“Ma come, scrivi peste e corna dello stato, citi De Bellis, giovane libertario italiano, che dice che lo ‘Stato è il degrado’, e poi, nello stesso libro dove dici questo, Minima libertaria, auspichi che l’Italia si dissolva e vengano fuori 20 stati piccoli dalle attuali Regioni?” “Come lo spieghi?”. Potrebbe essere il sogno del Grillo Parlante, se io fossi un Pinocchio libertario. Ma Pinocchio, la quintessenza dell’italiano, il bugiardo e furbone che non ostante tutto la fa sempre franca, è diverso da me. Piuttosto vorrei essere paragonato proprio al Grillo Parlante, questo esserino innocente che è la coscienza morale di ogni italiano di legno – a partire dagli uomini di legno sulle navi di ferro spazzati via a Lissa da uomini di ferro, veneziani, su navi di legno, secondo le celebri parole dell’Ammiraglio austriaco von Tegetthof: insomma una ciurma di pinocchietti 15 anni prima che il mostriciattolo di Collodi venisse al mondo – e che finisce ogni volta di nuovo schiacciato con un martello, per risorgere in forme nuove, la coscienza morale e civile degli individui dal 1861 costretti a mentire, a impinocchiarsi, per sopravvivere, da uno Stato nato male, cresciuto peggio, e invecchiato nel modo orrendo che è davanti agli occhi di tutti: in una Pasqua, dove, riconoscendo e pregando per la Resurrezione di Cristo, prego anche, privatamente, forse un pochino laicamente, per la resurrezione dei popoli.
Il dilemma che ho posto all’inizio di questo articolo se lo trovano di fronte Leonardo Facco e altri libertari duri e puri che danno vita a questo giornale. Ma niente panico. Se lo trovarono dinanzi i capiscuola del libertarismo, e alla fine le loro ultime discendenze, come Hans Hermann Hoppe, che parla, appunto, di “secessione a catena”.
In sostanza, la critica, che può toccare un punto nevralgico, portare i libertari ad una “tempesta del dubbio” per citare Mazzini che certo libertario non era, ma che neppur può dirsi tra i vincitori nel Risorgimento, non è di poco conto.
In “Minima libertaria” ho cercato di risolverla con un discorso filosofico, sul fine ultimo del pensiero libertario (la privatizzazione del mondo) e la prassi concreta, dei fini penultimi, e terzultimi, che sono, in soldoni, venir fuori da questo Stato che ci uccide di giorno in giorno. Le due cose possono conciliarsi, come la differenza tra un regno dei fini, e le necessità interne ad un sistema o ideologia radicale (“radicale”, nel senso, come messo bene in chiaro dalla Ayn Rand, di tutt’affatto “coerente”), da una parte, e le necessità politiche, immediate, esistenziali, esiste lo stesso divario che c’e’ tra un’utopia assoluta di felicità personale, e il modo in cui, parzialmente, cerchiamo di realizzarla ed effettivamente la realizziamo nel corso breve di nostra vita.
Con un caveat, essenziale, però: i venti Stati nati dalla dissoluzione di Italia, non saranno venti piccole Italie in miniatura. Perché il sogno si trasformerebbe nell’incubo peggiore.
Lo Stato dovrà essere radicalmente ripensato. Per intanto, in attesa di progetti più sistematici (che invito gli intellettuali e giuristi di tutti i partiti indipendentistici ad affrettarsi a formulare, ché il tempo stringe), lancio un paio di idee. Non vedo, nel Veneto libero del futuro, ad esempio, la necessità di duplicare due caratteristiche fondative e fondanti dello Stato qual è stato finora. La costituzione, e la capitale.
