Quando gli studenti di economia del primo anno affrontano il tema della concorrenza tra diversi produttori per offrire un bene sul mercato, si trovano di fronte ad un qualcosa di paradossale. Infatti, per descrivere un processo dinamico e dagli esiti incerti, la concorrenza di mercato appunto, i libri di testo presentano un modello statico, chiamato “concorrenza perfetta,” che descrive lo stato finale a cui il mercato può giungere in presenza di condizioni molto particolari che trovano riscontro solo in aspetti limitati della vita economica.
Nel modello di “concorrenza perfetta,” in parole povere, la concorrenza, semplicemente, non c’è. Vi è descritto uno stato finale che potrebbe essere raggiunto solo in particolarissime circostanze e che costituirebbe comunque un punto di equilibrio tutt’altro che stabile.
È anche una descrizione assai poco interessante: è come analizzare un viaggio basandosi esclusivamente sulla brochure che lo descrive; ci dice poco sulla natura dello stesso, su come i protagonisti affrontano le avversità e aggiustano i loro piani di conseguenza, su cosa può andar storto e come rimediarvi, su quali accorgimenti debbano essere adottati per rendere il tragitto più sicuro e confortevole.
Friedrich Hayek, il cui ventesimo anniversario della scomparsa verrà ricordato domani a Roma all’Università Luiss, aveva invece ben chiaro come la concorrenza fosse un processo di scoperta continuo e dinamico, in cui le reazioni individuali ai cambiamenti delle condizioni non possono essere previste e il cui esito è tutt’altro che prevedibile.
Hayek e la concorrenza, da Legge, legislazione e Libertà
Questo modello di concorrenza perfetta si basa su fatti che esistono solo in qualche settore della vita economica, e su fatti che in molti altri settori non si possono creare a piacere, e che talvolta non sarebbe nemmeno auspicabile creare. L’assunto su cui si basa il modello di concorrenza perfetta è che ogni bene e servizio possono essere forniti al consumatore con gli stessi costi da molti produttori, con il risultato che nessuno di essi può determinare deliberatamente i prezzi, perché se cercasse di far pagare una cifra superiore al costo marginale sarebbe interesse degli altri metterlo fuori mercato. Questa situazione ideale in cui è dato il prezzo per ogni competitore e in cui il suo interesse lo spinge ad aumentare la produzione fino a che il prezzo eguaglia il costo marginale, venne identificata con il modello stesso, e impiegata per valutare i risultati conseguiti dalla concorrenza nel mondo reale.
È vero che, se si potesse produrre una tale situazione, sarebbe auspicabile che la produzione di ogni articolo si estendesse al punto in cui i prezzi eguagliassero i costi marginali, perché in caso contrario un ulteriore aumento della produzione del determinato bene significherebbe che i fattori di produzione richiesti sarebbero usati in modo più produttivo altrove. Questo non significa, tuttavia, che quando si deve usare la concorrenza per scoprire che cosa vuole e sa fare la gente, si sia anche in grado di giungere allo stato ideale, e che i risultati della concorrenza «imperfetta» non siano preferibili alle condizioni che si possono creare con altri metodi quali, ad esempio, una programmazione statale.
Evidentemente non è né auspicabile né possibile che ogni bene o servizio significativamente diverso dagli altri sia fornito da un gran numero di produttori, o che vi sia sempre un notevole numero di produttori in grado di produrre ogni cosa agli stessi costi. Di norma, esisterà in ogni dato momento non soltanto un livello ottimale dell’unità produttiva al di sopra e al di sotto del quale i costi aumenteranno, ma anche i vantaggi della specializzazione, dell’ubicazione, della tradizione ecc., che soltanto alcune imprese possiederanno. Di solito poche imprese (o forse soltanto una) sono in grado di fornire la quantità vendibile di un dato bene a prezzi che coprano i costi e siano inferiori a quelli di qualsiasi altra ditta. In questo caso, alcune imprese (o una sola) non avranno bisogno di abbassare i prezzi al costo marginale, o di produrre quantità tali da essere vendute soltanto al prezzo che copra appena i costi marginali. L’interesse spingerà l’impresa unicamente a mantenere i prezzi sotto al livello a cui nuovi produttori sarebbero tentati ad entrare sul mercato. In questo intervallo di tempo tali imprese sarebbero libere di agire da monopolisti e fissare i prezzi (o le quantità di merce prodotta) al livello che renderà loro maggiormente, e che è limitato soltanto dalla considerazione di dover mantenere i prezzi sufficientemente bassi da escludere gli altri.
