Nel complesso delle scienze sociali, così come molto più prosaicamente nell’ambito della vita di tutti i giorni, vi sono delle regole, delle tesi e dei principi che sono assolutamente e scientificamente veri senza per questo essere immediatamente evidenti. E ciò sebbene la loro fondatezza sia appurata “sul campo” da comportamenti, consuetudini, modi di fare ed agire che ne testimoniano appunto l’intrinseca bontà teorica, nonché la indiscussa efficacia pratica.
Non si sottraggono a questo destino alcune tra le fondamentali leggi economiche, che governano e presiedono il funzionamento di quello straordinario processo di scoperta, che è il mercato: non solo in quanto formidabile allocatore di risorse, ma anche quale imprescindibile meccanismo di coordinazione e trasmissione spontanea delle informazioni, caratterizzate da finalità proprie, nonché portatrici di interessi, di preferenze, di possibilità, di aspettative e di piani individuali talvolta imperscrutabili e che sarebbero altrimenti destinati a rimanere irrealizzati od incompiuti, stante le difficoltà, in assenza del mercato, di incrociare le alternative di scelta valide, e di rendere poi compatibile l’interazione con le altre economie individuali in gioco.
Come acutamente analizzato in uno studio (The Myth of the Rational Voter – Why Democracies Choose Bad Policies-http://www.cato.org/pubs/pas/pa594.pdf) dell’economista Bryan Caplan, che è ormai un classico, la stragrande maggioranza dei cittadini incorre abitualmente in madornali errori di valutazione, passibili tanto di compromettere una corretta interpretazione dei fenomeni sociali che li vede protagonisti, quanto di pregiudicare valutazioni appropriate circa le misure più opportune da intraprendere a fronte dell’emergere di determinate problematiche.
Caplan è giunto ad isolare una serie di equivoci di fondo: dal diffusissimo pregiudizio anti-mercato, configurabile come una tendenza a sottostimare i benefici generati e generabili dal funzionamento di una libera economia di mercato, al pregiudizio protezionista, definibile come una tendenza a sottovalutare i mutui vantaggi conseguibili dagli scambi e dalle interazioni commerciali con l’esterno; da una preclusione per così dire “lavorista”, da intendersi come propensione mentale ad identificare la prosperità non con la produttività e lo sviluppo economico, ma con la mera occupazione in sé e per sé, alla visione disfattista, per la quale si tende sempre a soppesare l’importanza e la rilevanza dei problemi economici attuali, misconoscendo al contempo i progressi e le performance raggiunte grazie alla crescita economica.
Al di là delle particolari questioni tecniche che rischiano di mettere a repentaglio la comprensione dei meccanismi della “mano invisibile” nei singoli e specifici casi di specie, sembra però che a monte continui a sussistere e a consolidarsi un antico, sesquipedale abbaglio: l’incapacità assoluta di realizzare l’origine irriflessa, non deliberata della maggior parte delle istituzioni sociali (tra le quali il linguaggio, i costumi, le regole spontanee e naturali della convivenza civile, il mercato). Incapacità che si traduce così nel disconoscimento dell’evidenza truistica che la loro genesi e la loro evoluzione non possono essere rapportate ad alcuno specifico piano individuale, ancorché <<sussistano per il concorso spontaneo, attivo e costante di innumerevoli individui>>.
L’avvalorare tale assunto conduce, in primo luogo, ad ammettere che <<la spontanea collaborazione degli uomini liberi crei spesso, nel decorso del tempo, cose più vaste e durature di quante i loro pensieri individuali possano mai pienamente comprendere>>.
In secondo luogo, ciò porterebbe a ricusare l’idea dell’egualitarismo come correntemente inteso, per abbracciare una diversa idea di eguaglianza, sicuramente più realistica: quella per cui <<gli individui debbono essere trattati in modo eguale: ossia lasciati operare liberamente, ciascuno nell’ambito della propria sfera di conoscenza e di azione, così che ciascuno contribuisca all’organizzazione della società, trovando in essa il proprio livello>>.
Se si riuscisse finalmente a penetrare il senso profondo di queste argomentazioni, risulterebbe pressoché naturale e scontato promuovere l’affermazione dei corollari logicamente conseguenti.
