I produttori contro lo Stato
L’accusa agli Stati nazionali centralizzati di essere delle macchine mostruose che consumano in maniera insaziabile le ricchezze prodotte dalla società accomuna, in forme più o meno consapevoli, gli obiettivi politici dei movimenti libertari e dei movimenti indipendentisti. Lo Stato contro cui si ribellano però non è un’astrazione, ma è un sistema organizzato di interessi personali, costituito dalle persone in carne ed ossa che lo gestiscono: una vera e propria classe sociale che vive grazie al prelievo obbligatorio su coloro che lavorano nel settore privato.
Questa contrapposizione è particolarmente visibile in Italia, dove il peso fiscale complessivo sulle imprese raggiunto quasi il 70 per cento del reddito, e dove alcune regioni produttive come il Veneto e la Lombardia subiscono un trasferimento forzato di ricchezza che probabilmente non ha equivalenti al mondo. Solo in Italia, ha fatto notare recentemente Aldo Canovari, esiste una distinzione di rango così marcata tra chi lavora dentro e chi lavora fuori dal perimetro della pubblica amministrazione. Da una parte ci sono i privilegiati che occupano posti super retribuiti e per di più sicuri e garantiti in organismi pubblici centrali o territoriali di natura politica, giudiziaria, amministrativa. Sono queste le persone che nel corso degli ultimi decenni hanno edificato il debito pubblico attraverso sperperi e folli deficit. Dall’altra ci sono i tanti cittadini che producono effettivamente ricchezza e che operano nelle condizioni di rischio tipiche dell’economia: piccoli e medi imprenditori, artigiani, commercianti, agricoltori, autonomi, professionisti, e i milioni di individui che lavorano alle loro dipendenze.
La “cupola” al vertice della casta statale è costituita da circa 500mila/un milione di persone retribuite mediamente cinque volte di più rispetto agli altri paesi occidentali, con redditi e pensioni superiori dalle 10 alle 30 volte quelle di molti lavoratori privati. Queste stesse persone, inoltre, decidono quale debba essere la tassazione necessaria per conservare o accrescere i propri privilegi. Il meccanismo di cui costoro si servono per alimentare i propri stipendi è fondato su metodi fiscali estorsivi a danno dei lavoratori non garantiti (accertamenti induttivi fondati su semplici presunzioni, spesometro, redditometro, tassazione su redditi non conseguiti, solve et repete, ecc.): pratiche incivili e vessatorie sancite dalla legge e supinamente accettate da chi le subisce (Aldo Canovari, “Ghigliottiniamo l’alta burocrazia!”, Il Foglio, 28 febbraio 2014).
Per contrastare questo intollerabile forma di sfruttamento è fondamentale sviluppare una convincente teoria esplicativa dell’attuale fase storica della lotta fra le classi. A tal fine ripercorreremo una serie di contributi intellettuali, elaborati da studiosi di diverse epoche e di diverse nazionalità, che raccolti insieme costituiscono l’impalcatura di quella che si potrebbe definire “teoria liberale della lotta di classe”.
Da Sieyes ai libertarians
L’idea che la presenza dello Stato divida la società in due classi antagoniste si trova per la prima volta nelle polemiche degli scrittori rivoluzionari di fine Settecento contro l’antico regime. Nel suo famoso trattato Che cosa è il Terzo Stato?, scritto alla vigilia della rivoluzione francese, l’abate Emmanuel Sieyes contestò i privilegi legali delle classi che controllavano l’apparato statale. Il Primo e il Secondo Stato, cioè i nobili e il clero, non solo avevano il monopolio delle cariche pubbliche, ma erano esentati dalle imposte e mantenuti dalle tasse pagate dal Terzo Stato, il ceto sociale che costituiva il 98 per cento della popolazione francese e che esercitava tutte le funzioni produttive e commerciali essenziali per la società.