In tutti questi casi un dittatore onnisciente potrebbe migliorare l’uso delle risorse disponibili, obbligando le imprese ad espandere la loro produzione finché i prezzi coprano appena i costi marginali. Secondo questo standard, applicato comunemente da alcuni teorici, molti dei mercati esistenti sono certamente molto «imperfetti». Tuttavia, per problemi pratici questo standard è completamente irrilevante, perché non si basa su un paragone con una condizione raggiungibile con procedimenti noti, ma con condizioni raggiungibili solo se certi fatti che non possiamo modificare fossero diversi da come sono in realtà. Usare come standard per misurare i risultati della concorrenza gli ipotetici arrangiamenti fatti da un dittatore onnisciente sembra naturale all’economista la cui analisi procede sull’assunto fittizio che egli conosce tutti i fatti che determinato l’ordine di mercato. Non fornisce però un test valido applicabile significativamente ai risultati di una politica reale. Il test non dovrebbe essere rappresentato dalla misura del grado di accostamento ad un risultato irraggiungibile, ma dovrebbe permettere di vedere se i risultati di una data politica sono migliori o peggiori dei risultati ottenibili con altri procedimenti. Il vero problema è come si può aumentare l’efficienza oltre il livello preesistente, non quanto ci si può avvicinare a quello auspicabile se i fatti fossero diversi.
In altre parole, lo standard per giudicare i risultati della concorrenza non deve essere costituito da quel che farebbe chi avesse una conoscenza completa di tutti i fatti, ma dalla probabilità, che soltanto la concorrenza può assicurare, che i diversi beni saranno forniti da coloro che producono una quantità di ciò che gli altri desiderano maggiore rispetto a quella che avrebbero prodotto in un regime di non concorrenza.
* Link all’originale: http://vonmises.it/2012/03/22/il-mercato-e-la-concorrenza/
Ad Amato (ma anche al signor Tony) consiglio la lettura del saggio di Carl Menger sull’origine della moneta.
http://johnnycloaca.blogspot.it/2012/02/la-natura-e-lorigine-del-denaro.html?m=1
Dopo la lettura credo sarà chiaro se la moneta è una merce o meno.
Saluti a Leonardo
Ottimo consiglio e ricambio i saluti
tristezza…
Dategli un’occhiata:
http://www.linkiesta.it/amato-la-fine-della-finanza
Meno male che a parlare non sia un “sinistroide fissato”. :D
Anche se non tocca tutti i punti caldi e finisce con una domanda (con risposta nota, almeno per quelli come me: il socialismo) l’articolo è davvero davvero illuminante. Certo, fa a pugni con la vostra impostazione. E’ un bene che a scriverlo non sia io, ma uno dei vostri simili a spiegarvi che il denaro non è una merce e che l’accumulazione è un male per l’economia.
saluti
Ho l’impressione che molte volte le autorità antimonopolio( antitrust authorities, per parlare alla barbara) guardino alla realtà economica proprio dal punto di vista di una teorica, e nella maggior parte dei casi assolutamente irrealistica, concorrenza perfetta. Avrei piacere che qualcuno più esperto di me i illuminasse in propopsito. Sarò ben contento di ricredermi, se mi sbaglio.