“Sono tre i principi cui vorrei accennare: il dovere morale di pagare le tasse; l’esigenza etico-sociale che esse siano eque; l’affidabilità delle garanzie offerte da chi governa e dal quadro economico-politico generale circa il buon uso del denaro pubblico. Che pagare le tasse sia un preciso dovere morale dovrebbe essere un’evidenza: come tutti hanno il diritto di beneficiare dei servizi offerti dallo Stato, per quanto più o meno efficienti essi possano essere, così ciascuno in rapporto alle proprie possibilità deve contribuire ai costi che tutto questo comporta, dall’istruzione alla tutela e cura della salute, dalle reti di comunicazione all’assistenza ai più deboli e alle garanzie dovute all’anzianità. Dove l’equilibrio fra servizi e risorse fosse minato da una parte o dall’altra, ci troveremmo di fronte rispettivamente all’assistenzialismo o all’enfatizzazione anarchica dei diritti di alcuni.
Il “bene comune” si realizza precisamente nell’offerta adeguata e il più possibile alta dei servizi, supportata da una partecipazione alla spesa che sia responsabile e commisurata alle possibilità di ciascuno. In questo senso, l’evasione fiscale è una forma di furto al bene di tutti, una colpa morale frutto di egoismo e di avidità, una negazione di quell’esigenza di solidarietà verso gli altri, specie i più deboli, che deve regolare la società e l’impegno dei singoli. In riferimento al Decalogo – grande codice della coscienza morale universale – chi evade le tasse trasgredisce il settimo comandamento, “Non rubare!”, con l’aggravante di farlo a discapito soprattutto dei più deboli e bisognosi. Affermato il dovere morale di pagare le tasse, occorre richiamare un secondo principio non meno importante: che le tasse siano eque! L’equità è misurata da parametri oggettivi e soggettivi: ai primi appartengono le urgenze congiunturali.
Dove il bene comune è minato da una crisi socio-economica generale – come sta avvenendo ora nel “villaggio globale” e nel nostro Paese in particolare – è giusto che sacrifici siano fatti da tutti. Sul piano soggettivo, tuttavia, essi vanno commisurati alle effettive risorse e possibilità di ciascuno: chiedere a tutti lo stesso prezzo secondo un apparente criterio di giusta ripartizione, è in realtà somma ingiustizia (è quello che avviene di fatto col rialzo dell’Iva, che finisce col colpire diffusamente tutti e specialmente chi meno ha e può dare!). Chiedere di più a chi ha di più è invece la misura equa che è necessario mettere in atto: e l’accortezza sta qui nel domandare di più specialmente a chi dispone di grandi risorse e gode di un’ampia gamma di beni superflui o non strettamente necessari…. C’è infine un terzo orizzonte etico da tenere presente nel ricorso alla pressione fiscale: l’affidabilità delle garanzie offerte da chi governa riguardo al buon uso del denaro pubblico. Ciò che proviene dalla contribuzione dei cittadini va speso al servizio del bene comune: sprechi, leggerezza ed errori nella spesa pubblica, corruzione e indebite appropriazioni, vanno combattuti con tutti i mezzi legittimi… Occorrono dunque un’azione di governo e una volontà politica dichiarata e trasparente che diano ai cittadini il senso dell’affidabilità di chi gestirà di fatto le risorse provenienti dal contributo di ciascuno.” (B. Forte)
Ho riportato ampi stralci di un articolo di Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, perché contiene un compendio dei più diffusi luoghi comuni riguardanti la tassazione. Si tratta di argomentazioni che ho già commentato in altre occasioni, ma sulle quali ritengo utile tornare, anche a costo di ripetermi.
Partiamo dal “dovere morale” di pagare le tasse. Monsignor Forte ritiene che sia evidente il dovere morale di pagare le tasse, dato che tutti hanno il diritto di beneficiare dei servizi offerti dallo Stato. Aggiunge, poi, il monsignore, che “dove l’equilibrio fra servizi e risorse fosse minato da una parte o dall’altra, ci troveremmo di fronte rispettivamente all’assistenzialismo o all’enfatizzazione anarchica dei diritti di alcuni”. Da qui si giunge a un altro classico: chi evade le tasse ruba, quindi viola il settimo comandamento.
Le argomentazioni di Forte sono le stesse che utilizza abitualmente ogni fautore del dovere di pagare le tasse. A mio parere si tratta di argomenti basati implicitamente su una definizione di tassazione la cui correttezza è tutt’altro che scontata. Le tasse non sarebbero altro che quanto ognuno (meglio se in base alle proprie capacità) è chiamato a pagare per i servizi che lo Stato offre alla collettività. In altre parole, le tasse sarebbero necessarie per il bene comune e chi fosse contrario alla tassazione sarebbe contrario al bene comune e, per di più, ladro. Se si abbandona per un attimo la retorica del bene comune e si sottopone a scrutinio critico questa idea della comunità volontaria nella quale tutti devono dare il loro contributo, ci si può rendere conto che la rappresentazione offerta (imposta?) dai fautori della tassazione non è molto verosimile.
Lo Stato non offre servizi: li impone e sovente non consente, a chi lo volesse, di ottenere gli stessi servizi rivolgendosi ad altri fornitori, stabilendo per se stesso (o per soggetti specifici) il monopolio per l’offerta di quei servizi. In sostanza, lo Stato non consente ai cosiddetti contribuenti di scegliere tra due opzioni: tassazione e fruizione dei servizi, oppure esenzione dalla tassazione a fronte della non fruizione dei servizi. Peraltro, non potrebbe essere altrimenti, data la funzione essenzialmente redistributiva dello Stato. Dalla funzione redistributiva deriva anche la non corrispondenza tra i servizi di cui il singolo fruisce e il carico fiscale a cui è sottoposto.
