Una ulteriore chiave di lettura, ai fini della comprensione dell’attuale deriva statalista e del pensiero comune che la accetta e la sorregge, è da riscontrarsi nel radicamento e nell’estensione di un habitus mentale particolare, la cui influenza è per lo meno pari alla gravità degli effetti che lo stesso è in grado di generare.
Stiamo parlando della fede incrollabile ed indefettibile, nutrita dalla massa dei governati, nel primato della politica, quale strumento insostituibile per intercettare bisogni e desideri, e nell’infallibilità delle attribuzioni miracolistiche che le vengono ascritte, in ordine alla elaborazione di soluzioni valide per far fronte a quei bisogni e a quei desideri.
Sia che integri i toni dell’affidamento opportunistico ed utilitarista, o che assuma quelli della credenza ritualistica ed ingenua, del tutto priva di maliziose attese da tradurre in sonante tornaconto, siamo comunque al cospetto di un fascinoso pensiero che indurrebbe a credere che tutte le problematiche, sempre più complesse, che punteggiano la nostra esistenza – siano esse di carattere economico, giuridico, sociale – possano essere felicemente risolte solo se si investono dei necessari poteri coloro che realmente sanno e possono: i governanti del ceto politico e burocratico.
È inutile constatare che le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni: il punto, convenendo con Alessandro Vitale, è che l’intera percezione contemporanea della realtà, non solo di quella politica, ma anche di quella morale, estetica e intellettuale della nostra esistenza, si forma largamente attraverso il prisma dello Stato, che viene confuso con il governo, l’ordine politico, l’aggregazione politica, la dimensione politica in sé, al punto da considerare questi ultimi come sinonimi dell’istituzione moderna e molto recente “Stato burocratico-territoriale”. Lo statalismo infatti non è soltanto accettazione di dottrine politiche diffuse, composte oltre che da finzioni e invenzioni, anche da chiare ed esplicite formule di legittimazione del potere, sebbene l’inganno ideologico faccia la sua parte, ma è anche e soprattutto stratificazione di una mentalità che si sedimenta nell’abitudine all’acquiescenza…
Una simile impostazione mentale postula però, già dall’inizio, un preciso ordine di problemi: di fatto, qualunque sia la percezione e l’orientamento psicologico mantenuti dal comune cittadino nei riguardi della dimensione del “politico” e qualunque siano le attese e le aspettative che questa possa ingenerare, gli effetti non possono per questo dirsi men gravi e pregiudizievoli.
Si cerchi di inquadrare quello che, per certi aspetti, può essere considerato il male minore: la rappresentazione della politica come strumento necessario a perseguire il “bene comune”; la convinzione, genuina e disinteressata, che la stessa debba porsi come veicolo insostituibile per l’affermazione del confronto e della partecipazione, in vista della risoluzione di quei problemi sociali che, si pensa, non potrebbero essere altrimenti affrontati. Tecnicamente, questo processo trova la sua collocazione più naturale ed è in grado di ottimizzare i risultati perseguiti quando viene calato nell’alveo del classico percorso democratico, in base al quale le istanze e le mozioni avanzate dal popolo possono essere promosse e trovare compimento solo in virtù dell’impegno e delle capacità di intermediazione di propri rappresentanti eletti nel parlamento.
In teoria, dunque, secondo questa declinazione della percezione del fenomeno, la dimensione politica si sublimerebbe nel dar corso al senso profondo ed originario del concetto di “rappresentanza”: quello di repraesentare, di “far di nuovo presente” quali siano i bisogni e le necessità di cui chi è al potere e ne ha il potere deve assolutamente farsi carico. Ma in realtà, stanti le innumerevoli difficoltà di ordine tecnico e pratico, il nobile intendimento iniziale evapora in una ineffabile pia illusione e si limita sostanzialmente a tradursi in ben altro: in sostanza, come ha notato Bruno Leoni, <<il ruolo essenziale dell’elettorato non è decidere su linee di condotta specifiche, ma decidere quale di due o più gruppi concorrenti di leader potenziali dovrà prendere le decisioni>>.
La rappresentanza, specie se intesa in questa versione minimale e depotenziata, non può essere certo la panacea di tutti i mali; anzi, è foriera essa stessa di una serie di inevitabili ripercussioni negative.
Da un lato, se il conferimento di una delega in bianco, a favore di chi si reputa in grado di stabilire ex ante la soluzione ottima da applicare al caso concreto, consente di mettersi in pace la coscienza, sgravandola da responsabilità decisionali, dall’altro ciò spalanca la porta ad inevitabili derive dirigistiche. Perché la revoca della libertà e della dignità di scelta conduce, dritto dritto, all’assurda mitizzazione della hybris invincibile del Pianificatore, parimenti infallibile depositario della Verità ed instancabile demiurgo di soluzioni innovative. Esso non può non sapere cosa sia giusto, come, quando, e per chi lo sia: la praticabilità delle soluzioni è così irrimediabilmente connaturata alla incensurabilità delle sue ardite presunzioni costruttiviste.
