27 anni, padovano. Tommaso, il nome è di fantasia, guadagna 80.000 euro l’anno, più di 6500 al mese. Roba da fare invidia a quasi il 100% dei suoi coetanei. Il suo merito? Essere andato lontano da casa. Tre colloqui via Skype con altrettanti professori americani, un passaporto e via, in volo per Cupertino, ad incontrare chi ha osato fare ciò che in Italia, le intelligenze accademiche e i cretini che le mantengono coi soldi delle tasse universitarie, considerano vergognoso: fondare un’azienda.
“Dobbiamo fare ricerca pura e, soprattutto, libera da interessi di mercato, senza implicazioni col capitale”. Questi erano i consigli che Tommaso, ai tempi del dottorato di ricerca, riceveva dai compagni durante le riunioni del consiglio di facoltà, di cui era membro. “Mi sono laureato nel 2009: 110 e lode in ingegneria dell’automazione. Subito dopo ho chiesto e ottenuto una borsa di studio per il dottorato di ricerca e mi sono trasferito a Genova, all’Istituto italiano di tecnologia, che dovrebbe essere il polo d’eccellenza italiano del mio settore” spiega Tommaso.
Dopo i primi mesi di ambientamento, per Tommaso, e non solo per lui, cominciano i problemi: “Teoricamente avrei dovuto lavorare nel laboratorio di computer vision e sviluppare dei progetti di intelligenza artificiale applicate alle immagini, in cambio di 1250 euro al mese. In pratica né a me, né agli altri ricercatori era permesso di fare quello per cui eravamo pagati, cioè ricerca. Ogni settimana presentavamo un progetto condiviso al nostro direttore, un professore che coordinava il centro. E ogni volta lui bocciava le nostre idee.” Come mai? Semplice, a Genova più importante della ricerca, era l’autopromozione.
“Il professore ci chiedeva di lasciar perdere strumenti e laboratorio,invitandoci a produrre articoli, da pubblicare su riviste. E mica perché non avevamo soldi, anzi. Di soldi ce n’erano anche troppi. In quel centro c’è la miglior strumentazione d’Europa, con apparecchiature all’avanguardia, molte delle quali anche inutilizzate perché inutili, come telecamere di precisione a infrarossi o tridimensionali. – ricorda Tommaso – “Se nel settore dedicato alla robotica, il Centro produceva risultati, potendo contare anche su ricercatori stranieri, provenienti dall’Iran e dall’India, nel settore dell’automazione non si arrivava mai a niente. Il professore non era molto presente, credo avesse anche secondi o terzi incarichi in altre università italiane. Quel che mi si chiedeva di fare era di leggere articoli sui risultati prodotti da terzi, parafrasarli, magari postillarli, e consegnare testi per la pubblicazione. Ogni tentativo di motivarlo, di convincerlo a fare ricerca vera, era inutile. Quindi, con i miei compagni, lavoravano da soli. quasi di nascosto. Finché, sostenendo che la nostra attività rubava tempo alla produzione di articoli, ci ha proibito di utilizzare il laboratorio senza il suo permesso”.
Tommaso va avanti così per un anno e mezzo: “Ad un certo punto mi sono stufato. Di fatto non facevo il ricercatore, ma il promoter delle attività del mio professore. Così, con un collega, ho cominciato a guardarmi attorno. La noia è finita con una mail, ricevuta da tre professori americani. Molto interessati alle nostre ricerce, ci hanno offerto lavoro, stipendio e, per motivarci, anche una piccola quota della loro società”. Senza pensarci troppo, Tommaso e il suo amico danno l’addio all’Italia. “Quando ho lasciato il Centro, il coordinatore non ci voleva credere. Uno dei suoi fedelissimi mi ha detto addirittura che ero un venduto. Sarò anche venduto, ma adesso posso lavorare sul serio”, conclude Tommaso, che, come gli altri 1300 ricercatori italiani (fonte Istat), ha trovato fortuna all’estero. Dove il mercato delle idee, quello vero, non consente di annoiarsi.
* Link all’originale: http://www.lindipendenza.com/ricerca/
Le esperienze sopra riportate dimostrano che anche la patria può essere una scelta di mercato: me ne vado là dove sto meglio, votando con i piedi, e quella diventa la mia patria. Già gli antichi dicevano che la patria è là dove si sta bene. Lo so benissimo che tutto questo confligge con il mito delle “radici”, che molti amici coltivano e di per sé è rispettabilissimo, se non degenera in chiusura autistica e idolatria per idiomi morenti, alla faccia dell’inglese(lingua del mondo, come un tempo il greco della Koinè: se i Vangeli fossero stati scritti in aramaico, non ci sarebbe il papa a Roma, e forse qualcuno ne sarebbe contento).Credo però, col filosofo della scienza Giulio Giorello, che le radici siano delle piante, non della specie umana, che fin dalla sua comparsa sulla Terra ha sempre migrato. Pare veniamo tutti dall’Africa:sì, anche noi nordici, non soltanto i terroni; sì, anche quelli che vorrebbero ricacciare i negri a casa loro.
“Dobbiamo fare ricerca pura e, soprattutto, libera da interessi di mercato, senza implicazioni col capitale”
Questa non è necessariamente una cosa sbagliata, molte delle scoperte che hanno rivoluzionato il mondo tecnologico inizialmente erano pure ricerche teoriche, mentre porsi solo obiettivi a breve termine al fine applicativo può essere abbastanza infruttuoso. D’altro canto IMPORSI che le proprie ricerche non devono avere applicazioni mi sembra una vera scemenza.
La cosa triste e reale è il fatto che in effetti in molti ambienti di ricerca si guarda solo a pubblicare più articoli possibili. Una tattica abbastanza comune e degenere di molti ricercatori è pubblicare riguardo un argomento particolarissimo, di cui si occupano si e no quattro persone nel mondo, e che in realtà non ha nulla di interessante ma li mette al riparo da qualsiasi critica. Poi in teoria le pubblicazioni scientifiche dovrebbero essere vagliate da arbitri imparziali che valutino il contenuto degli articoli e non chi gli ha scritti. Eppure non è raro che persone affermate riescano a pubblicare articoli su fatti banalissimi mentre scienziati esordienti debbano affiancare il loro nome a qualcuno di importante per riuscire a pubblicare, perdendo quasi tutto il merito.
Il nome, voglio il nome…….