Ciò comporta la formazione di due categorie di soggetti con riferimento all’azione statale e alla tassazione: coloro che sono beneficiari netti e coloro che sono pagatori netti. In sostanza, lo Stato redistributore rende coercitiva la solidarietà tra individui. Una solidarietà che, sia detto per inciso agli esponenti del clero, Gesù non ha mai imposto con la forza a nessuno. Alla luce delle considerazioni fin qui espresse, credo non sia un’eresia affermare che lo Stato viola inevitabilmente la proprietà di ogni contribuente, imponendogli il pagamento di somme di denaro non necessariamente a fronte della fruizione di servizi i quali, tra l’altro, potrebbero anche essere non richiesti da chi è costretto a pagare per essi.
Tutta la retorica del bene comune credo non cambi la sostanza del rapporto tra lo Stato e l’individuo; né mi pare sia molto nobile l’idea di imporre con la forza la solidarietà. A questo punto anche l’evasione fiscale non penso meriti di essere vista come una piaga, ma può, al contrario, essere in taluni casi una forma di autodifesa. Sarebbe bene che chi evade non usufruisse di nessun servizio pubblico, anche se nella pratica è sostanzialmente impossibile. Peraltro, è altrettanto impossibile l’esistenza dei cosiddetti evasori totali, ancorché spesso se ne senta parlare. Nessuno, anche volendo, riuscirebbe a evadere completamente, per fare solo un paio di esempi, Iva e accise. In definitiva, ammesso che la solidarietà sia un dovere morale, imporla con la tassazione non mi sembra affatto morale. E se di furto si vuole parlare, si consideri l’essenza di un rapporto, quello tra Stato e cosiddetto contribuente, nel quale il primo impone al secondo di pagare una somma di denaro nell’ambito di una transazione non volontaria e, magari, a fronte di nessun servizio da costui realmente fruito.
Anche con riferimento all’equità della tassazione, le argomentazioni di Forte mi sembrano discutibili. Ovviamente è una conseguenza delle considerazioni già espresse in merito al fenomeno stesso della tassazione. Il principio della progressività dell’imposizione fiscale è implicitamente considerato equo da monsignor Forte, ma non penso sia necessariamente così. Se l’imposta è proporzionale, a maggior reddito o patrimonio (a seconda della base imponibile) corrisponde in ogni caso maggior onere fiscale, a parità di aliquota. Quanto alle imposte indirette (come l’Iva), a maggior consumo corrisponde maggiore onere fiscale. Chi ritiene equo il principio della progressività dell’imposta sostiene esplicitamente o implicitamente che un reddito o un patrimonio elevato siano colpe. Ma se il reddito e il patrimonio non sono frutto di violazione della proprietà altrui, non mi pare vi sia alcun motivo, se non l’istituzionalizzazione dell’invidia, per appoggiare l’idea che essi debbano essere colpiti dal fisco più pesantemente.
Infine, il punto realmente più utopistico, alla luce dei dati empirici che la storia di millenni di umanità offre: “l’affidabilità delle garanzie offerte da chi governa riguardo al buon uso del denaro pubblico”. Qui preferisco davvero non dire nulla. I fatti sono sotto gli occhi di tutti e ritengo siano più che sufficienti.
*Link all’originale: http://www.lindipendenza.com/arcivescovo-tasse-chieti/
Qualche mese fa ho ascoltato, in una parrocchia del mio paese in provincia di Bari, l’ omelia di un prete a proposito della famosa frase di Gesù “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”.
Il prete affermò che questa frase sta a significare che le decisioni dei politici vanno rispettate (quindi anche in relazione alle tasse) perchè il loro potere deriva in qualche modo da Dio.
Indignato da una tale omelia inviai una mail a un giornale locale in cui precisavo che questi discorsi li faceva il Faraone ai suoi sudditi un bel pò di tempo fa, e suggerivo a chi non lo avesse ancora fatto di andare a leggere “Scritti Corsari”, di Pasolini, in cui lo scrittore aveva chiarito la questione 40 anni fa. Infatti Pasolini diceva, giustamente, che con quella frase Gesù, coerentemente con tutto il Suo messaggio e la Sua opera, non poteva assolutamente voler dire una cosa del genere: il senso della frase era che bisogna distinguere nettamente i due poteri, Stato e Chiesa, e non consentire ingerenze di uno nell’ altro.
La mia lettera non fu pubblicata e il giornale perse un lettore.
BRAVO!!!!!!!
Una volta era lo Stato un”latrocinium magnum”, adesso è un ladro l’evasore fiscale. Sostenere lo Stato massone nato dalle lotte risorgimentali era un peccato grave,meritevole di scomunica, adesso è un peccato non sostenerlo. I Patti Lateranensi, sottosctritti con un dittatore che in gioventù aveva dichiarato di voler “devaticanizzare l’Italia” hanno santificato lo Stato italiano, più tardi colonizzato dalla Democrazia Cristiana con l’appoggio della gerarchia. Più avanti un socialista , dietro suggerimento di un altro socialista sedicente liberale, ha regalato al clero l’obbrobrio dell’8 per mille. Ora che un massone frequentatore dei sacri riti cattolici, oltreché dei concilaboli di Bildeberg e della Trilateral, opprime il Bel Paese con una fiscalità di rapina dobbiamo sorbirci, sul quotidiano della Confindustria, i sermoni di un teologo sul dovere morale di pagare le tasse. Che dire? Vicinissimi al potere e lontanissimi da Cristo.