La teoria liberale della lotta di classe abbozzata da Sieyes venne approfondita dagli studiosi francesi dell’età della Restaurazione come l’economista Jean−Baptiste Say, con la sua potente critica della tassazione, e i cosiddetti “industrialisti” (Charles Comte, Charles Dunoyer, Augustin Thierry, Adolphe Blanqui), i quali elaborarono prima di Karl Marx una compiuta teoria della lotta di classe, applicandola a tutti gli eventi della storia passata. A differenza di Marx questi autori ritenevano che fosse il possesso degli apparati di governo, non la proprietà degli strumenti di produzione, che generasse lo sfruttamento e quindi la divisione della società in classi. Nel mondo, scrivevano gli industrialisti, esistono solo due nazioni: gli uomini di libertà e gli uomini di potere. Coloro che producono devono quindi organizzarsi per resistere quelli che amministrano. Il picco della perfezione si avrebbe se tutti lavorassero e nessuno governasse.
Un altro grande economista francese della stessa epoca, Frédéric Bastiat, analizzò in maniera brillante lo sfruttamento politico-burocratico definendolo “spogliazione”. La sua esistenza è un fatto onnipresente nella storia umana, empiricamente osservabile. I predatori si sono storicamente organizzati in Stati, hanno ratificato la loro spogliazione con la legge, e l’hanno magnificata con l’ideologia. Il compito degli economisti, secondo Bastiat, era quello di svelare i trucchi, gli inganni e gli espedienti che usano i predatori per giustificarsi agli occhi degli spogliati. Dietro ogni teoria economica sbagliata, infatti, si cela sempre un’estorsione, perché «per derubare il pubblico, occorre ingannarlo. Ingannarlo è convincerlo che viene derubato per il suo bene». Se la spogliazione non esistesse la società sarebbe perfetta. Ciò che separa l’ordine sociale dalla perfezione, concludeva Bastiat, è proprio lo sforzo costante dei suoi membri di vivere e crescere alle spese gli uni degli altri (Sofismi economici, 1845).
La teoria liberale della lotta di classe ha avuto la sua genesi in Francia, ma i suoi sviluppi più significativi si sono avuti nel mondo anglosassone. La polemica illuminista contro le monarchie assolute aveva infatti trovato fin da subito terreno fertile in America. Thomas Paine, i cui scritti infiammarono i coloni americani che si ribellarono per ragioni fiscali alla Corona inglese, spiegava che la società del suo tempo era composta da due classi di persone, coloro che pagavano le tasse e coloro che le ricevevano e vivevano di esse. Quando le imposte venivano portate all’eccesso si giungeva inevitabilmente alla discordia tra le due. Egli si considerava il campione della causa dei poveri, dei fabbricanti, dei mercanti, degli agricoltori e di tutti coloro su cui pesavano realmente gli oneri fiscali.
Si deve invece a John C. Calhoun, eminente pensatore e vicepresidente degli Stati Uniti dal 1825 al 1832, la fondamentale distinzione tra la classe dominante che beneficia della tassazione (i tax-consumers) e la classe dominata che paga le imposte (i tax-payers). La tassazione per Calhoun crea sempre dei rapporti di antagonismo fra queste due classi. Difatti, maggiori sono le tasse e le erogazioni, maggiore è il guadagno per gli uni e la perdita per gli altri, e viceversa. L’effetto di ogni aumento, quindi, è quello di far arricchire e rendere più potente una parte, e di impoverire e indebolire l’altra (Disquisizione sul governo, 1850).
Ai giorni nostri la teoria liberale della lotta di classe ha assunto una notevole rilevanza all’interno della teoria politica dei libertarians americani, in particolare nei saggi e nei romanzi di Ayn Rand incentrati sulla lotta titanica dei produttori creativi contro le forze burocratiche del male, e nelle opere degli anarco-capitalisti Murray N. Rothbard e Hans-Hermann Hoppe. Secondo i libertari il criterio per distinguere l’appartenenza alla classe sfruttatrice o alla classe sfruttata è di natura morale. I padroni e i beneficiari dello Stato, infatti, sono gli unici individui della società che ottengono le loro entrate non con la produzione e lo scambio pacifico e volontario, ma con la costrizione, cioè minacciando l’esercizio della violenza fisica (l’arresto e la prigione) contro gli altri membri della società.
