imposizione”.
D’altro canto, sono aspetti, questi, di fondamentale importanza perché legati alla più intima e profonda dimensione esistenziale: prendendo a prestito le parole di un grande maestro, Sergio Ricossa, “vivere è scegliere, e il liberalismo è l’ideologia della vita” . Ed i costi in parola, di fatto, producono la lesione del sacrosanto principio della libertà di scelta, nonché la lesione della pari dignità delle scelte. Proprio perché consumatori, produttori, ed imprese[1] non solo si vedranno conculcare numerose opportunità di migliorare l’esercizio di poteri e diritti connessi o rivenienti da risorse che non sono più nella loro sfera di disponibilità, ma che in un quadro di rapporti non deviati avrebbero dovuto naturalmente far parte del loro assetto proprietario; ma gli stessi soggetti si vedranno menomare un buon numero di occasioni per avvantaggiarsi dei proficui benefici scaturibili da scambi che avrebbero potuto concretizzarsi e che invece sono svaporati come le risorse predicabili di divenire oggetto di quegli scambi.
In effetti, se si pongono i seguenti due assunti: da un lato, citando Pascal Salin, che “le cose non hanno valore che in funzione dei progetti individuali che permettono di realizzare e di cui sono il risultato”; dall’altro, prendendo a prestito le belle parole di Mauro Grondona, che “lo scambio … è … lo strumento cooperativo con cui l’individuo, attuando una propria deliberazione espressa in termini di preferenza soggettiva, modifica, migliorandola, la propria situazione economica di partenza… e, in conseguenza di una libera scelta, scambia i propri beni e servizi [cioè “cose”] con altri beni e servizi [cioè “altre cose”]all’interno di quel processo cooperativo definito mercato, fondato sulle valutazioni individuali degli attori”; allora quanto più numerose saranno le azioni di cooperazione che, in virtù di un efficiente bouquet di alternative percorribili, permetteranno di scambiare “cose” che rivestono un valore soggettivo sempre più apprezzabile per ogni singolo contraente, tanto maggiori risulteranno essere le chance per concretizzare i liberi progetti individuali.
Detto altrimenti, cosa avrebbero potuto realizzare i produttori, in termini di profitto materiale e psicologico, se gli fosse stato concesso di tenere per sé i frutti legittimi dei propri sforzi e di mobilitare le risorse, le conoscenze e le energie – contando anche quelle addizionali- per creare, produrre, comprare, vendere, scambiare, scartare beni e servizi senza vincoli di sorta e come meglio avrebbe loro aggradato, anziché essere costretti ad affidarsi alle cure di chi, con l’abusato pretesto di servire il “bene comune”, utilizza le risorse loro coercitivamente estratte per privilegiare ad libitum posizioni ed interessi precostituiti? O ancora, come avrebbe potuto essere la situazione di questi produttori, se, in luogo di arrendersi alle pretese di coloro che, detenendo il monopolio della forza, possono rinvenire incredibili vantaggi (ovviamente mascherati con i più ignobili e legittimanti pretesti) dal plasmare i mercati a proprio uso e consumo, avessero potuto dialogare, cooperare e competere (cum-petere, cercare insieme) tra di loro per trovare soluzioni sempre più mirate al soddisfacimento dei reciproci ed emergenti bisogni individuali? Affinché ognuno, spinto dalla personale ricerca della propria felicità e del proprio benessere, potesse essere in grado di apportare utilità all’altro: con lo scambio volontario, e dietro remunerazione liberamente stabilita, di quei mezzi, presenti nel mondo esteriore sotto forma di beni e servizi che, in date circostanze di tempo e di luogo, si intendano vicendevolmente cogliere per conseguire le proprie personalissime finalità. E senza che ci si debba accordare sui fini individualmente perseguiti.
Del resto, come dimenticare la lezione insegnataci da Friedrich von Hayek? Dal momento che il valore della libertà si basa sulle opportunità che essa fornisce per azioni non previste e impredicibili, raramente siamo in grado di apprezzare che cosa perdiamo in conseguenza di una particolare restrizione di essa. Ogni restrizione, ogni coercizione diversa dall’implementazione di regole generali, ha per scopo il raggiungimento di qualche particolare risultato prevedibile, ma di solito non è noto ciò che essa impedisce. Gli effetti diretti di ogni interferenza (sulla libertà) […] sono chiaramente visibili, ma altrettanto spesso gli effetti remoti non saranno noti e quindi verranno trascurati. Noi non saremo mai completamente a conoscenza di tutti i costi resi necessari dal perseguimento di un particolare risultato attuato mediante una tale interferenza.
Tassazione, regolamentazione ed interventismo contribuiscono invece, con il concorso fattivo di tutti gli effetti distorsivi che da essi discendono, a contrarre la costellazione di opportunità in potenza fruibili dagli agenti economici, selezionandole ex ante in maniera discriminatoria. Tra le altre cose, andando ad incidere su investimenti, sull’offerta di lavoro e la sua propensione all’attività, sull’allocazione di tale offerta nei vari comparti produttivi, sulla produttività marginale del capitale investito, sull’efficacia e sullo stock degli investimenti in tecnologia[2] si andrà ineluttabilmente ad impattare, oltre che sul livello di produttività presente, anche sulle opportunità potenziali che una effettiva libertà avrebbe sicuramente fornito “per azioni non previste e impredicibili”.