Del resto, si sa, è lo statalismo il miglior sfamatore di se stesso: e nulla più dei suoi miti immortali possono nutrirlo e renderlo satollo e prospero. Da semplice scappatoia di disimpegno, la delega in bianco diviene così, per una lunga teoria di pianificatori improvvisati, strumento di dominio e di controllo. Gli effetti nefasti erano già stati mirabilmente tratteggiati da Adam Smith più di due secoli fa:
Il programmatore (the man of system) è spesso così innamorato della presunta bellezza del suo piano ideale di governo, che non può tollerare la più piccola deviazione da una qualche sua parte. Egli si dà cura di precisarlo completamente ed in tutti i suoi dettagli, senza riguardo alcuno né per i grandi interessi né per i forti pregiudizi che potrebbero opporglisi: sembra quasi che egli sia convinto di poter disporre i vari membri di una grande società con la stessa facilità con cui la mano dispone i vari pezzi della scacchiera; non considera che i pezzi sulla scacchiera non hanno altra spinta che quella che la mano imprime loro; ma che, nella grande scacchiera della società umana, ogni pezzo ha un principio di moto suo proprio, completamente diverso da quello che il legislatore potrebbe scegliere di imprimergli.
Di fatto, la tara genetica, estremamente dannosa e non emendabile, di un processo intriso di costruttivismo ingegneristico:
a) postula un approccio metodologico eminentemente coercitivo, a prescindere da ogni e qualsiasi ulteriore valutazione;
b) non tiene affatto conto del fenomeno della dispersione delle conoscenze;
c) omette deliberatamente di tenere in debita considerazione le reazioni prodotte, nella valutazione delle distinte e specifiche situazioni, dall’incedere del tempo, presupponendo invece una loro assoluta cristallizzazione nella staticità imperturbabile di qualche sedicente equilibrio vagheggiato;
d) favorisce l’assunzione di scelte arbitrarie, sulla scorta di una lettura falsata della realtà delle cose, a furia di decontestualizzazioni ed omologazioni. In nome e per conto della univoca “soluzione ottima” calata dall’alto, non vi sarebbe assolutamente più spazio né per l’adozione di scelte personali differenti, né per la sperimentazione di soluzioni alternative, divergenti rispetto alle strade segnate dalla Pianificazione rivelata;
e) tende ad incrementare, in maniera innegabile ed esponenziale, la litigiosità tra i diversi destinatari della “soluzione ottima”;
f) ingenera, nelle pieghe del dibattito politico, delle distorsioni e dei condizionamenti altamente pericolosi ed estremamente ingannevoli, perché, come ben si è espresso Antonio Martino, <<si perviene… all’implicita convinzione che alle intenzioni seguano “naturalmente” i risultati, nel senso che i successi sul piano sociale non sono altro che la contropartita inevitabile di nobili intenzioni, e gli insuccessi la conseguenza certa di propositi malvagi o di congiure>>;
g) conduce inevitabilmente, ed è forse questo l’aspetto di maggior gravità, ad equivocare sulla natura, sulla conformità etica e sulla efficienza pratica dei due contrapposti mezzi d’azione individuale che sono qui coinvolti: quelli economici e quelli politici. Si misconosce di fatto la bontà dei primi, gli unici a rispondere pienamente ai canoni di giustezza materiale e spirituale, in quanto presuppongono la produzione delle risorse e l’acquisizione dei beni passibili di soddisfare gli specifici bisogni individuali, a mezzo dell’impiego del proprio lavoro e dello scambio, volontario e mutualmente vantaggioso, di questo con il lavoro degli altri; e si idealizzano inopportunamente, di converso, le virtù dei secondi, che praticamente si sostanziano nell’acquisizione di risorse per via dell’indebita appropriazione del lavoro altrui e del consolidamento di relazioni coatte, (del tipo “comando-obbedienza”), a somma zero, mantenute in vita dalla sola minaccia dell’uso della forza.
La confusione sulla portata di simili implicazioni viene ancor più esacerbata nel momento in cui si afferma la seconda visione della dimensione del “politico”, certamente meno ingenua e più smaliziata rispetto a quella sin qui descritta. Trattasi della rappresentazione della politica come strumento necessario a perseguire esclusivamente il proprio tornaconto personale – trincerandolo ovviamente dietro l’abusata mitologia del bene comune- nonché come veicolo privilegiato da sfruttarsi, in via diretta od indiretta, per la promozione della propria ascesa sociale. In una simile prospettiva, la rappresentanza non può assumere altre connotazioni che quelle di un mero elemento strutturale di un sistema formalmente democratico, giusto perché basato sull’elezione dei governanti e sulla presunta rappresentatività degli stessi: non importa un granché se le elezioni siano tenute proprio <<allo scopo di raggiungere decisioni collettive tramite la regola di maggioranza o qualunque altra regola il cui effetto è coercire la parte perdente dell’elettorato>> (Bruno Leoni).