Vilfredo Pareto e l’analisi della spogliazione
Anche la cultura italiana ha dato importanti contributi alla costruzione di una teoria liberale della lotta di classe. Tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 l’economista e sociologo Vilfredo Pareto utilizzò il concetto di “spogliazione” elaborato da Bastiat per mettere in luce la sistematica attività di sfruttamento posta in essere dagli uomini che controllano lo Stato. In ogni luogo, scrive Pareto, le classi al potere hanno un solo pensiero, i propri interessi personali, e usano il governo per soddisfarli. Ogni classe, infatti, si sforza d’impossessarsi del governo per farne una macchina con cui spogliare le altre.
Il problema, continua Pareto, nasce dal fatto che depredare gli altri per mezzo del governo costituisce un’alternativa molto più facile e attraente del duro lavoro di produzione della ricchezza: «La produzione diretta dei beni economici è spesso molto penosa; l’appropriazione di tali beni, prodotti da altri, è talora assai facile. Questa facilità è stata grandemente accresciuta da quando si è pensato di effettuare la spogliazione non contro la legge, ma a mezzo della legge … Andare a deporre una scheda di voto è cosa assai agevole, e se, con questo mezzo, ci si può procurare il vitto e l’alloggio, tutti e specialmente gli inadatti, gli incapaci, i pigri si affretteranno ad adottarlo» (I sistemi socialisti, 1902).
Poco importa che la classe dominante sia un’oligarchia o una democrazia. Si può dire soltanto che quanto più questa classe è numerosa, tanto più intensi sono i mali che risultano dalla sua dominazione, perché una classe numerosa consuma una quantità di ricchezza maggiore di quella che consuma una classe più circoscritta. Il reclutamento di una folta classe di funzionari, osserva Pareto, riduce in parecchi paesi il numero degli individui che si occupano della produzione della ricchezza. L’eccesso di personale statale comporta quindi un doppio danno alla società: lucro cessante (minor produzione) e danno emergente (spese aggiuntive): «Una delle cause principali della ricchezza dell’Inghilterra e della Svizzera sta nel fatto che, quanto meno fino a ora, la classe degli uomini politici e quella dei funzionari sono ivi assai limitate ed in tal modo non distolgono dalla produzione della ricchezza la maggior parte delle forze vive del paese. Cause opposte operano nel senso di aumentare la miseria in Spagna e in Italia» (Corso di economia politica, 1897).
Purtroppo «quel che limita la spogliazione è di rado la resistenza degli spogliati: sono piuttosto le perdite che essa infligge a tutto il paese e che ricadono in parte sugli spogliatori. In tal modo costoro possono finir col perdere più di quanto guadagnano dall’operazione. Allora se ne astengono, se sono abbastanza intelligenti da avvertir bene le conseguenze che essa avrà. Ma, se manca loro questo buon senso, il paese marcerà sempre di più verso la rovina, come lo si è osservato per certe repubbliche dell’America del Sud, per il Portogallo o la Grecia moderna» (Corso di economia politica, 1897). Parole di oltre un secolo fa che sembrano scritte oggi.
Luigi De Marchi e la rivolta dei produttori
Nell’Italia del XX secolo la vittoria quasi completa delle ideologie stataliste farà cadere nell’oblio la teoria liberale della lotta di classe per molti decenni. Bisognerà aspettare la metà degli anni Settanta perché uno studioso fuori dal coro, Luigi De Marchi, la riproponga nei suoi scritti di psicologia sociale: «I nostri professoroni e professorini al merito catto-marxista continuano imperturbabili a presentarci la classe imprenditoriale come la matrice d’ogni sfruttamento dell’uomo sull’uomo, mentre è da tempo evidente per chiunque sappia guardare la realtà contemporanea con un minimo d’indipendenza critica, che la vera classe parassitaria e sfruttatrice è, nel mondo intero, e da lungo tempo ormai, la classe burocratica» (Psicopolitica, 1975).
