di Matteo Corsini
“La politica strutturale però non basta. Nella congiuntura del dopo-crisi conta anche la domanda. Politiche strutturali che incentivino gli investimenti sono doppiamente benedette, perché incrementano al tempo stesso la domanda e l’offerta potenziale. È a queste misure che va data la priorità nei piani finanziari dei Governi, ma è fondamentale anche ritirare con i tempi giusti le misure di stimolo, monetarie e di bilancio. È molto più verosimile, nelle attuali circostanze, un ritiro troppo affrettato piuttosto che troppo tardivo, e questo metterebbe a rischio la ripresa e genererebbe una prolungata stagnazione, con effetti strutturali nefasti sul lungo periodo. Tre sono le considerazioni che vanno tenute a mente. La prima è che il rendimento dei titoli di Stato decennali di Stati Uniti e Germania questa settimana è sceso sotto al 3 per cento. Per gli Usa la cosa colpisce, considerando l’isteria sulla tenuta dei conti pubblici. La seconda considerazione è che nonostante l’espansione della base monetaria, la crescita degli aggregati più ampi è rimasta contenuta in America e nella zona euro. Ulteriori misure di espansione quantitativa sarebbero tranquillamente gestibili, e assolutamente assennate se l’economia perderà slancio. Infine, i valori di base dell’inflazione dei prezzi al consumo sono estremamente bassi, sia in America che nella zona euro. Concentrarsi su un elemento volatile e imprevedibile come l’inflazione primaria quasi sicuramente produrrà effetti destabilizzanti sull’economia. Ed è un’assurdità se si pensa che l’obiettivo della lotta all’inflazione è semmai quello di stabilizzare l’economia. Sembra incontestabile, quantomeno a me, che quei Paesi che dispongono di margini di manovra dovrebbero combinare l’introduzione di misure strutturali per migliorare la produzione potenziale sul lungo periodo e il mantenimento di forti misure di sostegno alla ripresa, monetarie e di bilancio. Il pericolo più grande nell’era del dopo-crisi resta quello di una semistagnazione prolungata, una crescita poco brillante e un’inflazione alta. Questo naturalmente è un giudizio. Ma il giudizio è quello che abbiamo. Usiamolo.” (M. Wolf)
Era da qualche tempo che non commentavo Martin Wolf, e iniziavo quasi a sentire la mancanza delle sue “perle”.
Come molti in questi giorni, Wolf si concentra sul nuovo rallentamento che stanno evidenziando le economie dei paesi più sviluppati. Invece di concludere che gli stimoli fiscali e monetari suggeriti dai keynesiani, lungi dal risolvere i problemi, hanno lasciato il mondo ancor più ingolfato di debiti, mette in guardia da un “ritiro troppo affrettato” degli stimoli.
Si tratta, come ho già notato altre volte, di un classico degli economisti keynesiani: quando le misure da loro proposte non danno i risultati previsti, costoro sostengono nell’ordine che: 1) gli stimoli non erano sufficienti; 2) in ogni caso, non è ancora il momento per pensare a una politica fiscale e monetaria meno espansiva. Così facendo, credono di “salvare” le loro misure dall’essere considerate fallimentari.
Wolf adduce tre motivazioni per concludere che non è ancora tempo per ritirare gli stimoli fiscali e monetari, tra di loro interconnesse. La prima è che i tassi di interesse sui titoli di Stato decennali negli Stati Uniti e in Germania sono bassi, nonostante l’abbondante offerta soprattutto da parte del Tesoro Usa. Sembra dimenticare che l’espansione quantitativa operata dalla Fed introduce una forte distorsione ribassista nei rendimenti di mercato.
La seconda considerazione riguarda la base monetaria, il cui forte incremento non ha avuto ripercussioni sugli aggregati monetari più ampi, ossia M2 e M3, il che testimonierebbe che la liquidità immessa dalle banche centrali non si è trasformata in credito, quindi non c’è da temere dal lato della crescita dei prezzi al consumo. Qui siamo di fronte al classico errore nella valutazione del concetto stesso di inflazione, che continua a non essere corretto dagli economisti mainstream nonostante sia all’origine – per restare alla sola storia recente – delle bolle immobiliari e delle attività finanziarie che hanno generato la crisi ancora in corso. Siccome i prezzi al consumo depurati da prodotti alimentari ed energetici (e qui si innesta la terza considerazione) non crescono in modo vigoroso, Wolf ne trae la conseguenza che la politica monetaria della Fed non presenta rischi, quindi l’espansione quantitativa potrebbe proseguire e sarebbero misure “assennate”. Non so in che mondo viva, e come giustifichi i vigorosi aumenti dei prezzi delle materie prime e delle borse dai minimi di marzo 2009, dato che stiamo ancora parlando di economie sviluppate stagnanti.
Ma, come accennavo sopra, per i keynesiani il fatto che gli stimoli fiscali e monetari non diano mai, se non nel breve periodo, i risultati sperati non è motivo di riflessione autocritica. Per loro oggi le economie stentano a ripartire non perché si è impedito al mercato di liquidare gli investimenti erronei effettuati prima della crisi, bensì perché non glielo si è impedito abbastanza.
E nessuna evidenza empirica fa loro cambiare opinione. Non a caso, Wolf conclude il suo articolo invitando all’uso del giudizio. Il che, a mio parere, significa fare l’esatto opposto di quello che lui suggerisce.