L’invidia è, forse, la molla principale del collettivismo. Ieri, discutendo con un operaio convintamente cigiellino di società libere, un operaio di quelli che sciopereranno il prossimo 6 settembre, ho provato a spiegargli che la scelta di Giorgio Fidenato di smettere di fare il sostituto d’imposta (dare tutti i soldi in busta paga ai suoi dipendenti) è dettata dalla sua volontà di smettere di essere obbligato dallo Stato a fare qualcosa che non gli aggradava. La risposta del “cipputi” è stata secca: “Da un padrone non c’è nulla da imparare, dato che è lo sfruttamento degli operai l’unica cosa che san fare”!
Poco gli importava a questo signore che i 6 dipendenti di Fidenato fossero d’accordo con l’imprenditore e nelle sue parole l’invidia preconcetta gli si stagliava negli occhi.
Scritto da uno dei più autorevoli sociologi viventi, Helmut Schoeck è nato a Graz nel 1922, “L’invidia e la società” (edito da Liberilibri) è una completa teoria della società e dei comportamenti umani con riferimento a questo abominevole sentimento. Del resto, la conclusione del libro non lascia adito a dubbi:“Comportarsi come se l’invidioso dovesse dettar legge alla politica economica e sociale equivarrebbe ad un suicidio”. Un suicidio collettivo, anzi collettivista verrebbe da dire, proprio come quello che si è paventato dopo la caduta del muro di Berlino in quelle società guidate col pugno di ferro e sorrette dagli stilemi marxiani.
Schoeck, riferendosi all’invidia (assai diffusa e dannosa nelle società social-democratiche e liberaldemocratiche) la definisce come una tendenza di natura etica (non vi dicono niente frasi assai popolari come “tu devi darmi”, “io ho diritto di avere”, ecc.), una tendenza che porta l’uomo a guerreggiare continuamente con l’uomo, anziché dedicarsi allo scambio libero e al contratto come forma di convivenza.
Tema centrale del libro è l’aspirazione all’uguaglianza (una distopia assoluta), alla cui radice è un peccato capitale, l’invidia, analizzata impietosamente dall’autore nelle sue manifestazioni più varie e talora più segrete e insospettabili.
Nel mondo d’oggi l’aspirazione all’uguaglianza è rivendicata sia dai programmi socialisti, i quali credono di utilizzare l’invidia proletaria in funzione rivoluzionaria per instaurare un ordine sociale in cui si svuotino le ragioni stesse dell’invidia; sia dal falso-capitalismo, che «produce» e «vende» invidia per stimolare l’emulazione e quindi lo sviluppo del mercato.
Il libro di Schoeck è la prima sintesi organica ed esauriente di un fenomeno che spiega gran parte della storia contemporanea, e offre uno strumento prezioso per l’analisi della struttura politica e sociale.
Conoscere e capire a fondo i meccanismi che l’invidia stimola, ci permette di capire che essa è come la benzina nel motore delle società aggressive ed ingiuste, ovvero di quelle società che della libertà hanno perso le tracce.
PITTURA DEL DONIZETTI
Trovo molto giusto l’atteggiamento di Fidenato, non solo per la ribellione al lavoro forzato imposto dallo stato su di lui, ma anche e sopratutto perche’ finalmente anche il lavoratore dipendente puo’ constatare in prima persona quanto dello stipendio da lui guadagnato viene incamerato dallo stato. Quindi e’ messo in condizione, se vuole, di constatare anche il costo-beneficio che ricava nel pagare quelle tasse e detrazioni varie.
si potrebbe parafrasare il tutto con la bella favola de “La volpe e l’uva”. Fin dall’antichità l’uomo si è sempre comportato così. Peccato che pochi provino a cambiare il corso delle cose e molti (a cominciare dai burocrati sparpagliati nei sindacati) ci sguazzano alla grande.
p.s. però… avreste potuto scrivere che l’immagine del quadro è di Donizzetti…
FATTO, GRAZIE!
L’invidia è una brutto sentimento … è vero. Però, se parliamo ad esempio di lavoratori dipendenti costretti a subire le ingiustizie del loro stato sociale, è uno stato d’animo che viene a galla quando si vivie una situazione di ingiustizia sociale anche quando la propria natura, il proprio modo di essere e di pensare la ripudia:
io lavoratore dipendente lavoro tutto il giorno per te datore di lavoro; con la retribuzione che ricevo devo tirare la cinghia per riuscire a vivere con un minimo di decoro (quando va bene), i governi che si susseguono “tirano fuori” leggi che ledono la mia dignità di lavoratore (perdita di diritti e quindi anche di libertà), in qualche modo riducono il mio stipendio o il suo potere d’acquisto. Allo stesso tempo tu datore di lavoro avendo dalla tua parte leggi che ti agevolano nel rapporto con i tuoi dipendenti ti arricchisci sempre più e riesci a vivere una vita sempre più agiata.
Questa cari ragazzi la possiamo chiamare “lotta di classe” e che piaccia o no anche l’invidia è il combustibile che la alimenta.
Mi viene in mente che nessuno obbliga a nessuno a fare il dipendente. Volendo tutti possiamo fare gli imprenditori. Chiedetevi perché pochi ci riescono. Chiedevi quali e quante sono le difficoltà pe farlo.
CHIEDETEVI DI CH E’ LA COLPA! Non certo del tuo capo! MA DEL VOSTRO STATO CHE DIFENDETE SEMPRE.
Ma sopratutto ( ed ho avuto anche io qualche dipendente) chiedetevi quanti sforzi fa un dipendente per meritarsi lo stipendio; spesso con la scusa che guadagnano poco pensano di dover impegnarsi altrettanto poco. Ricordatevi che sopratutto nel privato di piccole dimensioni il lavoratore onesto e voglioso é sempre tenuto su un palmo della mano.
Ricordiamoci anche che molti imprenditori guadagnano meno dei dipendenti e rischiano molto di più.
Caro..dove sia l’ingiustizia non riesco proprio a vederlo…..nessuno ti obbliga a lavorare per nessun” datore di lavoro”. Se ti senti sacrificato, fai come me, apri una partita IVA e vai! Lascia il tuo posto a qualcuno che si lamenta meno. Poi ne riparliamo! Auguri per la tua nuova vita
dopo le scuole superiori ho iniziato a lavorare sotto padrone come manovale. mi piaceva stare al fianco degli operai, condividere le loro fatiche, imparare dalla loro saggezza. Poi, dopo alcuni anni, ho deciso di mettermi “in proprio” e sono stati anni duri lo stesso, con la consolazione che il mio futuro lo costruivo con le mie mani, nonostante momenti di terribili sconforti e sacrifici. Credo di aver imparato, però, che essere in “proprio” o “sotto padrone” comporti sempre la dignità del lavoro, del rispetto tra persone e il riconoscimento morale ed economico delle prestazioni.
Ognuno di noi è portato per ciò che sa fare meglio, l’importante è che non venga mai meno il rispetto per le persone, tutte. Ecco perchè io mi arrabbio con i sindacati. Spesso difendono le proprie categorie mettendo gli uni contro gli altri (che ne dite degli statali nei confronti dei cittadini?), chiudendo gli occhi (quanti extra comunitari vengono sfruttati?) invece di difendere e valorizzare il lavoro inteso come valore e utilità verso gli altri?
Bel commento Guglielmo!!
mi sa che quel tizio non era un “Cipputi” ma un sindacalizzato che probabilmente nella vita non ha mai fatto un accidente!