Viene cioè repressa sul nascere la forza prorompente di un processo dinamico, incessantemente innovativo, votato alla scoperta, alla ricerca virtuosa del nuovo e del diverso, al rinnovamento ed allo “svecchiamento” di dati, informazioni, situazioni pregresse: si sta ovviamente parlando del processo concorrenziale. Da intendersi, “austriacamente”, come slancio vitale verso nuovi e sconosciuti orizzonti, raggiungibili grazie alla facoltà di esperire tentativi e di effettuare calcoli, fecondi per sé e per gli altri, sulla scorta “della nostra conoscenza attuale e della nostra attuale anticipazione delle condizioni future”(Ludwig von Mises). In quanto capacità di differenziare e differenziarsi, di fatto è il processo concorrenziale a dirci e a segnalarci “quali beni siano scarsi, o quali cose siano dei beni, quanto siano scarsi o che valore abbiano” (Friedrich von Hayek) o, ancora, quali siano i beni o i servizi che meglio sappiano appagare il bouquet di aspettative dei consumatori; così, è sempre grazie alla concorrenza che si vengono a creare i presupposti per la scoperta di fatti che “senza di essa, nessuno conoscerebbe o almeno nessuno utilizzerebbe” (Friedrich von Hayek) .
È ancora von Hayek a ricordarci un concetto di per sé fondamentale, ammonendo profeticamenteche: se esistessero uomini onniscienti, se potessimo sapere non solo tutto quanto tocca la soddisfazione dei nostri desideri di adesso, ma pure i bisogni e le aspirazioni future, resterebbe poco da dire in favore della libertà […]. La libertà è essenziale per far posto all’imprevisto e all’imprevedibile; ne abbiamo bisogno perché, come abbiamo imparato, da essa nascono le occasioni per raggiungere molti dei nostri obiettivi. Siccome ogni individuo sa poco e, in particolare, raramente sa chi di noi sa fare meglio, ci affidiamo agli sforzi indipendenti e concorrenti di molti, per propiziare la nascita di quel che desidereremo quando lo vedremo.
In ragione della struttura del sistema impositivo e della natura delle logiche di redistribuzione e di intervento, produttori e consumatori responsabili accuseranno così una molteplicità di indebite penalizzazioni: da un lato, l’onere di costi sempre più latenti e subdoli finirà per essere scontato in termini di spreco di ingenti risorse, di frustrazione di iniziative propositive, di inevitabili rinunce, di limitazione della vocazione all’esplorazione ed all’intrapresa, nonché in termini di neutralizzazione di numerose occasioni idonee a soddisfare e a concretare liberi progetti individuali. D’altro canto, gli stessi attori non potranno giovarsi dei vantaggi che, in maniera corrispettiva, si sarebbero potuti trarre da situazioni competitive di libera accessibilità al mercato, le quali sarebbero con tutta probabilità fiorite, in assenza dei perversi meccanismi di costrizione e delle interferenze esterne. Vantaggi che sarebbero stati tali, sia in termini di efficienza economica, che di desiderabilità delle scelte sottese.
In buona sostanza, come si è visto, produttori e consumatori dovranno così forzatamente rinunciare ai benefici generabili a fronte dalla costituzione di nuove opportunità e di nuova ricchezza, che avrebbero potuto essere e che invece non sono: trattasi di “costi- opportunità”, di valori evanescenti, malagevoli da computare. Essi richiamano uno stato particolare di impedimento nella costituzione della ricchezza o, meglio, di distruzione preventiva della medesima che, per il fatto stesso di poter sfuggire a qualsiasi tentativo di quantificazione, è tamquam non esset. Del resto, come avrebbe osservato Bastiat, i vantaggi della tassazione sono evidentissimi per coloro che ne lucrano i frutti; i benefici delle mancate opportunità e delle potenzialità inespresse che non si sono potuti cogliere restano invece nell’ombra, proprio perché non immediatamente visibili e per tal ragione difficilmente ponderabili.
NOTE
[1] Concetto, quello di impresa, da intendersi nel senso “saliniano” del termine, cioè a dire un’organizzazione di natura squisitamente negoziale, costituita e innervata dalla fitta ragnatela di contratti che la definiscono e che la animano, e che riflette la volontà dei singoli individui- siano essi proprietari, dipendenti, fornitori o clienti- di associarsi, cooperare e collaborare in vista del raggiungimento di obiettivi personali e comuni.
[2] Trattasi della classificazione dei cinque principali effetti negativi, rinvenibili ogniqualvolta sussista una tassazione troppo elevata, che andrebbero ad impattare sulle dinamiche dei processi produttivi: tale elaborazione è stata formulata dall’economista e premio Nobel Robert Solow in un suo famoso saggio del 1956, Contributi alla teoria della crescita economica.
*Link all’originale: http://www.lindipendenza.com/il-costo-occulto-delle-tasse/
ERRATA CORRIGE : sopra c’è scritto Himmler ma è Goebbels.
J. Goebbels se ne impippava una mazza di Orwell e della sua beata logica. Quando nel 1933 il suo Furher gli chiese : come possiamo convincere i tedeschi che la crisi economica del nostro reich è causata dalla presenza degli ebrei nel commercio, negli affari e nelle banche, Himmler rispose seraficamente : Mein Furher, cosa è la verità ? è una bugia raccontata bene tre volte. Divenne ministro della propaganda subito. E adesso sappiamo che a modo suo, le cose andarono secondo la verità che Hitler voleva si affermasse.