È nel mix esplosivo tra formula democratica, parlamentarismo e rappresentanza politica che può annidarsi e prosperare il parassitismo più estremo, ormai elevato a sistema: esso non dà luogo solamente alla proliferazione fagocitante del pubblico in svariati ambiti della vita economica e sociale, o al consolidamento funzionale dell’esistenza di una pletora di burocrati inutili quanto dannosi, o ancora di un esercito sterminato di parassiti in servizio permanente effettivo. Detto mix diviene altresì fertile humus per la moltiplicazione incontrollata ed incontrollabile di clientele e gruppi di rent seekers, capaci di prosperare innescando una ferale catena di rapporti collusivi, reciprocamente vantaggiosi, con i mediatori politico-burocratici. Do ut des: del resto se “Parigi val bene una messa”, figuriamoci se una rendita di posizione o l’assistenza a pioggia non valgano sostegno e supporto propagandistico- elettorale!
Ma, a questa stregua, chi o cosa permetterebbe, o faciliterebbe oltremodo, il perfezionamento di questi rapporti collusivi, fungendo da trait d’union tra le parti interessate? Tra i tanti fattori che possono intervenire, uno appare particolarmente degno di nota: stiamo parlando di quelle entità che la stragrande maggioranza dei cittadini identifica quali <<aggregazioni unite da valori, fini e programmi basati su una comune visione del mondo>>: i partiti politici. Ma che nella realtà si qualificano come ben altro: come delle mere <<fazioni egoistiche, che aspirano a conquistare il potere e le rendite politiche e parassitarie ad esso connesse, per gestirlo e per spartirle ai propri seguaci ed elettori in cerca di garanzie sul loro futuro>> (le citazioni sono di A. Vitale).
Ecco, quindi, come l’espansione illimitata della sfera politica, a mezzo della legittima e legittimante “chiamata alle armi” di tanti più seguaci possibili riesce, da ultimo, a nutrire e ad alimentare il mito famigerato del suo primato.
Perché non solo si inocula nell’immaginario collettivo l’idea che vi possa essere una soluzione “politica” per tutto; che solo il canale politico possa assicurare le provvisioni necessarie al soddisfacimento dei propri bisogni, sia che quelle si manifestino sotto forma di esenzione, di prebenda, di beneficio, di pensione o di scappatoia; o, ancora, l’idea che si possa anche tollerare la proliferazione di assurdi privilegi, in quanto costi di produzione del bene pubblico “politica”, per dar compimento a specifiche aspirazioni individuali, destinate altrimenti, nella logica viziata dei postulanti, a restare irrealizzate o, al limite, a poter essere ottenute per il tramite del mercato ad un maggior costo e con un minimo vantaggio.
Non solo. Ma questa logica perversa e malata svilisce soprattutto le capacità di cooperazione degli individui, annienta la loro attitudine naturale alla interazione volontaria e produttiva, compromette lo sviluppo incrementale delle nuove ed inesplorate “occasioni da libertà” che potrebbero sorgere se solo si favorisse lo scambio mutualmente vantaggioso, e dietro remunerazione liberamente stabilita, di quei beni e di quei servizi che, in date circostanze di tempo e di luogo, si intendessero vicendevolmente cogliere per conseguire le proprie personalissime finalità. Rifacendoci alle parole di Pietro Monsurrò, <<la politica svuota la società: fa “crowding out” della capacità degli individui di cooperare, perché il chiedere privilegi e il difendersi dalla concorrenza altrui tramite questi diventano strategie dominanti rispetto ad impegnarsi per soddisfare il prossimo e coordinarsi con lui. L’atrofia sociale provoca un’ulteriore concentrazione di potere, e il meccanismo si autorafforza fino ad arrivare allo Stato onnipotente. I gruppi sociali diventano lobbies, gli individui diventano accattoni, e la politica diventa l’intermediatrice di tutto l’agire sociale>>.
Così come cacciamo via dai pensieri la morte ! rifiutiamo allo stesso modo il pensiero di essere “schiavi del Sistema)..così come la morte,non c,è niente da fare,il sistema ha ingranato la marcia…nessuno lo ferma più.E” tutto così semplice ! Visto che loro campano grazie ai nostri soldi,è ovvio che o con le buone o con le cattive maniere “Equitalia”!?!devi pagare.E se sei un barbone loro “per vendicarsi”ti portano via lo scatolone dove dormi politici sono tutti (Scilipoti !!)é una parolaccia ???Non sò,quello che è certo che tutti quei seduti in poltrona : non sono persone serie !!!