La costituzione. Quando Gianfranco Miglio, in un libro del 1990, ma ancora attualissimo, “Una costituzione per i prossimi trenta anni” (un dialogo con Marcello Staglieno edito da Laterza), auspicava una “durata limitata” della costituzione, aveva intuito perfettamente, da grandissimo studioso di scienza politica, il danno arrecato ai cittadini, o, nel linguaggio libertario che era solo a tratti il suo, all’individuo, da un contratto di subordinazione tra cittadini e governanti cui viene data durata eterna, eternamente vincolante. Poiché il genio di Miglio aveva capito che in futuro la forma privata di contratto avrebbe gradatamente sostituito, in un felice Medioevo prossimo venturo, quella pubblica, ricalcata originariamente sulla prima ma sacralizzata in un nefasto processo di secolarizzazione con vincoli eterni religiosi (e per questo processo, al centro della creazione e dello sviluppo dello Stato liberticida attuale, consiglio vivamente di leggere il libro di Carlo Lottieri “Credere nello Stato?”), lo studioso lombardo aveva stabilito una durata ideale per una costituzione in trent’anni, ovvero in una generazione e un quinto. La barbarie della sacralizzazione del politico, cresciuta insieme alla desacralizzazione del Sacro in un processo ancora tutto da studiare, ha fatto sì che contratti di natura privatistica assumessero contorni sacrali, come un legame perpetuo tra Dio e il suo popolo, nella sfera del diritto pubblico. Detto altrimenti: pensate ad un contratto di affitto, che obblighi l’affittuario a vivere in perpetuo nella casa che ha preso in affitto, doveva vuole stare magari solo un paio di anni. Ovviamente, chi affitta la casa avrebbe (spesso) tutto l’interesse a stipulare un contratto del genere. Ma non chi la la casa prende in affitto!
Lo stesso con la costituzione. Portando ad estreme conseguenze quanto scritto da Miglio 22 anni fa (quasi una generazione…) credo che nel Veneto o Lombardia o Sardegna del futuro una costituzione non sia neanche necessaria. Norme generali e amministrative certamente, ma niente che abbia il suono sacralizzato di “Costituzione” e si configuri come patto di sfruttamente perpetuo tra cittadini e governanti. Questo mio pensare è sorretto da esempi storici e contemporanei. Dal punto di vista contemporaneo: non c’e’ costituzione in Gran Bretagna. Non c’e’ costituzione in Israele (vi fu un lungo dibattito se scriverla o meno, poi prevalse l’idea che le leggi fondamentali sono già presenti nel Deutoronomio). Il fatto che non vi sia costituzione in Gran Bretagna rappresenta un ostacolo in meno per l’indipendentismo, e l’indipendenza vera e propria, di Scozia e Galles. Nessuno ha mai dichiarato con l’autorità suprema del Sacerdote Laico – questi sacerdoti laici mi ricordano sempre i laidi officianti di un matrimonio osceno in “Salò” di Pasolini – la Gran Bretagna “una e indivisibile”. L’esempio storico è proprio Venezia, la Serenissima. Certo, l’obiezione è che non vi era neppure il concetto di “costituzione” moderna (che nasce assai più tardi, con quella americana) nei 1100 anni della Serenissima. Esistevano, ed erano, soprattutto le seconde, soggette a caute revisioni sul lunghissimo periodo, norme fondamentali e norme amministrative. Insieme, formavano la “costituzione” di Venezia, soggetta alla perpetua revisione da parte di un Maggior Consiglio che peraltro la mantenne in molti aspetti nel suo spirito fondamentale, per secoli, intatta; in questo senso, quando Gasparo Contarini pubblica nel 1543, a Parigi, il suo libro De magistratitus et Republica Venetorum, non pubblica la “costituzione” di Venezia, ma mostra come attraverso un complesso, ma efficiente sistema di leggi, la Repubblica funzionasse (bene). Che poi vi sia un buon grado di idealizzazione nel libro, può essere vero, ma molto meno di quanto pensano, interessati da sempre a gettare infamia su Venezia, molti tra gli storici anglosassoni.
Il Veneto futuro dovrà prendere esempio, in questo senso, dalla Serenissima.
La capitale. Ora, da sempre si crede che uno Stato debba avere una capitale. Molto brevemente, nel Veneto futuro, stato federale al suo interno, Venezia sarà piuttosto come Berna che come Parigi, o anche Washington. Roma cloaca massima mostra il livello di degenerazione che può raggiungere una capitale. Un stato leggero senza “Costituzione” ma con un sistema flessibile di leggi non ha bisogno di una capitale, se non molto formalmente. Il Veneto è piccolo, in fondo, le legazioni straniere si possono ospitare nelle ville venete: ci sono circa 200 stati (per inciso, auguri Azawad, baby state newly born!!!), ma certamente le ville venete in degrado sono più di 200. Da tutte si raggiunge Venezia in fretta. I “ministeri”, ovvero quelle entità piuttosto di raccordo che di controllo che dovranno occuparsi dei vari settori della pubblica amministrazione, si possono equalmente decentrare, per evitare la degenerazione che porta un concetrato fisico di poteri (ancorché depotenziati) in un solo luogo. Ad esempio, il “ministero” che si occuperà di università e ricerca lo vedo bene, da sempre, nei miei sogni, ad AbanoTerme, nel Grand Hotel dell’Orologio, opera di Giuseppe Jappelli, lo stesso del Pedrocchi, stupendo edificio che da anni è in degrado, con un esterno che regge, ma, a quanto pare, gli interni in sfacelo. Ma naturalmente queste sono osservazioni molto personali.