Ci fu un periodo, all’inizio degli anni Novanta, in cui sembrava che la Lega Nord avesse, per la prima volta nella storia politica d’Italia, impugnato il vessillo della rivolta dei produttori contro la classe burocratica e i suoi padrini/padroni: i partiti statalisti. Quella dei produttori, spiega De Marchi, è la rivolta contro chi pretende di vivere nell’ozio e nella sicurezza alle spalle di chi vive nella fatica e nell’insicurezza. Chi vive davvero del proprio lavoro e, pena la disoccupazione o il fallimento, deve saper produrre beni e servizi apprezzati dall’utenza e dai consumatori, non intende più essere rapinato e vessato da una classe parassitaria e sfruttatrice che si autodefinisce, con la benedizione delle sinistre e delle altre forze stataliste, tutrice della gente debole e del pubblico interesse.
Nella prospettiva psicopolitica di De Marchi il Burocrate e i Produttore rappresentano due modelli opposti di personalità. Per il Burocrate, infatti, «il reddito non è il frutto di un lavoro richiesto e, tanto meno, apprezzato da una platea di utenti o consumatori o clienti, che possono rivolgersi altrove se non vengono accontentati. L’attività del burocrate, quando esiste, è di solito un rituale inutile e defatigante imposto a un’utenza coatta in regime di monopolio. E il redito non ha nessun rapporto con la qualità del lavoro prestato, ma è solo il magico dono di un superiore o di un Ente altrettanto inutile del suo dipendente. Nell’universo infantile dei burocrati il successo dipende solo dal favore dei potenti. Nel mondo dei produttori, ognuno è fabbro della sua fortuna. La personalità del Burocrate è strutturalmente incline al conformismo e al formalismo. Quella del Produttore è fondamentalmente autonoma, pragmatica, realistica» (Perché la Lega. La rivolta dei ceti produttivi nell’Italia e nel mondo, 1993).
Gianfranco Miglio e la teoria del parassitismo politico
Un’importante esposizione scientifica della teoria liberale della lotta di classe si trova negli scritti di Gianfranco Miglio risalenti agli anni del suo impegno politico. Miglio introduce infatti la contrapposizione irriducibile tra l’obbligazione contrattuale e l’obbligazione politica. La prima nasce dallo scambio volontario tra due soggetti posti su un piano di parità, la seconda è invece l’effetto dalla coercizione politica esercitata da alcuni soggetti che si fanno forti dell’autorità dello Stato. L’obbligazione politica, spiega Miglio, è la fonte della “rendita politica”, cioè dei vantaggi parassitari di alcuni gruppi privilegiati a danno di altri.
Lo Stato centralizzato contemporaneo cerca di seminare nebbie attorno a questo suo operato, camuffando i trasferimenti da alcuni cittadini ad altri mediante strumenti sempre più fantasiosi ed efficaci, come l’inflazione, il debito pubblico, le imposte indirette, le tasse occulte. La verità, spiega Miglio, è che «in ogni momento storico gli individui che fanno parte di una comunità politica si dividono naturalmente in produttori e consumatori di tasse. Quando i consumatori di tasse prendono il sopravvento tramite le assemblee politiche e considerano i produttori i propri schiavi fiscali, la struttura parassitaria mette in crisi tutta la comunità politica. A quel punto o si riforma totalmente il sistema, o ci si rassegna alla rivoluzione che, per definizione, non è pilotabile» (Federalismo e secessione, 1997).
Miglio interpreta la contrapposizione territoriale tra le diverse aree del paese come un riflesso dell’antagonismo tra classi produttrici e parassitarie: «Chi lavora, produce e paga imposte si è accorto finalmente di essere il maltrattato, eterno e inutile di una legione di “parassiti” e ha incominciato a cercare un nuovo difensore politico. Intendiamoci: considerata l’inclinazione congenita dell’homo sapiens a vivere alle spalle degli altri, in ogni convivenza ci sono sempre degli sfruttati più o meno ignari e degli sfruttatori più o meno consapevoli. Il gioco però dura soltanto finché i primi non si accorgono della loro condizione; allora l’incantesimo si rompe: i tributari si ribellano e cessa la pacchia per i parassiti. Ma proprio questi ultimi non si rassegnano facilmente a perdere i loro privilegi e combattono duramente per mantenere il “sistema”» (Per un’Italia Federale, 1990).
