DI FABIO MASSIMO NICOSIA (Notizie Radicali)
Nei giorni scorsi ha fatto scalpore il diffondersi della notizia (smentita dall’ambasciata finlandese alla quale ci siamo rivolti) della pretesa dello stato finlandese di ottenere quale mezzo di garanzia per il concorso nel salvataggio finanziario dello stato greco una sorta di ipoteca sul Partenone. Più precisamente, sono circolate voci diplomatiche, riportate dalla stampa, secondo le quali la Grecia disporrebbe di beni per il valore complessivo di 300 miliardi di euro.
La notizia, pur infondata, è stata accolta con sorrisini di sufficienza (qualcuno ha ricordato Totò che “vendeva” la fontana di Trevi), e tuttavia, se fosse stata vera, avrebbe meritato ben altra accoglienza, trattandosi di una questione molto seria che coinvolge alcuni principi del diritto pubblico, che sono sempre stati considerati “indefettibili”.
Non ci è noto come la Finlandia tratti al proprio interno, dal punto di vista contabile, i proprio beni pubblici e demaniali, e se quindi sarebbe incorsa in contraddizione, nel momento in cui avesse trattato il Partenone da bene “intra commercium”, ossia soggetto alle normali regole del diritto civile, piuttosto che a quelle, più rigide del diritto amministrativo e della contabilità di Stato tradizionali.
Quel che è certo è che, con tale atto, la Finlandia avrebbe impresso un chiaro vulnus al principio della invalutabilità dei beni demaniali, principio che, nel gergo giuridico, verrebbe definito “tralaticio”, ossia che si tramanda di generazione in generazione meccanicamente, senza alcuna revisione di razionalità e di attualità.
Certo, finché i bilanci degli stati non creano problemi, il principio tralaticio può ancora essere salvato senza troppi pensieri, ma nel momento in cui persino gli U.S.A. rischiano il default, qualcuno potrebbe cominciare a chiedersi come mai le ricchezze maggiori di un Paese continuano a restare fuori dal bilancio dello stato, cosa che non sarebbe permessa a una società privata. Del resto, se una società privata per azioni iscrive in bilancio all’attivo i propri “beni immobili” (art. 2424 c.c., c. 1, 1° cpv., n. 2), e lo stesso fanno le società in mano pubblica, non si vede perché solo lo Stato e gli altri enti territoriali debbano ignorare di possedere beni immobili e fondiari oltretutto immensi e immani. Se ne ricava che il bilancio dello Stato sia un bilancio senza cespiti immobiliari, l’unico noto con tale bizzarra caratteristica.
Si consideri ad esempio questa bizzarria, per la quale se una S.p.a. possiede un terreno, questo è iscritto in bilancio e ha un valore di mercato, indipendentemente dall’esistenza di una volontà di venderlo, mentre se lo stesso terreno viene espropriato da una pubblica amministrazione questo valore si volatilizza, dato che non viene iscritto in alcun bilancio e in alcuna sua parte: diventa un costo.
Eppure già nel 1896 Antonio Labriola scriveva che, con l’evoluzione storica, lo Stato “è dovuto divenire una potenza economica”, in particolare “nella diretta proprietà del demanio”, oltre che “nella razzia, nella preda, nell’imposizione bellica”. Si trattava dell’eredità dello Stato patrimoniale, di quelli che già per A. Smith erano i beni di sua proprietà per il sostentamento del principe, oltre che per gli spostamenti delle truppe.
Oggi questo demanio è sterminato: strade e autostrade, porti e aeroporti, impianti energetici, beni storici e artistici, coste, acque territoriali, fiumi, laghi, risorse naturali degli enti locali, miniere, cave e, per accessione, rete elettrica e cavi telefonici (almeno potenzialmente), armamenti, strade ferrate, l’etere, che viene dato in concessione alle emittenti televisive per scarso corrispettivo, così come le coste vengono “privatizzate” con concessioni per pochi denari. A tacere delle riserve auree, 2500 tonnellate in Italia, e a loro volta non contabilizzate.
Eppure tutti dicono che lo Stato è “povero”, che ha un immane deficit di bilancio, una voragine di debiti, che non ha di che spendere: eppure stranamente quando la politica vuole lo fa.
Questi beni incarnano il potere sovrano, sono gli strumenti della supremazia, quelli che fanno di uno Stato uno Stato: però lo Stato sarebbe anche “povero”. E se la Grecia ha beni per 300 miliardi l’Italia, con tutte le città d’arte, ne ha certamente molti di più…
Povero Stato, che rende poveri noi con manovre “lacrime e sangue”, quando basterebbe un ammodernamento della teoria del bilancio dello Stato (che, come dice Jacques Attali, non ha criteri tassativi di formazione, trattandosi di questione rimessa al diritto positivo) per consentire manovre di crescita e non gravemente restrittive come avviene ora.
FABIO MASSIMO NICOSIA HA PUBBLICATO PER LA “LEONARDO FACCO EDITORE” IL LIBRO “IL DIRITTO DI ESSERE LIBERI”