Essere senza costituzione e senza capitale non vorrà dire essere “sans toit ni loi”, come nel film della Varda del 1985. Anzi, vorrà dire essere in una felice situazione in cui non si sia servi di una legge inamovibile e immodificabile come una brutta malattia senza cura, e vivere in quella, altrettanto felice, di liberi abitanti di uno Stato senza un “tetto” pesante e asfittico e che alla fine rischia di caderci sulla testa.
Gentile Signor Butti,
ha perfettamente ragione. Ma la risposta alla Sua domanda si trova nel regno della scienza. Io sto pensando, per una volta, al futuro immediato. Che poi la trasformazione da leggero a pesante dello Stato (una sorta di..insostenibile leggerezza dell’Essere, dunque), sia un processo storico gia’ tristemente provato, e’ vero. Tuttavia Lei non cita la Svizzera, che e’ piccolina, ricca e tranquilla dal 1300.
Qualche volta la crescita mostruosa del Leviatano puo’ essere fermata. E alla Svizzera aggiungo l’Olanda (priva delle colonie), la cui dichiarazione d’indipendenza e’ del 1581.
Con viva cordialita’,
Paolo Bernardini
Siamo sicuri che questo Stato “leggero” non sia destinato a trasformarsi di nuovo in uno Stato “pesante”? Finché non si saranno studiate a fondo le dinamiche da cui è scaturito l’odierno Moloch proprio nell’ambito di quei sistemi che,all’origine, miravano all’obiettivo di contenere lo strapotere dei governi, il pericolo di ricadere nel baratro per aver commesso gli stessi errori di prima rimane incombente.In breve: perché le democrazie liberali sono fallite? Perché gli Stati Uniti si sono trasformati in un un impero? Perché l’Unione Europea sta diventando un temibile Superstato? Qual è il meccanismo perverso che dalla sovranità dell’individuo su sé stesso porta all’accettazione di una schiavitù sempre più soffocante? Il discorso da storico diventa antropologico. Nel mondo animale, che appartiene a un ambito estraneo all’etica perché interamente dominato dall’istinto, l’individuo è nulla e il branco (o l’alveare, o il formicaio) è tutto. Capo branco, o ape regina, vengono selezionati secondo meccanismi automatici che non si discutono, semplicemente sono. Soltanto nelle società umane, che si muovono nell’ambito dell’etica, si è imparato a ribellarsi ai capi: non è possibile parlare di rivoluzione senza far appello a principi ideali che stanno ben al di sopra dei meri istinti. L’uomo non nasce individuo, diventa individuo nel momento in cui riconosce la propria assoluta libertà come un fatto etico, che scaturisce dalla proprietà della sua persona e dei beni che s’è procurato col suo lavoro e con la libera contrattazione, o ha ricevuto, senza esercitare coercizione, a titolo gratuito. A questo punto non ci dovrebbe più esser bisogno né di branchi né di formicai né di alveari, ma neppure di Stati, ovverossia di appartenenze nazionali imposte dall’alto (non importa se italiane o venete o lombarde o comacine) con l’obbligo di dare oro alla Patria( le tasse) e d’andare a farsi accoppare in guerra per volontà del Principe, gabellata come “sacro dovere del cittadino”. Ora mi chiedo: che cosa ci riporta continuamente a quello “spirito di branco” che ci invita a chiedere un re, e a lamentarci se è solo un re travicello (lo Stato “leggero”), per tirarci addosso un re vero (lo Stato “pesante”) che ci divora? Da dove viene questa “schiavitù volontaria” che, ad esempio, induce molti nostri simili a gioire masochisticamente dell’imposizione fiscale “per il bene della causa” e a giubilare assistendo alle parate militari? Secondo me è un residuo della nostra animalità , di quello stigma estraneo all’etica che in gran parte ci portiamo ancora addosso. Per usare la terminologia di San Paolo, siamo ancora troppo PSYCHIKOI (carnali) e poco PNEUMATIKOI(spirituali). Sono eccessivamente pessimista? Lo ammetto, può essere un mio limite.