Proprio come Frédéric Bastiat, al quale la morte prematura impedì di portare a termine un trattato sulla spogliazione, anche il professore comasco negli ultimi anni della sua vita aveva espresso il desiderio di scrivere un testo di “teoria pura del parassitismo”. «Il capitolo rimasto da scrivere della politologia moderna – disse al suo allievo Alessandro Vitale – è quello dei ceti parassitari, sui quali non esiste ancora letteratura; soprattutto non vengono approfonditi in maniera sistematica i rapporti parassitari entro le comunità politiche. Questo è quello che dovrebbe essere studiato a fondo». Questa opera avrebbe dato un contributo inestimabile alla scienza della politica, e sarebbe stato il suggello della sua carriera intellettuale.
Ma il blog di nlibertario non esiste più? qualcuno ha notizie?
exellent !!!
Ho letto il tuo post sul nazional-libertarianismo. Credo che si rifaccia sostanzialmente al concetto di “nazione per consenso” già analizzato da diversi pensatori libertari. Quindi, nessuna contraddizione col libertarismo, anzi!
Col tempo e con l’affinarsi del mio modo di ragionare sono giunto alla conclusione che il sistema poliarchico sia il più coerente col pensiero libertario, col principio di non aggressione e col concetto di comunità volontarie. E cosa sono le comunità volontarie di un sistema poliarchico se non una miriade di “nazioni per consenso”, addirittura de-territorializzate?
Ti ringrazio per avermi letto. Sì, è un pò quello che intendevo io, sarà perchè al pensiero libertario mi sono avvicinato recentemente e sarà perchè spesso i libertari che ho conosciuto parlano a mio avviso un pò astrattamente di “mondo senza confini” senza però tenere conto delle complessità che girano intorno
Grazie a lei. Conoscevo quel libro, ma non ero ancora riuscito a trovarlo. Ci farò un pensierino ;-)
Qualcuno mi chiedeva il link del mio blog. Eccolo qui, ho anche scritto un post in cui si riporta questo saggio.
http://nlibertario.blogspot.it/
Ti ringrazio per il rilievo dato al mio articolo.
Sul blog ho letto il tuo interessante scritto sul nazional-libertarismo. Per approfondire l’argomento della concezione libertaria della nazione ti consiglio questo libro pubblicato da Facco:
RENAN, ROTHBARD, Nazione cos’è:
http://www.libreriadelponte.com/det-libro.asp?ID=83
Saluti
Signor Dragonetti, capisco il suo punto di vista ma le faccio una domanda: lei ritiene giusto che esista un’entità superiore in grado di redistribuire i pani e i pesci al popolo perchè esso da solo non può crearsi la ricchezza? E chi lo dice che da solo non può farlo? Perchè l’uomo dovrebbe sempre dipendere da qualcuno sopra di lui? Guardi che le lobbies e le grandi banche si crearono proprio così. Il banchiere un giorno andò dal politico e gli disse: guarda, non riesco a fare abbastanza profitto aiutami a diventare più ricco con le tue leggi. E così è stato, non le pare a lei?