Innanzitutto, si realizzerebbe che l’individuo agente non solo debba poter godere di una concreta sfera di autonomia e di libertà, attraverso la quale poter esprimere la propria essenza e le proprie specifiche inclinazioni, mettendo a frutto, sol che lo voglia, i propri talenti. Ma questi deve poter altresì imparare a fare a meno sia delle soluzioni calate dall’alto e spacciate, in nome di una pretesa presunta superiorità cognitiva dei governanti, come ottime; sia dei progetti partoriti dalla mente di reggitori illuminati, pervasi dalla presunzione fatale di conoscere, prima ancor dei diretti interessati, ciò che sia veramente meglio per loro, deliberandolo per via autoritativa e sotto le mentite e capziose spoglie della inconfutabile bontà della scelta collettiva.
Secondariamente, dovrebbe porsi come imperativo categorico il fatto, non più eludibile, di prestare la massima cura proprio a quelle regole irriflesse e spontanee, frutto dell’interazione volontaria degli individui, di per sé predicabili di assicurare e garantire prevedibilità alle loro azioni.
Ma se le cose stanno così, perché si sconta sempre di più l’affermazione di visioni e logiche del tutto contrapposte? La cui plausibilità, per giunta, pare dettata, più che altro, dalla loro eccezionale capacità di suggestionare gli istinti più profondi delle masse, lusingandone gli impulsi e le passioni più intime. Queste non si impongono certo grazie alla forza incontestabile delle argomentazioni scientifiche che ne stanno alla base, e neppure grazie alla validità della prove empiriche che dovrebbero confermarne la bontà. Ma tant’è che la loro forza persuasiva è devastante, direttamente proporzionale ai danni che possono invariabilmente recare.
L’idea, invalsa e radicata nell’immaginario collettivo, che <<considera l’individuo ragionante come il punto di partenza della società e delle istituzioni, concepite quali consapevoli creazioni di uno, o di molti individui deliberanti>> è proprio uno dei pilastri imprescindibili e cruciali per la tenuta e lo sviluppo di quelle visioni e di quelle logiche: tanto più pericolosa proprio perché estremamente plausibile. Un’idea figlia del cartesianesimo, degli Enciclopedisti, di Rousseau e dei Fisiocrati, un individualismo di stampo razionalistico e di matrice francese, per il quale la sfera individuale deve essere concepita <<come il risultato di una assegnazione coattiva, deliberata e programmatica, ad ogni individuo, di mezzi e di fini>>; se ci si discosta da questo modello costituito ex ante, il ricorso alla coazione e all’imposizioneper piegare le eventuali resistenze non sarebbe neppure da disdegnarsi. È Leoni a ricordarci che <<Diderot diceva che esistono degli argomenti con i quali possiamo cercare di convincere le persone della opportunità di appartenere al gruppo, ma aggiungeva che bisogna ricorrere all’eliminazione materiale di coloro che non si lasciano persuadere. L’uomo che non si lascia convincere ad appartenere al gruppo è l’uomo da eliminare,’l’homme à étouffer’ (l’uomo da soffocare)>>.
Un simile ordine di cose, ancorché spesso collocato nel solco di una ben definita tradizione di idee e principi liberali e contrabbandato come se lo fosse, non può che configurarsi come l’inevitabile anticamera e il prodromo logico di un “brodo di coltura” inteso alla formazione o, quantomeno, alla legittimazione di presupposti teoretici ed ideologici del tutto divergenti. Che sono tipici di dottrine che contemplano nel proprio dna la venerazione per qualsiasi tipologia di “costruttivismo ingegneristico”; per cui tutti gli eventi storici e le istituzioni sociali possono e devono trovare una rispondenza nella soluzione “giusta” e nella collocazione “ottima”, calate dall’alto, in forza di deliberazioni e di piani statuiti con ferma intenzionalità, progettati con lucida consapevolezza e realizzati con una deterministica e feroce fiducia nella ragione umana, nelle conoscenze acquisite e nei mezzi disponibili.
Ecco, allora, farsi strada e prendere il sopravvento la lucida e fredda follia costruttivista: del resto, si sa, “le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni”. Ed è così, nel frattempo, che la Belva si sfama, cresce, e si rende sempre più satolla, ingombrante ed intollerabile.
*Tutte le citazioni contenute nel testo sono riconducibili a Bruno Leoni.
Un conto è la libertà “francese”, un conto la liberà “americana” L’aveva capito benissimo il nostro Vittorio Alfieri, di solito dipinto come un idealista impolitico, nel suo “Misogallo”.