Quindi parafrasando la frase di Pippo: “Non è strano come una discesa dal basso sembri una salita”?
le rispondo subito: se vivessimo in una società tribale non ci sarebbe bisogno dello Stato, lo Stato sarebbe il capovillaggio ei suoi vice. In una società tribale composta da massimo un centinaio di persone non esiste il denaro, ma ognuno ha il suo compito e nessuno è disoccupato.Una società tribale è l’esempio di una società dove non esiste la disoccupazione.Quindi la disoccupazione è il problema di una società complessa che non funziona da un punto di vista macroeconomico. In una società di molte persone il denaro è uno strumento necessario per vivere e lo Stato ha la funzione del capovillaggio in rapporto molto piu grande. Lo Stato non totalitario economicamente parlando, cioè uno Stato non comunista, svolge il ruolo di garantire la piena occupazione di tutti gli abitanti in armonia col l’impresa privata avendo l’autorità esclusiva di creare moneta ossia di essere il vero motore dell’economia sia tramite pagamento delle commesse ai privati sia dando lavoro e formazione direttamente, il tutto senza nessuna sopraffazione dell’iniziativa privata perchè il vero statalismo è contro l’iniziativa privata: comunismo.Il popolo non riesce a garantire da se la piena occupazione al di fuori di un piccolo gruppo.
Quindi o c’è la società tribale di poche persone o c’è l’anarchia totale. Oggi non possiamo vivere senza denaro e la tragedia di oggi è che il denaro invece che essere creato dallo Stato viene creato dagli Istituti di credito privato con interessi piu o meno usurai il che vuol dire impoverire la gente perchè gli interessi vengono prelevati in varie forme dalle tasche delle persone (diminuire il debito pubblico).
Le lobbie bancarie mi sembra che siano in piena simbiosi con i politici liberisti.I politici liberisti dal 1981 in poi non hanno fatto altro che aiutare i banchieri ad arricchirsi a dismisura grazie alla dottrina liberista nelle varie forme. Un popolo senza Stato può esistere sono in forma tribale.
Parlate di tasse eccessive di stato parassitario.Voi liberisti siccome non capite nulla o quasi dell’economia reale( basta pensare a quello che ha scritto l’incompetente sulla stampa della moneta della banca centrale qualche giorno fa non ne ha azzeccata una https://www.movimentolibertario.com/2014/05/stampare-valuta-non-rende-ricchi/) non sapete o fate finta di non sapere che oggi i veri parassiti sonno gli istituti di credito privati che di fatto hanno preso il posto dello Stato ma a differenza dello Stato impoverisce la restante parte della gente il 99% della popolazione. Ogni anno lo Stato Italiano deve a questi parassiti (le banche PRIVATE) che si arricchiscono a scapito della gente , lo Stato deve 80 miliardi di interessi sul denaro che lo Stato riceve da questi istituti di credito privati in cambio di titoli di Stato e questo denaro elettronico le banche private lo creano dal nulla in modo del tutto illegittimo. Lo sapete liberisti cosa sono 80 miliardi di euro? sono 4 volte le spese per la cassa integrazione annuale. E questo denaro i politici liberisti collusi con le banche li prendono dalle tasse.Per una loschissima regola del liberismo uno Stato con o senza euro deve finanziarsi dai “””””””mercati”””””””” termine tecnocratico per dire le banche private(LE BANCHE PRIVATE non danno allo Stato il denaro dei depositi ma lo creano dal nulla).Quindi deve alle banche private una quantità enorme di interesse.
Lo Stato non è parassita di nessuno e se ha la moneta sovrana si crea la moneta da se tramite la banca centrale senza nessun interesse a nessuno e finanzia la spesa pubblica con poche tasse perchè uno Stato può creare moneta quanto ne serve. Siccome di economia reale non capite nulla o fate finta di non capire, negate il fatto che la moneta è uno strumento di scambio che viene continuamente creato e distrutto tramite le imposte, non è un circuito chiuso come credete e volete far credere, i cittadini non finanziano lo Stato perchè i cittadini non creano moneta.Le tasse non servono per finanziare lo Stato le tasse servono per regolare il tasso di inflazione in una economia sana, nella economia di oggi dell’euro e delle banche private ossia i veri dominatori dell’economia , le tasse servono per pagare gli interessi sul cosidetto “debito pubblico “(che di debito non ha proprio nulla , debito è un altra parola inventata dal liberismo per imbrogliare chi ci non capisce nulla, è ricchezza prodotta dallo Stato) ossia sul finanziamento annuale che lo Stato necessita e che chiede alle banche private.Le banche private si cuccano tutti i soldi delle tasse o quasi tutti e così si arricchiscono a scapito della gente.Ecco chi sono i veri parassiti. Il vostro “statalismo” può avere un senso in una nazione dove era vietata:
-la iniziativa privata
-il risparmio privato
-la proprietà privata
Qui aveva un senso il termine statalismo, ma lo statalismo è finito 25 anni fa col comunismo.
All’inizio divertivi. Ora i tuoi deliri statalisti hanno stancato.
“Ogni anno lo Stato Italiano deve a questi parassiti (le banche PRIVATE) che si arricchiscono a scapito della gente , lo Stato deve 80 miliardi di interessi sul denaro che lo Stato riceve da questi istituti di credito privati in cambio di titoli di Stato”
Pur ammettendo che lei abbia ragione, devo farle rilevare che ogni anno lo stato italiano priva i propri cittadini di 700 mld di euro di denaro che per la maggior parte (eliminando la spesa sanitaria, ma non tutta) va a far ingrassare tutte le poltrone burocratiche inutili sparse nel mondo.
Grazie per la disponibilità.
In verità ho aperto recentissimamente sul blog e praticamente non ho ancora potuto scrivere nulla. Appena pubblicherò il mio primo articolo fornirò anche il link, sperando di scrivere il più possibile a profusione coniugando studio, lavoro e tempo libero
Grazie ancora !!!
Bene!
Buonasera a tutti, e in particolare al padrone di casa. Ho aperto di recente un piccolo blog libertario e volevo sapere se era possibile condividere e citare questo articolo che ritengo molto interessante.
Grazie in anticipo.
ASSOLUTAMENTE SI’. CITI PURE! GRAZIE E BUON LAVORO
Ci dia anche il link, per favore.
Caro Guglielmo, quando leggo i tuoi saggi provo un enorme piacere nel sapere di essere nel giusto, anche quando il giusto pare non essere riconosciuto – né riconoscibile – in questo paese di parassiti di ogni specie.
Caro Leo, quello che dici mi riempie di soddisfazione.
Quello che scrivi mi riempie di certezze.
Esatto: coerenza e principii sono l’unica arma a nostra disposizione. Probabilmente le persone sono poco avvezze alla logica ed al ragionamento, ma i (seppur minimi) risultati della divulgazione delle idee libertarie (anche io, Mauro, sono stato un libberale della specie incoerente, per diversi anni, prima di rendermene conto) ci fanno capire che così come appena 10 anni fa l’esistenza del libertarismo fosse nota forse a 10 persone in tutta Italia, oggi parliamo di migliaia di persone.
Si tratta anche di avere pazienza.
Secondo me invece è un errore separare i vari strati del problema.
Non esiste il piano burocratico, quello politico, quello statale, quello democratico, quello sovranistico, quello economico. L’alta, la media e la bassa burocrazia, la politica centrale e quella locale, la giustizia tributaria, penale, civile, etc etc.
Tout se tient. Non è possibile indirizzare i problemi in maniera separata. L’unico modo per affrontarli in modo coerente (dico affrontarli, non risolverli) è sottoporli tutti all’esame di una teoria rigorosa.
I maestri del libertarismo e dell’economia austriaca ci danno le chiavi di lettura per capire se ogni provvedimento, ogni proposta, ogni analisi va nella giusta direzione o se ne allontana ulteriormente.
Questo, almeno, è il modo in cui il libertarismo mi sta aiutando a capire. Io stesso ero un “libbberale moderato e realistico” prima di scoprirlo. Ora contemplo i bei risultati del liberalismo realistico e compromissorio.
Se il singolo capisce, ed è capace di unire pensiero ed azione, può migliorare la propria condizione, se diverse persone capiscono, possono creare una comunità intellettuale e diffondere queste idee, se molti capiscono possono influenzare la realtà.
Cultura e rigore teorico “senza compromessi”. IMHO
Bravo Mauro!
Grazie a te. E a Piombini, Birindelli e tanti altri che ho nel cuore e nella mente.
:-)